Rachel Bespaloff
23 Marzo 2023
L'uomo, l'eroe, raccontato da una grande filosofa che ce lo mostra come non lo avevamo mai visto: forte perché debole, eroico perché umano.
Ettore ha subito di tutto, e ha perduto tutto fuorché se stesso. Nella schiera abbastanza mediocre dei figli di Priamo, lui solo è principe, fatto per regnare.
Né superuomo, né semidio, né simile agli dèi, ma uomo, e principe tra gli uomini. A proprio agio in questa nobiltà senza ricercatezza che non deve inorgoglirsi nel rispetto di sé, né umiliarsi nel rispetto degli dèi. Ha molto da perdere perché appagato, e sempre al di sopra di ciò che lo appaga, a causa del suo anelito a sfidare il destino. Protetto da Apollo, protettore d’Ilio, difensore di una città, di una donna, di un bambino, Ettore è il custode di beni perituri. La passione della gloria lo esalta senza accecarlo, lo sostiene quando la speranza lo abbandona.
“Io lo so bene questo dentro l’anima e il cuore: giorno verrà che Ilio sacra perisca”. Ma ha imparato “a esser forte sempre, a combattere in mezzo ai primi Troiani”, tale è il suo privilegio di principe. Per quanto teneramente lo implori, Andromaca non può far sì che egli vi rinunci. E certo, egli è tutt’altro che insensibile al suo lamento. È per Andromaca, più ancora che per il suo popolo, per suo padre e i suoi fratelli, che la preoccupazione del futuro lo attanaglia. La sola idea della sorte brutale che la attende gli fa augurare la morte: “Morto però m’imprigioni la terra su me riversata, prima che io le tue grida, il tuo rapimento conosca”. Alla vigilia della guerra, Ettore abbraccia con un ultimo sguardo i veri beni della vita, all’improvviso esposti nella loro nudità di bersagli. Lo sconforto dell’addio non indebolirà la decisione già presa: “Alla guerra penseran gli uomini”, Ettore per primo tra i nati di Ilio.
“Ettore è il custode di beni perituri. La passione della gloria lo esalta senza accecarlo, lo sostiene quando la speranza lo abbandona”.
Achille non ha niente da perdere, Ettore ha tutto da perdere. Eppure non è Ettore, ma Achille, sempre pieno d’astio nonostante i suoi trionfi, che non cessa di “saziarsi di pianto”. L’uomo del risentimento, nell’Iliade, non è il debole, ma al contrario l’eroe che ha saputo piegare tutto alla propria forza. In Ettore la volontà di grandezza non contrasta mai la volontà di felicità. Quel poco di vera felicità, che conta più di tutto perché coincide con la verità della vita, meriterà di essere difeso fino al sacrificio della vita stessa, al quale avrà dato misura, forma e valore.
Anche vinto, il coraggio di Ettore non si cancella dinanzi all’eroismo di Achille, nutrito di malcontento e d’irritata inquietudine. Ma la disposizione alla felicità, che ricompensa lo sforzo delle civiltà feconde, frena lo slancio del difensore rendendolo più sensibile all’enormità del sacrificio che esigono gli dèi della guerra. Essa non si sviluppa se non quando si è placato l’appetito di felicità che muove verso la preda l’aggressore più aspro mettendogli nell’animo “una forza infinita di combattere e guerreggiare senza tregua”.
Morire, per Ettore, è abbandonare a una dolorosa distruzione tutto ciò che ama; tirarsi indietro è rinnegare ciò che lo oltrepassa: quella “gloria”, oggetto di un canto futuro, che risusciterà Troia nei secoli a venire. Davanti alle mura dove si appresta a incontrare Achille, scosso da presentimenti di sconfitta, dalle suppliche di Priamo e di Ecuba, Ettore ha un’esitazione suprema. Perché non preservare “la pace nella dignità” promettendo ad Achille il ritorno di Elena, la spartizione di tutte le ricchezze di Troia?
“L’uomo del risentimento, nell’Iliade, non è il debole, ma al contrario l’eroe che ha saputo piegare tutto alla propria forza”.
Ma subito si riprende: Achille non decide la guerra, è la guerra a decidere. Egli non potrebbe essere ammansito dalle promesse, calmato dai ragionamenti, piegato a sentimenti d’umanità più di quanto potrebbe esserlo un ciclone. “Meglio scagliarsi di nuovo nella lotta al più presto, vediamo a chi dei due darà gloria l’Olimpo”. Per la prima volta, forse, Ettore si sente affidato alla sua sola debolezza. Ma appena scorge l’aitante avversario, non riesce più a controllare il proprio terrore. Lui, l’intrepido, che tante volte ha riportato la vittoria nel suo campo, che si è misurato con Aiace e i più prodi tra gli Achei, “si lasciò dietro le porte e fuggì”. Omero l’ha voluto uomo tutto intero e non gli ha risparmiato il tremore dello spavento, né l’umiliazione della viltà. “Un forte fuggiva davanti e lo inseguiva uno molto più forte”. E questa fuga, per quanto poco duri, si eternizza come un incubo.
Come uno nel sogno non può arrivare un fuggiasco,
questi non può sfuggire, l’altro non può arrivarlo;
così non poteva correndo Achille afferrarlo, né l’altro salvarsi.
Omero qui tocca, attraverso il racconto, l’essenza dell’orrore che non conosce soluzione né redenzione. Non è intorno alle mura di Troia, è nel recinto del Cosmo che l’inseguimento del predatore e la fuga della preda si protraggono indefinitamente. “Tutti gli dèi li guardavano”. Con uno sforzo che dovremmo dire sovrumano – se non fosse la misura e la pienezza dell’umano – Ettore finalmente si domina e affronta il nemico. “Non fuggo più davanti a te, figlio di Peleo, […] debba io vincere o essere vinto”.
Quel che lui ha fuggito, quel che ora affronta, non è “Achille gigante”, è il proprio destino, l’ora fissata in cui sarà gettato in pasto all’Ade. Per lo meno, non morirà senza aver lottato, né senza gloria. Morendo, implora un’ultima volta Achille di non dare il suo corpo in pasto ai cani. Per l’ultima volta, il vincitore, ebbro di crudeltà, si ostina nel rifiuto. Achille, in quell’istante, è cosciente di non essere più un uomo, e lo confessa: “Non v’è fida alleanza fra uomo e leone […] così mai potrà darsi che ci amiamo io e te”. Nell’abbandono dell’agonia, Ettore riconosce infine il suo errore, si arrende contemporaneamente alla verità e alla morte: “Va’, io ti conosco guardandoti! Io non potevo persuaderti, no certo, ché in petto hai un cuore di ferro”. Assente Dio, è la fatalità a diventare strumento della retribuzione.
Ettore paga l’uccisione poco gloriosa di Patroclo come Achille, più tardi, pagherà la morte di Ettore. “Ares è imparziale, e uccide chi ha ucciso”. Nell’eccitazione della carneficina, anche Ettore cessa di rispettare il codice dell’onore. Insultare e finire il nemico a terra non gli ripugna più di quanto ripugni al suo rivale. L’uno e l’altro, spingendo la vendetta fino all’empietà, profanano il corpo della vittima per ucciderne persino l’anima. C’è un rigoroso parallelismo tra queste due scene di oltraggio nei confronti del vinto. Patroclo annuncia a Ettore “la morte e il destino invincibile”, come Ettore predice ad Achille la morte “sopra le porte Scee”. La guerra consuma le differenze fino all’umiliazione totale dell’unico; che si chiami Achille o Ettore, il vincitore somiglia a tutti i vincitori, il vinto a tutti i vinti.
Omero non ci risparmia questo spettacolo. E tuttavia l’emulazione guerriera, generatrice dell’energia individuale e delle virtù virili della collettività, rimane ai suoi occhi il principio e la molla dell’azione creatrice. È attraverso di essa che l’amore della gloria si impadronisce degli individui e dei popoli e si trasforma in desiderio d’immortalità. Ma è anche l’orgoglio dell’onnipotenza ad attirare su di sé, ovunque nell’Iliade, le rappresaglie del destino. Al di fuori di ogni sanzione di ordine morale, di ogni imperativo di origine divina, la vendetta della Nemesi antica fa apparire retrospettivamente colpevole l’atto che non rientrava nella categoria di peccato. Nell’istante in cui il Padre degli dèi dispone la sua bilancia d’oro per leggervi la decisione della fatalità, l’Uccisore può compiere la sua missione sacra: è sotto la protezione degli Immortali. Ma appena ha compiuto questa sua missione, ancora padrone della sua forza intatta, egli ridiviene una creatura vulnerabile.
La forza non si riconosce e non gode di se stessa se non nell’abuso in cui abusa di se stessa, nell’eccesso in cui si prodiga. Quel balzo supremo, quella folgorazione omicida in cui il calcolo, la fortuna e la potenza si fanno tutt’uno nello sfidare la condizione umana – in una parola, la bellezza della forza, nessuno (salvo la Bibbia, che la canta e la loda soltanto in Dio) ce la rende più palpabile di Omero. Non è per idealizzare o stilizzare i suoi personaggi che egli celebra la bellezza dei suoi guerrieri: Achille è bello, Ettore è bello, perché la forza è bella, e perché solo la bellezza dell’onnipotenza, divenuta onnipotenza della bellezza, ottiene dall’uomo questo consenso totale alla propria distruzione, al proprio annientamento, quella prosternazione assoluta che lo consegna alla forza nell’atto dell’adorazione.
In tal modo, la forza ci appare nell’Iliade contemporaneamente come la suprema realtà e la suprema illusione dell’esistenza. Omero divinizza in essa la sovrabbondanza di vita che rifulge nello spregio della morte, nell’estasi del sacrificio, e al tempo stesso denuncia la fatalità che la muta in inerzia: quel cieco impulso che la fa giungere fino al punto supremo del proprio sviluppo, fino all’annullamento di se stessa e dei valori che essa ha generato. Per mostrare l’istupidimento che l’illusione dell’onnipotenza produce, Omero non sceglie Achille o Aiace, ma il principe della saggezza. Inebriato da una momentanea vittoria, Ettore perde d’improvviso la facoltà di riflettere, il dono della misura e il senso del limite.
Rifiuta con veemenza i prudenti consigli di Polidamante, che addirittura minaccia di morte accusandolo di avere propositi disfattisti. E, senza dubbio, Polidamante non ha torto quando accusa Ettore di non accettare alcuna contestazione in consiglio così come in guerra: “Certo non bisogna parlare contro di te […], ma solo il tuo prestigio far crescere”. Dunque, mai l’eroe (nemmeno Achille) si mantiene al di sopra della condizione umana: non c’è nulla in Ettore – coraggio, nobiltà, saggezza – che non sia assoggettato e lordato dalla guerra, niente se non quel rispetto di sé che lo rende uomo, che gli permette di riprendersi di fronte all’ineluttabile, e che gli dona la suprema lucidità nell’istante della morte.
Ettore, quindi, ha perduto tutto fuorché quella gloria il cui racconto “anche ai futuri perverrà”. E questa gloria, per il guerriero di Omero, non è un’illusione ingannevole, una vana ciarla, ma l’equivalente di ciò che rappresenta per i cristiani la redenzione: una certezza d’immortalità, al di là della storia, nel distacco supremo della poesia.
Achille si accanisce sulle spoglie di Ettore. Ogni giorno, fin dall’alba, si dedica ai suoi esercizi di vendetta, trascina tre volte di seguito il corpo del suo sventurato rivale attorno alla tomba di Patroclo e lo lascia là, disteso nella polvere. Il suo insaziabile rancore si scatena contemporaneamente sull’uccisore di Patroclo e sul vinto ormai fuori tiro, che gli richiama l’inutilità della sua vittoria e la morte vicina. Ma se gli dèi hanno tolto tutto a Ettore, non possono né vogliono sottrargli la bellezza che sopravvive alla forza sconfitta. Steso faccia a terra, egli rimane bello – “Apollo teneva lontano ogni sconcio dal corpo”, “i cani li teneva lontani la figlia di Zeus, Afrodite, di giorno e di notte” –, ed è in questa sua bellezza intatta di giovane guerriero morto che sarà restituito a Priamo. Quando questi, prima di incontrare Achille, interroga ansiosamente la sua guida, Ermes lo rassicura:
E tu, anche adesso, accostandoti,
vedresti com’è fresco, e il sangue è tutto lavato,
non c’è lordura, son chiuse tutte le piaghe
quante n’ebbe; molti il bronzo gli affondarono dentro.
Così hanno cura gli dèi beati del figlio tuo
benché morto, perché di cuore lo amavano.
Non è dunque l’ira di Achille, ma il duello di Achille ed Ettore, il confronto tragico dell’eroe della vendetta con l’eroe della resistenza, a costituire il vero motivo centrale dell’Iliade e a comandarne insieme l’unità e lo sviluppo. Nonostante gli dèi e la necessità, resta un barlume sufficiente di libertà perché lo spettacolo non appaia regolato in anticipo ai nostri occhi, né a quelli di Zeus, lo spettatore divino. Seguendo il ritmo dei combattimenti, la foga degli invasori e la vigilanza degli assediati si equilibrano al punto da ricreare senza sosta, in ciascuno degli avversari, l’incertezza del futuro. Ma non per questo Achei e Troiani cessano di valutare, con incerta lucidità, le rispettive fortune, in quella “serie infinita di duelli”, il cui insieme compone la guerra di Troia. Qualunque cosa accada loro, i reucci assalitori non perdono mai la fede nella loro invincibilità, mentre, anche sull’orlo di una vittoria, i principi di Ilio non possono sfuggire al presentimento della sconfitta.
Quando Ettore osa affrontare Achille senza disperare di vincerlo, ha già usato il meglio delle sue energie a vincere se stesso. La missione di Achille è di rinnovare nelle devastazioni le fonti e le risorse dell’energia vitale, quella di Ettore è di salvare, con il dono di sé, il patto sacro la cui salvaguardia garantisce al divenire la sua continuità profonda. Ma è soltanto nell’istante del combattimento decisivo che la maturazione del coraggio fino alla ripresa del pieno controllo in Ettore e l’esaltazione dell’ira fino all’estasi omicida in Achille acquistano il loro vero significato. In questa luce, i destini di Achille e di Ettore si rivelano solidali nella lotta, nella morte e nell’immortalità.
Dove la storia non mostra che baluardi e frontiere, la poesia scopre, al di là dei conflitti, la misteriosa predestinazione che rende degni l’uno dell’altro gli avversari chiamati a un incontro inesorabile. Omero, dunque, non chiede riparazione se non alla poesia, che rapisce alla bellezza riconquistata il segreto della giustizia vietato alla storia. Essa sola restituisce al mondo oscurato la fierezza offuscata dall’orgoglio dei vincitori, dal silenzio dei vinti. Altri se la prendano con Zeus, si stupiscano che egli permetta
di mettere sullo stesso piano i cattivi e i buoni, quelli il cui animo si volge verso la giustizia e quelli che, obbedendo all’iniquità, si abbandonano alla violenza.
Omero no, non si stupisce né si indigna, e non spera in alcuna risposta. Dove sono, nell’Iliade, i buoni? Dove sono i cattivi? Non si vedono che uomini in affanno, guerrieri in lotta che trionfano o soccombono. La passione per la giustizia non si esprime che nel lutto della giustizia, e nella confessione del silenzio. Condannare o assolvere la forza vorrebbe dire condannare o assolvere la stessa vita. E la vita, nell’Iliade (come nella Bibbia e in Guerra e pace), è essenzialmente ciò che non si lascia giudicare, misurare, condannare o giustificare dal vivente. Non giudica se stessa se non nel prendere coscienza della propria indicibilità.
“Dove sono, nell’Iliade, i buoni? Dove sono i cattivi? Non si vedono che uomini in affanno, guerrieri in lotta che trionfano o soccombono”.
Questa accettazione senza irrigidimento interiore, consustanziale all’esistenza, resta molto lontana dalle esibizioni stoiche. Figlia dell’amarezza, la filosofia dell’Iliade bandisce il risentimento. Essa è anteriore al divorzio tra natura ed esistenza. Qui, il Tutto non è un montaggio di pezzi rotti e rincollati alla meglio dalla ragione, ma il principio attivo della compenetrazione reciproca di tutti gli elementi che lo compongono. Lo svolgersi dell’inevitabile ha per teatro, insieme, il cuore dell’uomo e il Cosmo. All’eterna cecità della storia si oppone la lucidità creatrice del poeta, che indica alle generazioni future eroi più divini degli dèi, più uomini degli umani.
Traduzione dal francese di Valerio Bernacchi.
Estratto da L’eternità nell’istante. Gli anni francesi 1932-1942 di Rachel Bespaloff, a cura di Cristina Guarnieri e Laura Sanò, Castelvecchi editore.
© 2022 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione.
Rachel Bespaloff
Rachel Bespaloff è stata una filosofa francese. Tra le sue opere pubblicate in Italia, L’eternità nell’istante (Castelvecchi, 2022).
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