Dentro il porno femminista. Intervista a Erika Lust - Lucy sulla cultura
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Elisabetta Moro

Dentro il porno femminista. Intervista a Erika Lust

12 Novembre 2025

La regista svedese racconta vent’anni di lavoro per costruire un’alternativa etica e femminista alla pornografia mainstream, oggi che i suoi film sono un riferimento internazionale per il porno indipendente e sex positive.

Da vent’anni a questa parte, quando si parla di pornografia indipendente, etica e femminista, c’è un nome che ricorre e spicca tra gli altri, quello della regista Erika Lust, ormai sempre più nota a livello internazionale. Quarantotto anni, svedese d’origine, ma in Spagna da tempo, oggi la sua piattaforma a pagamento vanta oltre 60.000 iscritti e fornisce un’alternativa al porno mainstream producendo contenuti per adulti con un approccio sex positive, queer, privo di violenza, misoginia e feticizzazioni discriminatorie, sfumando il confine tra cinema e pornografia.

Quando arrivo sul set di Lust, c’è un viavai di persone, membri dello staff che trasportano treppiedi, materassi in gommapiuma, monitor, luci e altri strumenti che non sono certa di saper identificare. In un edificio industriale poco fuori Barcellona è allestito l’occorrente per realizzare SexHex, il cortometraggio per adulti al cui making of sto per assistere. L’atmosfera è rilassata, gioviale direi: tutti salutano, scambiano due parole, qualcuno si ferma a spiegarmi cosa sta facendo. Mi dimentico rapidamente di trovarmi sul set di un film porno. La reputazione della pornografia mainstream, le idee che siamo abituati ad associarvi, qui non sembrano trovare fondamento: nessun ammiccamento o commento sussurrato, niente battute per allentare la tensione, non ce n’è bisogno. La patina di volgarità e malizia che associamo al mondo del porno non è presente, il sesso è alla luce del sole, lo si riproduce per quello che è, con contegno amichevole ma strettamente professionale.

C’è una stanza dove le makeup artist truccano le performer, l’addetta allo styling sta scaldando con un phon delle scarpe col tacco in PVC per ammorbidirle (le attrici si sono lamentate che stringevano, mi spiega), e dietro una spessa tenda nera i tecnici testano luci e suono. “I tecnici”, in realtà, sono spesso donne. La presenza femminile si percepisce in percentuali non sempre consuete: dove ti aspetteresti un uomo, capita che ci trovi una donna. E anche viceversa, se vogliamo seguire i cliché di genere: l’addetto al catering è un italiano e tutto il giorno cura il tavolo del buffet: biscotti, tartine all’avocado, opzioni per il pranzo sia vegetariane che vegane, dessert, tramezzini e crostata per merenda. Non avevo considerato l’aspetto gastronomico, ma scopro non trattarsi di un semplice dettaglio, si inserisce con naturalezza in un quadro in cui il benessere – fisico, mentale, lavorativo, sessuale – è posto al centro. Mi consegnano la scaletta: dalle 9.15 alle 10.50 si gireranno due scene, poi ci sarà una pausa e alle 11.20 le due attrici avranno una sessione di “sex talk” con l’intimacy coordinator per prepararsi alla scena di sesso su cui inizieranno a lavorare poco dopo. Se una di loro ha bisogno di prendersi un momento di riposo, è stata predisposta una stanza in cui è garantita tranquillità e privacy. 

Quando arrivo, Erika Lust è già sul set. La incontro mentre sta osservando con soddisfazione una struttura in legno realizzata per l’occasione: è una cabina esagonale ricoperta internamente da specchi. Ha al centro un palo, e questo gira proiettando i volteggi della ballerina di pole dance sulle pareti riflettenti, come un caleidoscopio. 

Il corto, realizzato con la guest director Thais Catala, fa parte di XConfessions, uno dei lavori più apprezzati di Lust, un progetto erotico di crowdsourcing in cui membri anonimi del pubblico inviano le loro fantasie sessuali perché vengano portate sullo schermo. Stavolta la protagonista è un’artista di pole dance: si osserva ballare, si lascia lentamente sedurre dalla propria immagine allo specchio e si trova a vivere un’esperienza sessuale con l’incarnazione del proprio riflesso. “Non so davvero dove la metteremo, quando avremo finito di girare”, dice Lust guardando la cabina specchiata, “forse potremmo portarla in ufficio e organizzare delle lezioni di pole dance?”. 

La prima parte della mattinata passa girando alcune scene che precedono il sesso, quelle in cui la protagonista si osserva nello specchio ed entra in contatto con il suo doppio. La director è esigente, precisa, gentilmente perentoria, chiede di rifare lo stesso ciak due, tre, quattro volte, finché ciò che vede non la soddisfa. Dà indicazioni alle telecamere, parla con le attrici, vuole che il movimento con cui la mano si stacca dal palo da pole dance sia fluido, che lo sguardo si alzi gradualmente ma con convinzione, che i tempi con cui le luci si muovono seguano un ritmo cadenzato. Per costruire tensione erotica serve pazienza. Soprattutto vuole che tutto intorno si faccia silenzio, non solo quando si gira, ma in tutti i momenti in cui la concentrazione si addensa e le attrici devono stare nella parte. È un lavoro di cesello che Lust padroneggia. È evidente, nell’osservarla lavorare seduta di fronte agli schermi, che li guarda sapendo cosa cercare. Allora le chiedo che cosa ci vede.

Hai dovuto costruire praticamente da zero i codici del female gaze nella pornografia. Ti ho osservata durante le riprese: eri concentrata su ogni dettaglio. Come fai a capire quando sei sulla strada giusta? 

Dopo tanti anni so quali angolature mi servono e quali funzionano. All’inizio andavo per tentativi e sbagliavo, ascoltavo le voci degli altri, magari di tecnici o registi maschi. Ho dovuto imparare a fidarmi del mio istinto perché il rischio è riprodurre il già visto. Oggi avevamo due attrici sul set, ma, ad esempio, se ci fosse stato un uomo sarei stata molto attenta a inquadrare il suo volto, specie se avessi avuto un uomo anche dietro la telecamera come operatore. Nel porno mainstream il 90% delle riprese è sulla donna e il 10% sul pene. Si vedono pochissimo i visi e le espressioni degli uomini, che, invece, io voglio cogliere. 

Così mi sono inventata un gioco. Provo a cambiare il sesso di un personaggio e vedere se cambia la storia o come viene rappresentato. Se fossero due donne, cosa succederebbe? Se fossero due uomini? Ti accorgi di come abbiamo interiorizzato certi schemi patriarcali, che influenzano ciò che creiamo. 

Lavori per cambiare le logiche della pornografia mainstream da oltre vent’anni. Com’è iniziato tutto? 

Ho guardato il mio primo porno a dodici o tredici anni. Un’amica aveva portato una videocassetta a una festa per impressionarci, come a dire “Guardate, è una vera schifezza”. E in effetti ero rimasta disgustata, non c’era niente di bello, erotico o stimolante. Poi, più avanti, stavo con un ragazzo con cui capitava che guardassimo dei porno, a quel punto erano in DVD. Ho iniziato a provare maggiore interesse, volevo saperne di più sul sesso e sul piacere femminile. 

I porno però continuavano a deludermi, non c’era nulla che corrispondesse alla mia esperienza. Quello che vedevo poteva provocarmi una reazione fisica, ma non mi piaceva: gli uomini come macchine del sesso, le donne come oggetti per il piacere maschile, un linguaggio aggressivo, un approccio violento e punitivo verso i corpi femminili. Il focus era sempre sulla penetrazione vaginale, ma vivendo in un corpo femminile e parlando con le amiche, sapevo benissimo che per raggiungere l’orgasmo serve la stimolazione della clitoride. Era chiaro quanto l’industria per adulti fosse un mondo di uomini per gli uomini. 

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Sei entrata in contatto con i lavori di registe di pornografia come Candida Royalle e, parallelamente, con le teorie sul male gaze di Laura Mulvey. Quando hai girato il tuo primo film per adulti? 

Ho girato il mio primo film in assoluto nel 2004 durante la scuola di cinema, niente di pornografico ovviamente. Avevo studiato Scienze politiche e mi ero appassionata molto alle teorie sulle strutture di potere, lo sguardo maschile e la sessualità femminile. Ricordo che un film mi aveva ispirata molto: L’amante di Jean-Jacques Annaud, tratto dal libro di Marguerite Duras, e mi chiedevo perché anche il porno non potesse essere più bello, più cinematografico. 

Volevo provare a costruire un immaginario diverso. Così ho girato il mio primo film per adulti, The Good Girl, in cui ho preso un cliché standard del porno, il ragazzo delle pizze, e l’ho ribaltato in una prospettiva femminile. Ha funzionato. Tecnicamente era così e così, ma l’anima già c’era. Le persone mi dicevano: “Ora capisco cosa intendevi”. 

Dai molto valore alla diversity anche a livello di casting. Prima parlavo con una performer, mi raccontava che nella pornografia mainstream le propongono solo ruoli da ragazzina, per via del suo fisico e del suo viso. 

Io voglio che l’artista si senta a suo agio con il personaggio che rappresenta. Puoi avere un pene enorme, ma non farà parte del mio marketing, non voglio etichettare le persone. Voglio diversità, diverse corporature, età diverse, diverse tonalità di pelle, diverse origini, diversi corpi. E non voglio solo sesso eterosessuale, penso che sia interessante mostrare agli spettatori qualcosa che non si aspettano e che possa ampliare la loro visione e la loro curiosità, anche facendoli sentire un po’ a disagio. 

Parlami dell’ambientazione. Sul set si percepisce notevole cura per la scenografia. 

Se guardi qualsiasi sito di streaming per adulti trovi un divano orribile contro un muro, un letto con lenzuola orribili e tende orribili. Non c’è nulla di elegante, l’immagine stessa diventa violenta perché risulta cruda, degradante, per nulla connessa all’erotismo. Sembra che le persone che li realizzano non abbiano alcun interesse per l’arte, la moda, il design, l’architettura. Io voglio portare tutti questi elementi nei miei film perché penso che facciano parte del linguaggio del cinema. Aiutano a fantasticare, a vivere le storie, accendono la mente. Il sesso, per me, ha una forte componente cerebrale. 

E come la incorpori nei tuoi film? 

Cerco non solo di rappresentare, ma di indagare i desideri e le fantasie. Voglio sapere perché. Perché ti piace un seno grande? Cos’ha di speciale? Come ti fa sentire? A cosa si collega nel tuo passato? Prendi il film di oggi: parla di osare guardare se stessi come individui erotici, che è qualcosa di cui molte persone hanno paura. Ed è normale, perché viviamo in una società molto negativa rispetto al sesso, soprattutto femminile. Penso che per molte donne osare essere sessuali di fronte a se stesse sia una dichiarazione.

Quando arriva il momento di girare la scena di sesso, le richieste di annullare il chiacchiericcio si intensificano. Le attrici hanno bisogno di concentrazione, per non distrarle ci chiedono di non avvicinarci troppo. Rimaniamo dietro gli schermi: le immagini mostrano ingrandito quello che accade poco più avanti, i microfoni registrano ogni ansimo, le loro sagome si muovono in un crescendo sul letto illuminato e circondato da telecamere. Per tutta la durata della scena nessuno fiata, assistiamo immobili. A differenza di quanto avviene in molti set di pornografia mainstream, nessuno dice alle attrici cosa fare, nessuno urla indicazioni o chiede di cambiare posizione, per circa mezz’ora non vengono mai interrotte. Il sesso si fa performance, esibizione – è la nostra presenza a confermarlo – ma mantiene un nucleo di veridicità, non è macchinoso, non svela l’inganno. Voglio sapere da Erika dove si colloca il confine tra piacere e finzione. 

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Stamattina le prime scene sono state provate e riprovate, con parecchi ciak. Invece la scena di sesso è stata molto spontanea, l’avete girata senza interruzioni. Quanto spazio viene lasciato all’improvvisazione e quanto, invece, è concordato? 

Facciamo delle chiacchierate online prima del giorno delle riprese. Parliamo con gli attori di cosa non vogliono, ma soprattutto di cosa vogliono. Cosa ti piace? Cosa ti fa venire? Che tipo di stimolazione vuoi? Con quante dita? Le persone diventano davvero molto specifiche. 

Io, però, non voglio prestabilire tutto. In molte produzioni mainstream vengono richiesti tot minuti in quella posizione, tot minuti in quell’altra. Io preferisco che abbiano la loro mezz’ora, quaranta minuti, quello che dura il sesso. Voglio che la performance sia lì, in quel momento. Non voglio filmare le persone per due ore mentre fanno sesso e non è piacevole. 

Prima della scena di sesso c’è stata la sex talk con l’intimacy coordinator. Serve a stabilire il perimetro del consenso? 

Il consenso è fondamentale, è ciò che dà vita a una scena. Permette la connessione, la creatività e un’emozione genuina, ma è anche il minimo sindacale nel sesso. Noi siamo molto attenti a concordare i limiti, che possono variare anche il giorno stesso della ripresa. Abbiamo un contratto che copre tutti i dettagli formali e c’è un dialogo costante. L’intimacy coordinator fa da tramite, si preoccupa che i performer stiano bene e abbiano le loro pause. Ma il consenso va oltre: non c’è un approccio gerarchico, non c’è un capo supremo da temere. I performer non devono consegnare un prodotto, sono partner nella creazione.

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Pensi che questo approccio arrivi anche al pubblico? 

Il pubblico percepisce perfettamente la differenza. Molti dei nostri spettatori sono uomini, ma spesso guardano i film insieme alle loro partner. Generalmente, per le donne, penso sia importante sentire di non guardare qualcosa di aggressivo e violento sui loro corpi. Vogliono sentirsi rispettate e sapere che anche gli attori lo sono. Le donne si trovano a far convivere la ricerca del piacere con la paura della violenza sessuale. Anche se non abbiamo avuto brutte esperienze, sappiamo che c’è una violenza sistemica nei nostri confronti ed è difficile non pensarci. Solo se ci sentiamo al sicuro possiamo osare, esplorare i nostri limiti, anche scegliere di metterci in posizioni di sottomissione.

Mi sembra di capire che per te la pornografia sia un modo per esplorare la propria sessualità. 

Un certo tipo di pornografia sì. Può aiutare a capire cosa si desidera, a rispettare il consenso e ad avere un dialogo più aperto tra partner. Questo è molto utile per le donne, che nella società d’oggi sono abituate a mettere in secondo piano il loro piacere. Si dedicano alla cura, nella vita di tutti i giorni, ma anche nel sesso. E poi molte persone temono le proprie fantasie, si sentono sole, pazze o pervertite, si vergognano. In realtà molte delle nostre ossessioni sessuali sono comuni e se hai un partner è meraviglioso creare uno spazio in cui condividerle, per crescere ed entrare in connessione. Una delle mie missioni è quella di dare un’interpretazione positiva della sessualità.

La tua pornografia viene definita “etica”. Per te cosa la rende tale? 

Ci sono molti fattori, non solo come la produci, le condizioni di lavoro degli artisti e della troupe. Ha a che fare anche con il processo di distribuzione, come promuovi gli artisti. Magari tutto è stato prodotto in modo corretto, ma pubblicizzi il film con frasi sessiste o razziste. E poi conta anche come si consuma: per me, la pornografia è etica quando si paga. Perché è un lavoro, le persone ci mettono il loro corpo, la loro energia e anche il consumatore finale deve saperlo. Molte grandi aziende di pornografia mainstream non sono diverse dalle grandi aziende farmaceutiche, di moda o tecnologia, sono interessate solo a profitto e potere. Oggi i consumatori sono sempre più consapevoli: che cosa compro? Compro l’acqua in bottiglie di plastica o mi porto la borraccia? Vale lo stesso per la pornografia. Pagare significa rispettare il lavoro altrui, e non consumare in modo compulsivo, vorace e acritico è un modo per rispettare noi stessi e la nostra energia sessuale.

Che futuro c’è per la pornografia indipendente, etica e femminista? 

La comunità sta crescendo, ci sono nuovi creator e nuovi festival, ma è ancora molto piccola rispetto al resto del settore. Non è un business facile, specie di questi tempi. Avevo un account con mezzo milione di follower, ora ne ho 500 perché mi bannano gli account di continuo anche se seguo le regole. Oggi i broligarchi della tecnologia governano il mondo. Sono anni che la comunità del porno e delle sex worker mette in guardia dalla censura sul web e ormai è chiaro che non si è mai trattato solo di censura sui contenuti espliciti, ma sulle idee e l’attivismo politico. Sapevamo che stava arrivando e ora negli Stati Uniti molte donne non possono abortire legalmente e i diritti di tante persone, ad esempio nella comunità trans, sono a rischio. Dobbiamo continuare a fare quello che stiamo facendo ricordandoci che il piacere è resistenza. Probabilmente rimarrò sempre underground, ma almeno nella mia piccola bolla mi diverto, e resisto.

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Le foto sono di Monica Figueras.

Elisabetta Moro

Elisabetta Moro è giornalista freelance. Collabora con diverse riviste e giornali, occupandosi soprattutto di diritti, questioni di genere e femminismo.

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