Contemplare l'universo con un cervello di gatto - Lucy
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Nicola Lagioia

Contemplare l’universo con un cervello di gatto

Scienza e metafisica, etica e sacrificio, Bucarest e il mondo fuori dalla nostra limitata capacità di percepirlo: Mircea Cărtărescu, uno degli scrittori più interessanti della sua generazione, si racconta.

Che Mircea Cărtărescu fosse uno degli scrittori più interessanti della sua generazione è diventato chiaro con la pubblicazione della trilogia di Abbacinante. I tre volumi, pubblicati tra il 1996 e il 2007, hanno rivelato uno scrittore di grande forza immaginativa e rara sensibilità.

Grazie a lui, la scena letteraria internazionale ha dovuto guardare a Bucarest come non succedeva da tempo. Solo che poi nel 2015 è arrivato Solenoide, un romanzo capace di segnare un’epoca.

Per quanto sia impossibile riassumerne la trama, Solenoide segue la vita di un anonimo professore di Bucarest che abita in una strana casa a forma di nave e si aggira per le strade di una città in rovina, la quale tuttavia – come la San Pietroburgo di Dostoevskij, la Dublino di Joyce, la Vienna di Musil – diventa il luogo d’elezione per affrontare il mistero dell’intera avventura umana. 

In certi casi i capolavori della letteratura hanno spostato storicamente la nostra percezione delle cose, ciò che fino al momento della loro comparsa sembrava impossibile. Solenoide lo fa per l’inizio del XXI secolo.

In Italia i libri di Cărtărescu sono tradotti da Bruno Mazzoni. È lui il valoroso ambasciatore dello scrittore rumeno nel nostro paese. Oltre ad averla tradotta, Mazzoni ha fatto da tramite per l’intervista che segue.

Vorrei partire da Bucarest. Leggendo i tuoi libri, in particolare Solenoide, non ho potuto fare a meno di pensare a ciò che Joyce riuscì a fare con Dublino: una città considerata poco centrale sulla mappa d’Europa (perlomeno rispetto a Parigi, Londra, Berlino) diventò uno dei baricentri della letteratura di quel tempo.

Leggendo Solenoide mi sono vergognato di conoscere così poco la tua città.

Al tempo stesso la sentivo vicinissima, intima, mi sono scoperto ad amarla pur senza esserci mai stato. Soprattutto, mi sembrava che Bucarest fosse un teatro perfetto per quel portentoso esperimento esistenziale, percettivo, metafisico che è al centro di Solenoide. Mi piacerebbe sapere che rapporto hai con la tua città.

Caro Nicola, mi dà un’indicibile gioia l’interesse che tu mostri, con grande generosità, verso i miei scritti. Essi hanno bisogno, in realtà, di lettori esperti, buoni conoscitori dell’impianto letterario, persone che non leggono libri e basta, ma leggono l’atto stesso della lettura.

Io mi sono sforzato, per quasi mezzo secolo, di comprendere cos’è l’arte di scrivere, in che modo essa contribuisce alla conoscenza, come può un libro di letteratura essere allo stesso modo fondamentale quanto una teoria scientifica, un sistema filosofico o una visione celeste.

Spesse volte uno scrittore è visto come un autore di storie. La storia è però soltanto il primo livello dell’arte di scrivere, il più semplice e più genuino.

Perché un romanzo sia vero, esso deve elevare la storia all’altezza del mito, e il mito all’altezza della rivelazione. Un libro che non porta un contributo nel campo della conoscenza umana vivrà un istante e poi sparirà.

Bucarest è stata per me, fino all’età di 34 anni, quando ho potuto andare per la prima volta all’estero, l’unica città dell’universo. Come tutti gli scrittori della mia generazione, non avevo potuto sperare, durante il periodo comunista, di viaggiare per il mondo.

Bucarest era l’unica mia esperienza urbana, il centro del mio mondo e un luogo letteralmente incomparabile, poiché non avevo alcun termine di paragone con le grandi città del mondo.

La natura umana è quella di un bricoleur. Essa crea un mondo a partire dal materiale che ha a disposizione. Io non ho avuto come possibile fondale dei miei libri una qualche megalopoli come New York, Londra, Parigi o Berlino.

Come un bimbetto povero, che si costruisce un’automobilina con delle assi di legno, con dei cuscinetti a sfera come ruote, io ho utilizzato per le mie necessità il luogo in cui vivevo: il bizzarro conglomerato di Bucarest, città promiscua, irregolare, semi-orientale, obsoleta, in rovina, male organizzata, kitsch come una torta nuziale, in cui la vita è una continua tortura, dove i tram non arrivano, dove le persone ti passano accanto con volti da degenti di ospedali psichiatrici.

Nei miei libri Bucarest è fatta di strati di memoria filogenetica e ontogenetica. Filogenetica, perché ha edifici del 1800, straripanti nelle vie quasi fossero femmine possenti, con allure stendhaliana e perle calcificate al collo, altri del 1900, neoclassici, ma anneriti come fossero denti marci (in centro l’Università – che incubo! – con muri sottili come un foglio di carta, con l’eterno pericolo di crollare alla prima scossa sismica), poi le ville Jugendstil, decorate con ogni sorta di creature mitologiche di gesso rosa, le ville Bauhaus simili a giochi fatti di cubi per l’infanzia, con finestroni tondi infiammati dal sole, per finire con il brutalismo comunista che ha prodotto gli scatoloni-spazzatura dei bloc abitati da single, delle fabbriche di mattoni e acciaio profilato, dei depositi arrugginiti di tram.

Ho avuto una grande fortuna con questa città. Che cosa avrei potuto scrivere di Parigi? Quanto ospitale è Londra per un romanziere? La mia Bucarest appartiene alla famiglia delle città putrescenti, in una condizione di trascuratezza malinconica, simile all’Alessandria di Lawrence Durrell o alla San Pietroburgo di Dostoevskij.

Non ho avuto, come materia con cui lavorare, la plastilina profumata che si trova nei negozi di giocattoli, sicché ho utilizzato l’argilla molle, sporca, che ho raccolto con le mie mani dalla riva della Dâmbovița, il corso d’acqua che divide in due la mia città.

La mia Bucarest appartiene alla famiglia delle città putrescenti, in una condizione di trascuratezza malinconica, simile all’Alessandria di Lawrence Durrell o alla San Pietroburgo di Dostoevskij.

A livello ontogenetico, perché Bucarest ha anche altri strati, questa volta non della sua storia, ma della mia propria storia.

C’è una differenza enorme fra la città della mia infanzia, quando conoscevo solo alcune vie, quando un’andata in centro era come un viaggio in Tibet, quando una sala cinematografica mi pareva una cattedrale, quando esistevano ancora rivendite per riempire i sifoni da selz, lustrascarpe a un angolo di strada, rimagliatrici che riparavano calze di nylon chiuse in minuscoli bugigattoli di vetro, ubriachi che dormivano di traverso sui marciapiedi; la città della mia adolescenza, raccolta intorno al liceo come dei parrocchiani intorno a una chiesa, con passeggiate interminabili sotto la luna piena, con un libro di poesie nella tasca della giacca dell’uniforme liceale; quindi la Bucarest dei miei anni di università, con i suoi autunni fatti di pulviscolo scintillante nell’aria, con i film d’autore visti alla Cinemateca (soprattutto pellicole in seppia di Fellini, e Tarkovskij per quanto era possibile), con i noiosi seminari seguiti da discussioni letterarie nei caffè del centro… Ogni strato di questa città onfalica è diventato in fin dei conti come uno strato freudiano della mia mente, sicché alla fine, in Abbacinante e in Solenoide soprattutto, ma in realtà in tutti i miei libri, Bucarest è un alter ego, un mio gemello su cui scriverei all’infinito…

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Sempre su Bucarest e sulla Romania. Avevi 33 anni nel 1989, quando crollò il regime di Ceaușescu. All’epoca avevi pubblicato già i tuoi primi libri.

Che ricordi hai di quel periodo come giovane uomo e come scrittore? Esiste un Cărtărescu pre- e post- 1989?

Te lo chiedo perché, leggendoti, mi sono chiesto com’è possibile che Bucarest diventi in Solenoide una sorta di stargate in modo così naturale e credibile.

Al di là del tuo innegabile talento, sarebbe una cosa difficilmente immaginabile in un romanzo ambientato nella Parigi o nella New York del secondo Novecento.

Una delle risposte che mi sono dato – oltre alla persistenza del fantastico nella letteratura rumena – è che il crollo di un potere rivela spesso qualcosa di invisibile.

A volte mi sento come se fossi una penna stilografica, uno strumento fatto esclusivamente per scrivere e non utilizzabile per nient’altro. E proprio come una stilo, mi sento parimenti incapace di scrivere da solo: per poter compiere il mio destino nel mondo devo essere tenuto fra le dita di una mano, dalla quale dipendo completamente.

Ho percepito sempre che non sono io che scrivo, ma che si scrive tramite me. Non sono fiero dei miei libri, ma solo infinitamente grato che essi abbiano scelto me per venire al mondo.

Io scrivo senza alcuno sforzo, senza editing, dal primo all’ultimo carattere di un libro, come se il testo esistesse già sulle pagine, ma ricoperto da una pellicola bianca. Io non faccio che raschiare quella pellicola, come si fa col gratta e vinci, sperando di trovare la combinazione vincente.

Ogni giorno, dopo che ho terminato, nel mio studio, la porzione di testo scritto, ritorno alla mia vita abituale nella quale, in pratica, non penso per nulla al libro cui sto lavorando. Esso esiste, gode di buona salute, si realizza da solo.

Sono come una donna incinta, che non sa in alcun modo come si sviluppa il feto dentro il suo ventre. Per me, scrivere non è una professione né tantomeno un’arte: è una questione di fede.

Credo che la mia mente sia idonea a scrivere un romanzo. Non mi occorre altro perché mi metta a scrivere.

Ho scritto così da sempre, senza cancellature, senza pagine strappate, senza cambiamenti. Senza un progetto che precedesse il libro. Senza documentarmi. Per questo non posso dire che la rivoluzione del 1989 ha modificato qualcosa della mia scrittura.

Nell’ultimo decennio della dittatura ho pubblicato tre libri di poesia e un volume di racconti, tutti orribilmente mutilati dalla censura. Non esiste alcuna differenza fra questi e tutto ciò che ho pubblicato dopo il 1989.

Ho percepito sempre che non sono io che scrivo, ma che si scrive tramite me.

Da qualche parte dicevo, scherzando, che una rivoluzione non è sufficiente a modificare il mio stile. All’indomani della rivoluzione ho ripubblicato tutto ciò che avevo scritto prima, fino all’ultimo verso, aggiungendo le pagine espunte dalla censura.

Relativamente al fantastico, sì, la letteratura romena è imbevuta di fantastico, gronda di fantastico. È possibile che tutto provenga da Mihai Eminescu, il genio romantico che ha scritto racconti sulla metempsicosi, o da Mircea Eliade, magnifico autore di letteratura iniziatico-mitica.

Per quel che mi riguarda, io non distinguo troppo bene il realismo dal fantastico, preferisco fonderli nel termine unico di finzione. Essendo finzione, tutta la letteratura è, di fatto, fantastica, persino gli scritti più “realisti”. I mondi presenti nei libri sono mondi irreali, costruiti, anche se a volte, come in Balzac, mimano la condizione quotidiana.

Io non descrivo mondi, ma li vivo, con tutto il mio essere, con il mio coté diurno e con quello notturno, con i miei occhi e con il mio occhio pineale. I miei libri sono conoscenza, essi rappresentano la realtà nella sua totalità, dal reale all’onirico e dallo scatologico all’escatologico.

Il reale e il fantastico fluiscono l’uno nell’altro, senza che sia possibile dire dove finisce l’uno e dove inizia l’altro, come sopra un nastro di Möbius. Poiché la realtà, in definitiva, è semplicemente un altro sogno, prodotto comunque dalla nostra mente.

Dopo che ho terminato un libro è come se fossi guarito da una nevrosi profonda, che voglio dimenticare quanto prima possibile. Perciò non rileggo mai i miei libri, non penso a essi e non li aiuto a vivere nel modo.

Credo che avesse ragione, in questo, Kafka quando scriveva che la vita di un libro comincia dopo la morte del suo autore, quando non gli è più possibile fare nulla per esso. Alla fine di ogni mio scritto sento anch’io di morire simbolicamente per lui. A partire dalla sua pubblicazione, il libro non è più sotto la mia tutela: entra sotto la protezione di un altro custode, il lettore.

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In Solenoide uno dei temi ricorrenti è quello del piano d’evasione. Evasione dell’essere umano dalla propria scatola cranica, dal proprio apparato sensoriale, dalla propria dimensione.

Com’è il mondo fuori dalla nostra limitata capacità di percepirlo? In pochi libri ho sentito in modo così urgente questa domanda.

In un lontano passato, quando non eravamo sapiens, abbiamo sentito il mondo in modo molto diverso da come facciamo ora. Lo sentiremo in modo diverso in un futuro remoto. Se non ci estingueremo, diventeremo qualcos’altro. L’homo sapiens, più che un punto di arrivo, è probabilmente il capitolo di una storia potenzialmente infinita.

Come saremmo se fossimo un altro tipo di entità? Chi o cosa saremo dopo? Sono temi che difficilmente siamo abituati a trattare (anche ragionando in termini artistici o filosofici), ma su cui il tuo libro ci riporta in modo molto intenso.

L’essere umano però (si capisce anche leggendo Solenoide) è quella creatura che non si accontenta di aspettare migliaia di anni per diventare qualcos’altro, vuole realizzare un qualche tipo di trascendenza subito, nell’arco della propria vita individuale, o almeno accelerarla.

Come ti immagini, fuor di letteratura, questo tipo di accelerazione? A me vengono in mente le tecniche di meditazione, l’ascesi, gli psichedelici, l’uso della scienza e della tecnica (dalla AI alla manipolazione genetica all’impianto di microchip nel cervello).

Quando ci penso con la dovuta intensità finisco però sempre per sentirmi disorientato, come se mi fossi spinto troppo in là. Ho l’impressione di intravedere qualcosa per un attimo e subito dopo mi sembra di sbattere contro un muro.

Ma vorrei sapere come la pensi tu, che su questi temi sei riuscito a scrivere pagine di rara bellezza.

Mi piacerebbe tantissimo poter rispondere a queste domande, ma esse superano di molto le mie competenze, e forse sopravanzano la stessa competenza umana. Uno scrittore non è altro che un essere umano in grado di porre domande impiegando uno strumentario specifico, diverso da quello dell’uomo di scienza, del matematico, del filosofo o del mistico.

Kafka non è Einstein, però le sue parabole descrivono ugualmente bene il mondo infinito e inconoscibile che è intorno a noi, come del resto le teorie einsteiniane. Il mondo quantico, nella sua assurdità e anti-intuitività, è più vicino alla poesia della fisica di Newton.

Di fatto, all’interno della logica della letteratura viviamo in un immenso poema con estensioni logico-filosofiche e mistico-matematiche, che ciascuno di noi prova a leggere utilizzando il proprio misero cervello, un plesso di un chilo e mezzo di materia cerebrale rinchiuso in un guscio di calcare. Come ogni essere umano, lo scrittore pone interrogativi giovandosi della talea divina innestata nel suo corpo di mammifero: lo spazio logico e il linguaggio.

L’accesso allo spazio logico è la conquista suprema della vita su questa terra. Tramite esso possiamo porre domande, il che non significa però che ci venga anche data risposta. Per potere ricevere risposte dovremmo accedere a uno spazio iper-logico e a un iper-linguaggio che sia, rispetto allo spazio logico, ciò che lo spazio logico è a fronte dello spazio sensoriale: un gradino più in alto nella conoscenza dell’inconoscibile e nella comunicazione dell’incomunicabile.

Soltanto così è possibile evadere dalla condizione umana, e non mediante l’ampliamento orizzontale del campo della conoscenza. Chi è al corrente col progresso scientifico e filosofico odierno ha osservato che da due decenni in qua ci troviamo in un’impasse, come se fossimo giunti ad un limite che la nostra mente non è più in grado di superare.

Per comprendere realmente il mondo quantico dovremmo sviluppare un altro strato di materia grigia all’interno del cervello o, semplicemente, nascere di nuovo, dal fango della terra e dall’alito divino, come nella parabola biblica. Ci troviamo sopra un gradino della capacità di comprendere all’interno di una scala infinita. Un gatto, posto sul gradino precedente, non soltanto non capisce come fa il suo padrone ad accendere la luce dentro casa, ma nemmeno capisce che dovrebbe comprendere. Se gli si mostra col dito la scodella col cibo, lui guarda il tuo dito. E noi, nel fare attività scientifica, fissiamo il dito dell’intelligenza universale piuttosto che guardare verso ciò che essa ci indica.

Da questa esasperazione del non poter conoscere, di essere murati dentro una minuscola caverna all’interno di una montagna di una circonferenza infinita, trae origine tutta la creatività umana: le equazioni, le parabole, la riflessione filosofica, la poesia. Cerchiamo di sbriciolare, centimetro su centimetro, la montagna infinita che ci sta intorno, come i carcerati che scavano il muro della cella con un manico di cucchiaio.

Resta sempre il sogno che potremmo un giorno evadere sollevandoci perpendicolarmente sulla tridimensionalità del mondo, accedendo alla quarta dimensione. Per questo, però, il gatto dovrebbe avere all’interno del cranio un cervello umano.

Per comprendere realmente il mondo quantico dovremmo sviluppare un altro strato di materia grigia all’interno del cervello o, semplicemente, nascere di nuovo, dal fango della terra e dall’alito divino, come nella parabola biblica.

Nei tuoi libri scienza e metafisica non sono avversari e non sembrano escludersi a vicenda. Questi due mondi dovrebbero tornare a dialogare, e a mescolarsi, come accadeva qualche secolo fa?

Sia la scienza, sia la metafisica sono giunte oggi in spazi estranei all’abituale vita umana, laddove tutti gli impulsi naturali e le nostre forme di pensiero, modellate dal bisogno di sopravvivenza, sono sistematicamente contrastati.

Come può un oggetto essere allo stesso tempo corpuscolo e onda? Com’è possibile sostituire le certezze con le probabilità? Come possono essere in relazione due particelle abbinate a livello quantico anche se collocate a miliardi di chilometri di distanza, e che comunicano, apparentemente, all’istante? Come mai un orologio sul tavolo e un orologio sotto il tavolo indicano due ore differenti? Com’è possibile immaginare una selezione naturale degli universi?

Non ci troviamo più nel campo rassicurante della scienza classica, ma nel paese delle meraviglie di Alice. Siamo in realtà all’interno della poesia, là dove si conciliano tutti gli interrogativi privi di risposta.

Oggi, tutti i campi della conoscenza diventano poesia, come in una grande conciliazione somigliante al sincretismo originario. La religione è poesia, la filosofia è poesia, la matematica è poesia, l’arte è poesia, la scienza è poesia. Poiché la poesia è il presentimento incantato di certi territori in cui non arriveremo mai.

Alla fiera del libro di Guadalajara, dove hai ricevuto un premio importante, mi è capitato di assistere a una scena divertente ma istruttiva. Alcuni scrittori latino-americani stavano dicendo che esiste una identità culturale europea mentre difficilmente si potrebbe dire lo stesso per l’America Latina.

Al che, degli scrittori europei lì presenti hanno subito protestato: secondo loro era vero l’esatto contrario. Ci sono europei che sostengono di capire di esserlo solo una volta fuori dal continente.

Una volta Javier Cercas, parafrasando Sant’Agostino che si interrogava sul mistero del tempo, disse: “se nessuno mi domanda cos’è l’Europa, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più”.

Leggendo i tuoi libri, mi sono sentito scaraventato nel cuore della cultura europea, qualunque cosa sia. Forse per la radicalità delle domande che il libro pone e per il coraggio della visionarietà, tenendo conto che nella tradizione europea – da Bruno a Einstein, da Freud a Nietzsche, da Kandinskij a Picasso – il rovesciamento di paradigma, la messa in discussione di un precedente ordine, sembra essere una costante.

Ti senti molto anche uno scrittore europeo?

Io credo che la letteratura sia innanzitutto un fatto individuale, che dipenda molto più dalle strutture profonde di ciascun autore che non dal mondo da cui egli proviene. In realtà, il mondo degli scrittori non è il paese o il continente in cui essi sono nati, quanto piuttosto la biblioteca che essi hanno in comune ovvero, come diceva Eco, “la loro enciclopedia interiore”.

Non credo sia decisivo il fatto che Vargas Llosa è peruviano, che Thomas Pynchon è americano e che Bohumil Hrabal è ceco. Come che sia, io non li leggo come esponenti di una letteratura, ma come potenti individualità, nutrite con il medesimo flusso di idee che è possibile far risalire fino a Socrate, a Gesù e ad Omero.

Non dispongo gli scrittori negli scaffali della mia biblioteca in base alla nazionalità o all’epoca in cui hanno scritto.

Sì, sono un autore “europeo” nell’accezione dell’umanesimo che il termine presuppone, del fare propria una serie di valori politici, etici ed estetici, di un’ascendenza culturale, di un modo d’intendere la mia stessa arte. Ho messo però volutamente fra virgolette il termine “europeo”, poiché esso non può essere preso alla lettera, ma solo a livello metaforico.

Non sono eurocentrico, bensì culturo-centrico, e le culture che prendono parte al mio maelstrom di base sono parecchie, quelle classiche, quelle bibliche, quelle asiatiche, quelle latino-americane e così via dicendo.

Amo la letteratura per la sua diversità culturale, ma soprattutto per quelle decine di grandi scrittori e grandi scrittrici che ho avuto fino ad oggi la fortuna di leggere.

Un altro tema ricorrente in Solenoide è quello della casa in fiamme da cui si deve decidere se salvare un neonato o un capolavoro dell’arte. Potrebbe ricordare il celebre passo dei Fratelli Karamazov in cui Ivan si interroga sulla sofferenza dei bambini.

Poi, però, alla fine del tuo romanzo, la dea oscura, la statua della Dannazione, chiede all’io narrante di scegliere chi risparmiare dalle fiamme: la bambina o il manoscritto. Rientriamo nello schema antichissimo del sacrificio al dio. Credi che il mondo di oggi si possa leggere ancora in termini sacrificali?

Non in termini sacrificali, ma in termini etici. Il dilemma etico della casa in fiamme da cui è possibile salvare una cosa soltanto è in realtà il centro del mio romanzo Solenoide. In casa ci sono un bimbo appena nato e un’opera d’arte fondamentale, un quadro di Leonardo da Vinci, poniamo, o di Vermeer. Che cosa sottrarrai alle fiamme, il neonato o il capolavoro? Il mio personaggio sceglie di salvare il bimbo, indipendentemente dalle circostanze.

Non conta quanto celebre e meravigliosa sia l’opera d’arte che potrebbe salvare. Non conta nemmeno se il personaggio scopre che il bimbo diverrà Adolf Hitler. Il bimbo è la vita e il futuro, e il futuro non è una fatalità. Cresciuto con amore in un mondo empatico, il piccolo Adolf non diverrà mai un criminale sul piano storico. Il futuro è ramificato, e dipende da noi farlo propendere verso la direzione giusta.

In Dostoevskij, Ivan rinuncia all’idea di un dio buono nel vedere che in questo mondo dei bimbi soffrono. L’idea del sacrificio è qui sottintesa: il mondo si costruisce sul sacrificio degli innocenti, poiché l’essenza della vita in terra è, nella visione di Dostoevskij, la sofferenza, la sola cosa che ci avvicina a Dio.

Thomas Mann riprenderà il tema dostoevskiano nel suo La montagna magica. Sul punto di morire sulla neve, Hans Castorp ha un sogno: gli appare un tempio pieno di persone felici, sotto il tempio però sono sacrificati ogni anno dei bambini, per placare le divinità.

Il mio libro respinge l’idea di sacrificio, sostituendola con quella di solidarietà umana, cioè con una dimensione etica. Il bimbo, simboleggiando l’innocenza e il futuro, verrà salvato sempre dalla casa in fiamme, indipendentemente da cos’altro potrebbe essere salvato. Salvando il bimbo, salviamo noi stessi, ci offriamo una possibilità ulteriore, di prosecuzione fino alla fine del tempo.

La dimensione etica, la scelta di essere solidaire e non solitaire nel dilemma di Camus, è la novità che porta Solenoide nel mio modo di vedere il posto della letteratura nel mondo.

Tra i tanti modi in cui lo si può interpretare, Solenoide è un lamento alzato alla miserevole limitatezza della condizione umana, ma al tempo stesso è un canto di speranza. In pochi libri veniamo così brutalmente restituiti alla nostra finitudine (“Posso accettare che mi è stato dato, in questa vita, di contemplare l’universo con un cervello di gatto, di granchio o di lombrico? Posso sapere che l’universo è intelligibile, ma che a me non è concesso comprenderlo?”).

È il cruccio di Prometeo e anche di Faust. Tuttavia – e qui torniamo all’esito del confronto finale con la dea oscura –, opposto all’intelligenza finalizzata alla conquista sembra esserci l’amore come forma di inintelligenza superiore. Non si può non pensare a Dante, a cui hai dedicato di recente una riflessione molto ispirata.

Mi chiedo se, discreto ma persistente tra le pagine di Solenoide, ci sia un invito a conoscere attraverso strumenti diversi da quelli (prometeici e faustiani) che ci siamo abituati a usare.

Sono sempre stato sorpreso del fatto che un grande pensatore, illuminato e ispirato, come San Paolo, abbia definito l’amore “una via migliore” rispetto alla fede e alla speranza, i grandi valori di qualunque religione. E dopo di lui, nel corso dei secoli, attraverso Dante, Shakespeare, Dostoevskij, Rilke, Virginia Woolf, attraverso i grandi musicisti e i grandi pittori, attraverso i grandi filosofi e matematici e uomini di scienza, maschi e femmine, l’amore è stato accettato come il più rilevante valore umano, l’unico che dà un senso alle nostre vite in terra.

E il mio libro trasmette questo messaggio: il mio personaggio ha la possibilità di evadere dalla prigione del mondo materiale, si schiude davanti a lui il portale che ha sognato da sempre. Lui rifiuta però di varcarlo, poiché aveva trovato nel frattempo “una via migliore”: l’amore per sua moglie e per sua figlia, come pure la solidarietà verso tutti gli esseri umani del mondo.

La redenzione individuale non è una soluzione, parrebbe dire, fintanto che le persone care continuano a restare in carcere. Di conseguenza, lui sceglie di restare nel mondo, al fianco di coloro che ama. Da questo punto di vista, benché contenga l’esperienza (e anche l’anatomia) della disperazione suprema, Solenoide è comunque una “commedia”, cioè un’opera che ha un finale lieto.

Contemplare l’universo con un cervello di gatto -

Ricordo di averti sentito dire che ti consideri soprattutto uno scrittore di diari. “Posso vivere senza scrivere un romanzo, ma non potrei vivere senza tenere un diario”. Parlavi di questo diario – che se non sbaglio hai cominciato quando avevi 16 anni – come del tuo scritto più importante.

Lo tieni ancora? Mi piacerebbe anche sapere se il contenuto del diario confluisce in qualche modo nei libri che pubblichi, e se si tratta di un diario privato o se prima o poi lo condividerai con i tuoi lettori.

Kafka non faceva differenza fra il suo diario e gli altri suoi scritti: romanzi, racconti, parabole etc. Li scriveva tutti negli stessi quaderni, mescolati gli uni con gli altri, ripresi in maniera ossessiva, migliorati con nuove aggiunte.

In realtà, ogni scrittore è fondamentalmente autore di diari, cioè di conversazioni con sé stesso. Tutti i libri che scrive sono una lunga intervista che rivolge a sé stesso nel corso della sua intera vita.

Il mio diario, del quale ho pubblicato finora, di sette in sette anni, quattro volumi, è una fodera, un soppanno dei miei scritti, la soffice stoffa che è al loro interno, più vicina alla mia pelle e al tepore del mio corpo rispetto ad essi.

È in realtà una mia seconda pelle. Molti dei pensieri, dei sogni, delle elucubrazioni, delle allucinazioni che compaiono nei miei volumi di prosa o di versi sono nati lì, in pagine di diario, a fianco di annotazioni e postille per ogni libro letto e di accadimenti della mia vita quotidiana.

La mia vita interiore, la mia mentation emergente, tutto ciò che è realmente vivo in me e ancora di più, l’infra-vita e l’ultra-vita che l’occhio comune non riesce a vedere, tutto è contenuto nell’effervescenza delle mie pagine di diario. I miei libri sono semplici ramificazioni, fronde e frutti nutriti da queste radici oscure. 

Traduzione di Bruno Mazzoni.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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