L’editore Ponte alle Grazie ci ha chiesto di replicare all’articolo di Bruno Montesano su “La lobby ebraica”. Di seguito pubblichiamo quindi la replica di Ferruccio Pinotti, l’autore del saggio e, in fondo, una controreplica di Montesano.
Perché bollare La lobby ebraica come antisemita è ingiusto di Ferruccio Pinotti:
Il 12 dicembre, sulle pagine di Lucy, è apparsa una recensione che ha etichettato il mio libro La lobby ebraica come antisemita. L’antisemitismo riemerge, oggi, sotto forme nuove e trasversali, dall’estrema destra europea a frange della sinistra radicale. In un clima segnato da una polarizzazione sempre più aspra, la chiarezza delle distinzioni è necessaria. Esprimo il mio rammarico se il titolo e – forse – alcuni passaggi della trattazione possano aver urtato la sensibilità di qualcuno. Se ciò è avvenuto, non era questo il mio intento, che è unicamente analitico. Ma bollare come antisemita un’opera che celebra in maniera documentata e approfondita anche l’apporto ebraico alla politica, all’economia e alla cultura italiana è un controsenso così evidente da richiedere una replica immediata.
Leggendo il titolo della recensione, «La lobby ebraica è una farsa antisemita. Come è possibile sia stata pubblicata?», e inoltrandosi nella lettura – «Non siamo davanti al Mein Kampf né ai Protocolli dei savi di Sion ma a una versione ben educata ed edulcorata della stessa pulsione antisemita» – un lettore poco attento potrebbe pensare che a comporre l’inchiesta sia stato un antisemita. Il mio libro, in un apposito paragrafo, condanna esplicitamente i Protocolli dei Savi di Sion, uno dei più clamorosi e pericolosi falsi antisemiti della storia. Condannare una bufala antisemita non può assolutamente coincidere con il condividerne lo spirito. Si sostiene che «l’inchiesta di Pinotti è stata accolta tiepidamente, forse per non dare risalto a un libro simile». Tiepidamente no di certo: il 12 novembre l’inchiesta viene liquidata con una critica fulminea su Il Foglio; il 17 novembre, il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea ha pubblicato la sua stroncatura ufficiale; il 10 dicembre, Il Manifesto si è aggiunto con lo stesso “spirito”. Montesano fa riferimento all’«antisemitismo di sinistra», che «esiste e lotta contro di noi». Non è dato sapere cosa c’entri tale fenomeno con il sottoscritto, un giornalista in forze da svariati lustri al Corriere della Sera, il quotidiano della borghesia nazionale. E ancora: «Gli ebrei antisionisti? Non esistono, siamo tutti al soldo dell’ambasciata israeliana». Esistono eccome, invece. La prefazione del libro consiste, infatti, in un dialogo con uno di loro: Moni Ovadia, ebreo di origini bulgare notoriamente antisionista.
Montesano scrive che «L’autore, nonostante cancelli l’eterogeneità sociale e politica ebraica e ribadisca i noti luoghi comuni, non ritiene, così scrivendo, di fare indebite generalizzazioni razziste». E ancora: «Pinotti dice di attenersi ai fatti ma poi scrive un libro dove le famiglie ebraiche sono classificate in termini razziali». Niente di più sbagliato. L’inchiesta distingue tra ebrei sefarditi e ashkenaziti. Una suddivisione che riguarda lingua, riti, usanze culinarie e organizzazione comunitaria, non certo caratteristiche genetiche o razziali. Equivalente alla distinzione – nel cristianesimo – tra cattolici, ortodossi e protestanti. La lobby ebraica menziona ripetutamente le presenze ebraiche ad Ancona e a Livorno, implicitamente riconoscendo anche la presenza degli ebrei marrani e levantini nelle suddette città. I contorni dell’ebraismo della Diaspora – europea e statunitense – sono ben distinguibili dallo Stato di Israele. Anche le differenze politiche non sono state trascurate. Ce n’è per tutti: dalla corrente illuminista Haskalah al movimento ortodosso hassidico Chabad, dall’azionista socialista Vittorio Foa al Sottosegretario agli Interni di Mussolini Aldo Finzi. Da ebrei borghesi vicini al fascismo come Cesare Goldmann ed Ettore Ovazza a protagonisti della politica antifascista come Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Umberto Terracini e Leo Valiani.
Si sostiene che «la correlazione non equivale alla causalità ed elencare non vuol dire spiegare il rapporto tra gli elementi citati». L’osservazione, corretta in astratto, è fuori bersaglio nel nostro caso. La Lobby Ebraica non si limita a elencare nomi e nemmeno deduce nessi causali automatici. Semmai ricostruisce relazioni documentate, contesti istituzionali e meccanismi politici ed economici. Un’impostazione evidente, ad esempio, in Tavoli, trattati e trame nelle relazioni Italia-Israele e Dalla sabbia al silicio: le amicizie ebraiche di Trump e la geopolitica usa-Israele. Due capitoli i cui contenuti la recensione del 12 dicembre si guarda bene dall’affrontare. È la stessa incomprensione delle dinamiche di lobbying – il cui significato è “articolazione degli interessi” – che innerva la recensione de Il Manifesto, la quale mi accusa di espellere «la naturale appartenenza non della “lobby” ma degli ebrei in carne ed ossa alle più diverse classi sociali». Se si deve spiegare perché l’Italia non ha mai formalmente votato per sanzioni a Israele o perché Trump non attua l’isolazionismo promesso, si deve guardare all’operato di diplomatici, politici, militari e finanzieri: non certo a postini ed operai metalmeccanici. Chi cita Karl Marx e Rosa Luxemburg dovrebbe saperlo.
Un’incomprensione che fa il paio con l’interpretazione riservata alla prima sezione del libro, la quale sarebbe servita «a cercare miserabilmente di pararsi dai prevedibili attacchi, ricostruendo la storia dell’antisemitismo e le idee che lo hanno ispirato». La prima sezione non nasce come scudo preventivo, bensì come chiave di lettura necessaria per comprendere un oggetto di indagine che, proprio per la sua delicatezza storica e simbolica, richiede rigore, contestualizzazione e memoria. Ricostruire la storia dell’antisemitismo significa delimitare con precisione il campo, distinguere tra pregiudizio e analisi, tra stereotipo e dato storico. Uno degli obiettivi dichiarati – e riteniamo perseguiti – del libro è stato quello di valorizzare l’apporto delle famiglie ebraiche italiane alla costruzione della vita politica, economica e culturale del Paese e, dunque, allo spazio europeo. Un lavoro di ricostruzione che restituisce spessore a ebrei caduti nell’oblio, talvolta persino all’interno dello stesso ebraismo italiano. Emblematiche, in tal senso, personalità come il teorico dello scetticismo solipsistico Adolfo Levi e Mario Ovazza, uno dei padri dell’Autonomia regionale siciliana. Proprio l’illustrazione del drammatico percorso di integrazione dell’ebraismo italiano – segnato da discriminazioni, fratture interne, differenze territoriali e politiche – smentisce radicalmente l’idea di prassi omogenee di gruppo. Il libro riconosce la pluralità delle traiettorie, delineando un mosaico di esperienze e posizioni anche divergenti.
Altre le asserzioni apparse su Lucy, il 12 dicembre, che distorcono i contenuti della mia inchiesta. «Anche gli immancabili Rothschild sono ampiamente citati». Chi legge questa frase priva di contestualizzazione esegetica, è indotto a pensare che l’autore de La lobby ebraica sia il fratello minore di Pietro Ratto, autore – con intenti non certo apologetici – de I Rothschild in Italia e I Rothschild e gli Altri. Ma le citazioni non parlano da sole: è la trama in cui vengono inserite a esprimere il loro significato. Nella mia inchiesta il cognome Rothschild appare in tornanti mirati che spiegano fatti: dal salvataggio di Trump dal fallimento economico nei primi anni ‘90 alle privatizzazioni italiane di quel periodo. La mia inchiesta evita di usare il cognome Rothschild come scorciatoia interpretativa e sottolinea il loro cruciale ruolo – implicitamente positivo – per le sorti del Regno di Sardegna, motore del Risorgimento italiano. «Gad Lerner e Enrico Mentana in quanto ebrei devono per forza avere le stesse idee. David Parenzo, Fiamma Nirenstein ed io pure». Forse è sfuggito quanto è scritto già a pag.33: Gad Lerner, David Parenzo, Paolo Mieli, Fiamma e Susanna Nirenstein hanno nella cultura «posizioni diversissime», malgrado «un’identità ebraica esplicita». E poi: «l’etica ebraica, senz’altro luciferina – essendo in fondo gli ebrei gli assassini di Gesù, verrebbe da ricordare». Verrebbe da ricordare, semmai, quanto è scritto alle pp.40-44, dove si condanna apertamente la “teologia della sostituzione” su cui si fonda quell’accusa di deicidio che sarebbe propria anche dell’autore de La lobby ebraica. E potrei continuare…
Va sottolineato un altro aspetto fondamentale: sia la mia storia personale sia quella della casa editrice Ponte alle Grazie sono saldamente radicate nei valori democratici e antifascisti. La reputazione della casa editrice parla da sé: la qualità delle sue collane e la varietà dei suoi autori testimoniano un patrimonio culturale di grande rilievo, che merita rispetto e attenzione, proprio per la ricchezza e la pluralità delle voci che lo animano. Per quanto riguardo chi scrive queste righe, l’accusa di antisemitismo è ancor più ridicola, dato che mi sono occupato ripetutamente degli aspetti delicati del mondo cattolico e delle sue espressioni lobbistiche e controverse: da Opus Dei segreta (2006) a La Lobby di Dio (su Comunione e Liberazione, 2010), da Finanza Cattolica (2011) a La setta divina (2021), un’inchiesta che ha costretto il Movimento dei Focolari a pesanti autocritiche. A testimonianza anche dell’onestà intellettuale del mio lavoro, segnalo che alcune imprecisioni indicateci da una famiglia ebrea sono già state corrette nella versione digitale e le aggiorneremo anche in eventuali edizioni cartacee. Siamo, inoltre, aperti al pubblico dibattito sugli aspetti del libro che hanno suscitato maggiore interesse, domande e curiosità.
Colpisce la levata di scudi automatica che si manifesta quando l’attività di influenza e di pressione pro-Israele viene raccontata, analizzata o semplicemente nominata. Un’agitazione che risulta tanto più stucchevole se si considera un dato elementare: il lobbismo non è una pratica oscura né illegittima, ma un’attività riconosciuta, regolamentata e normata nelle principali democrazie occidentali. Negli Stati Uniti, il lobbying è disciplinato da molto tempo: dal Foreign Agents Registration Act promulgato nel 1938 al Federal Regulation of Lobbying Act del 1946; dal Lobbying Disclosure Act del 1995 all’Honest Leadership and Open Government Act del 2007, che impongono obblighi di registrazione e trasparenza finanziaria sui contatti con i decisori pubblici. In Europa, il quadro non è meno chiaro: il Registro per la trasparenza dell’Unione europea, istituito nel 2011 e via via aggiornato, rappresenta lo strumento ufficiale attraverso cui gruppi di interesse, ONG, associazioni di categoria e network politici dichiarano apertamente le proprie attività di pressione su Commissione, Parlamento e Consiglio. Purtroppo l’Italia è in ritardo. Raccontare le strategie pro-Israele significa descrivere un fenomeno pubblico, al pari di quello esercitato da industrie energetiche, colossi digitali, sindacati, organizzazioni ambientaliste o governi stranieri. Se il lobbying è legittimo – e lo è – allora è legittimo studiarlo, documentarlo e discuterne.
La condanna della mia inchiesta è composta da un collage di mie presunte affermazioni antisemite completamente decontestualizzate. Un’asserzione veramente offensiva verso l’ebraismo, però, non è stata citata: per il semplice motivo che non esiste. In merito è interessante osservare che un’intervista da me recentemente data a RaiNews, in cui condannavo senza appello antisemitismo e antisionismo e che sono in grado eventualmente di riprodurre, è stata fatta sparire da mani misteriose. Eppure, in una fase in cui riaffiora l’antisemitismo e accadono fatti tragici come quelli recentissimi di Sydney, sarebbe più importante che mai confrontarsi apertamente, lasciando da parte ogni spettro di censura. L’amara ironia è che, mentre il mio libro combatte stereotipi e ridicoli complotti, la sentenza cassatoria che lo squalifica vede antisemitismo laddove c’è un lavoro di ricerca e documentazione. E non si avvede del rischio di inflazionare il termine stesso, svuotandolo di significato. Più in generale, dovrebbe preoccupare l’uso persistente e strumentale che si fa continuamente di questo concetto, che finisce per sottrarre – lo si voglia o no – lo Stato d’Israele a ogni valutazione critica, in quanto presunto erede esclusivo della sofferenza storica del popolo ebraico. Ma questa costruzione non regge a un esame critico. Uno Stato pienamente sovrano (e sicuramente legittimato a esistere) non può rivendicare una condizione di vittima permanente, essendo dotato di uno degli apparati militari più potenti al mondo, di armamenti tecnologicamente avanzati, di solide alleanze internazionali e di un controllo pervasivo su un territorio occupato. E pensare che nella mia inchiesta legittimo il sionismo come «articolazione storica degli interessi del mondo ebraico», senza contare che il dramma di Gaza non costituisce l’asse portante del libro.
Controreplica di Bruno Montesano:
Parlare di capitale ebraico come Pinotti fa, nel libro e nell’intervista all’estremista di destra Francesco Borgonovo, non ha alcun senso. Dedurre dal fatto che il direttore di BlackRock Larry Fink sia ebreo la tesi che il fondo di investimento condivida l’identità religiosa-culturale è una
aberrazione logica e economica. Mappare le famiglie ebraiche per cognome – per Pinotti non rileva se alcuni membri si siano convertiti o non mantengano alcun rapporto con quell’identità – è una pratica deprecabile. Fare liste di giornalisti ebrei e insinuare che, al di là delle apparenti differenze, qualcosa debba tenerli uniti (l’identità e quindi l’appartenenza a un comune gruppo di interessi) è una cosa cretina. Oltre che antisemita. Che a Pinotti non piacciano i savi di Sion o i libri deliranti sui Rotschild non può che rallegrarci. O spaventarci: davvero non è consapevole del senso delle sue 400 pagine? Ad ogni modo, l’operazione di Ponte alle Grazie e Pinotti è ingiustificabile sia sul piano giornalistico, che scientifico essendo, come detto, un libro in cui gli elenchi sono spacciati per nessi causali e in cui si mira a vendere qualche copia in più rovistando nel senso comune più infame – il complottismo antisemita, dotato di una tradizione piuttosto antica. Inoltre: nel mio pezzo non ho fatto cenno alle questioni della “lobby sionista” perché, per l’appunto, la discussione di questa tesi riguarda altri ordini di ragionamento – e Pinotti non è Mearsheimer che, a sua volta, non è al di sopra del vaglio critico. Infatti, con una mossa editoriale particolarmente squallida, il libro si chiama La Lobby Ebraica e non Lobby Israeliana (già pubblicato da Asterios) – per differenziare il mercato editoriale tocca proprio fare dei titoli abietti, sembrerebbe. Di qui conseguono tutte le considerazioni già fatte – e che questa replica ha inutilmente cercato di smentire. Infine, qui non si rivendica nessuna specialità protettiva (sono contrario al Ddl Delrio). Qualunque testo che generalizzi a partire da caratteri culturali interpretati in senso univoco, facendo discendere da un’identità una posizione politica o sociale automatica – o pensi di ricostruire rozzamente reti di potere a partire da elenchi del telefono – troverebbero il mio disprezzo e la mia radicale opposizione. Il passaggio al bosco e altre case editrici neofasciste lo fanno, talvolta nella pubblicistica accademica escono tesi razziste (si pensi a The Bell Curve, Simon & Schuster 1994) ma, per l’appunto, queste si scontrano con il giusto ribrezzo pubblico. Lo stesso destino merita il suo libro.