Alberto Moravia
20 Marzo 2023
L’uomo può forse controllare la propria foga distruttiva, ma la natura no. Una riflessione sulla fine del mondo e sull'istinto di morte della specie umana a partire dalla catastrofe di Hiroshima, contenuta ne L'inverno nucleare.
INTRODUZIONE di Carola Susani
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Carissimo, eccomi ad Hiroshima ed ecco l’ultima novità: non sono più quel tale individuo a nome Alberto Moravia, non sono più italiano, europeo, ma soltanto membro della specie. E per giunta membro di una specie destinata, a quanto pare, ad estinguersi al più presto.
Questa verità mi è folgorata in mente mentre mi chinavo, riverente, per deporre un mazzo di fiori davanti al cenotafio delle duecentomila vittime della bomba atomica. In quel preciso momento, il monumento eretto in memoria del giorno più infausto di tutta la storia dell’umanità, ha “agito” dentro di me.
Ad un tratto, ho capito che il monumento esigeva da me che mi riconoscessi non più cittadino di una determinata nazione, appartenente ad una determinata cultura bensì, in qualche modo zoologicamente ma anche religiosamente, membro, come ho detto, della specie. Debbo dire che scoprire ad un tratto di essere soprattutto e soltanto membro della specie non è piacevole. È un fatto dimenticato e rimosso da milioni di anni. Un salto indietro nella preistoria, anzi in qualche remota epoca geologica. Anche perché la scoperta, come ti ho già accennato, è unicamente di segno negativo: scopro di essere membro della specie perché la specie sta per perire.
Adesso permettimi di fare una citazione. Schopenhauer, a proposito del fatto strano e contraddittorio che gli uomini non credono alla propria morte e infatti non ci pensano mai e così, praticamente, si considerano immortali, fa il seguente ragionamento: “Contro la poderosa voce della natura la riflessione può ben poco, anche nell’uomo, come nell’animale che non pensa, prevale come durevole stato quella certezza proveniente dalla più intima coscienza che lui è natura, è il mondo stesso; per la quale certezza, il pensiero della morte, sicura e mai lontana, non inquieta visibilmente nessun uomo, e ciascuno vive come se dovesse vivere in eterno.” E poco prima, aveva detto: “Non l’individuo ma la specie sola importa alla natura, la quale per la conservazione della specie si affatica con ogni sforzo, provvedendo con larga prodigalità mediante la smisurata sovrabbondanza dei germi e la grande forza della fecondità.”
In altri termini, io, Alberto Moravia, scrittore, italiano, europeo ecc. nel momento stesso che penso alla morte, cesso di essere quel tale individuo che ho detto e mi sento soltanto membro della specie e come tale immortale perché la specie non morirà mai. Ecco spiegato, dunque, perché gli uomini non pensano mai alla morte e vivono come se dovessero vivere in eterno. Ma Schopenhauer non aveva previsto — e come avrebbe potuto? — che ad un certo momento non questa o quest’altra nazione ma addirittura la specie avrebbe potuto essere minacciata di totale distruzione. Che la natura stessa, apparentemente eterna, era invece condannata ad una fine prematura. Che, insomma, la cosiddetta avventura umana era destinata ad una fine prematura, orribile ed assurda.
È sempre triste smentire la saggezza, cioè quel modo di pensare che non dovrebbe conoscere limiti di tempo essendo appunto il risultato ultimo dell’intera esperienza umana. Ma con la bomba atomica, la saggezza non vale. Allo stesso modo che la famosa sentenza dell’Ecclesiaste: “niente di nuovo sotto il sole” viene smentita dal fatto che la bomba è un’assoluta novità e così quelle parole che vanno considerate soltanto come il buon senso miope di un contadino mediorientale dell’età del bronzo; così il ragionamento di Schopenhauer va a gambe per aria allorché si riflette che la bomba vuole la distruzione proprio di quella specie apparentemente eterna che, secondo il filosofo tedesco, farebbe sì che gli uomini si sentano immortali. Sì, altro che immortalità: sarà molto se dureremo, noialtri della specie umana, ancora vent’anni, fino al Duemila! Di conseguenza, diciamo pure con tutta la solennità del caso, che prendere coscienza dell’appartenenza alla specie vuol dire, per la prima volta nella storia dell’umanità, prendere coscienza della morte propria ed altrui e, per giunta, dell’imminenza di questa morte.
Né bisogna confondere, come si fa di solito, la fine della specie per mezzo della bomba con la vecchia Apocalisse di San Giovanni. È un errore allorché si parla della catastrofe nucleare, tirare in ballo l’Apocalisse. Nell’Apocalisse, c’è pur sempre l’idea dell’immortalità condensata in quelle fatidiche parole: “Io sono il principio e la fine”. Già, perché per dire “fine”, si suppone che chi lo dice si ponga fuori dell’Apocalisse, in un’eternità in qualche modo paragonabile all’immortalità della specie di Schopenhauer.
E invece non è così, non sarà così. Alla fine non ci sarà più né la natura di Schopenhauer né il Dio di San Giovanni; ma soltanto un sasso annerito e bruciato condannato a girare per l’eternità nel vuoto spazio cosmico. Un sasso morto e inerte simile a quella luna che ho visto a Houston in occasione del lancio dell’Apollo. Sì, un sasso, in cui si sono susseguite per secoli tante civiltà, tante culture, tanti popoli la cui storia, adesso, sta per finire in una fiammata, come voleva la profezia cristiana, ma in una maniera e per motivi che non possiamo non sentire mostruosamente sproporzionati e casuali.
Ad ogni modo prendere coscienza della morte nucleare, ancor prima che orrore e paura, ha destato in me, a tutta prima, stupore. Come, mi è venuto fatto di dirmi, tanti sforzi, per migliaia di anni, e quindi, in un solo attimo, un lampo accecante, un tuono terribile e poi più niente!
Il secondo pensiero sulla bomba, è stato invece più razionale. E cioè: la fine del mondo cioè la morte della specie mediante la bomba fa parte della nostra cosiddetta storia? In altri termini, la logica della storia “porta” alla bomba: oppure l’oltrepassa e continua oltre la bomba, riducendo così la bomba stessa ad un “errore”?
I giapponesi, cioè i soli che abbiano finora sofferto la morte atomica, sono ottimisti. Sul monumento ai duecentomila morti di Hiroshima, essi hanno scritto queste enigmatiche parole che a prima vista suonano come un colossale understatement: “Riposate in pace perché noi non ripeteremo l’errore”.
“Alla fine non ci sarà più né la natura di Schopenhauer né il Dio di San Giovanni; ma soltanto un sasso annerito e bruciato condannato a girare per l’eternità nel vuoto spazio cosmico”.
Errore? Ma quale errore? L’errore demenziale del dottor Stranamore? Oppure, il più vasto e fatale errore di mettere in dubbio, attraverso l’uso della bomba, l’idea, assolutamente indispensabile all’umanità dell’immortalità della specie? Penso che si tratti della seconda ipotesi.
Infatti sappiamo di certo che l’understatement dell’iscrizione di Hiroshima ha voluto riunire nella stessa frase così il cordoglio per le vittime come il solenne impegno per la pace. Il sindaco di Hiroshima, dottor Hamai, al tempo che fu eretto il monumento, ebbe infatti a dire: “Volevamo mettervi la preghiera per la pace dei morti ma era difficile unirvi l’impegno per la pace dei vivi.” Dopo essersi scavato il cervello per trovare le giuste parole, il sindaco ricorse al professor Tadayashi Saiko, uno specialista in fatto di iscrizioni classiche. Saiko ci pensò su e poi presentò la frase che abbiamo riportato spiegandola in questo modo: “Il peggiore delitto del ventesimo secolo è stato il lancio della bomba atomica. Ma i cittadini di Hiroshima non vogliono attardarsi sul passato ma pensare al futuro, cercando di fare ciò che non è stato fatto ancora. È il privilegio di Hiroshima e di Nagasaki di far sì che noi non ripeteremo questo delitto.” Dove “noi” va inteso non già come “noi giapponesi”, come a qualcuno allora venne fatto di pensare, ma “noi uomini”, cioè “noi specie umana”. Il che, tra parentesi, pare confermare l’idea dell’esistenza di un destino “storico” dell’umanità, destino nel quale la bomba non è fatale e può essere lanciata soltanto per “errore”. In questo modo l’iscrizione prende figura di avvertimento: state attenti, la prima volta può essere stato un errore ma la seconda sarà un delitto.
Ma è stato davvero un errore? Ci sono alcuni particolari che fanno sbigottire.
Il comando supremo americano aveva finora provveduto, ogni volta che c’era un bombardamento aereo, ad avvertire la popolazione giapponese con dei volantini, che ho visto esposti nel museo di Hiroshima, dell’imminenza dell’attacco aereo. Per la bomba non ci fu alcun avvertimento, alcun volantino. E forse non è inutile ricordare che il cosiddetto “Manhattan project”, cioè il lancio della bomba sulla città di Hiroshima, fu giudicato realizzabile dall’Interim Committee presieduto dal segretario per la Guerra Stimson, con questa raccomandazione:
“Primo, la bomba dovrebbe essere usata contro il Giappone il più presto possibile; secondo, dovrebbe essere usata contro bersagli in cui si trovassero in gran quantità non soltanto impianti militari ma anche case di abitazione; terzo, non ci dovrebbe essere alcun avvertimento sulla potenza distruttiva della bomba.”
Certo anche nella volontà di fare il maggior numero possibile di vittime c’è un errore, quell’errore di cui parla l’iscrizione di Hiroshima ma anche nel gesto del suicida c’è lo stesso genere di errore, cioè l’idea che la morte sia una “soluzione”. Infatti, ciò che viene in mente di fronte all’errore di Hiroshima è che l’umanità, ad un certo punto della storia, potrebbe cercare di sbarazzarsi della storia stessa, per estrema stanchezza, suicidandosi. Secondo Eliot, il poeta che ha meglio definito e descritto nei suoi versi questa stanchezza della nostra civiltà, il mondo non finirà con un botto (“bang”) ma con un lamento (“whimper”). Ora, Eliot qui si è sbagliato. Sì, il mondo finirà proprio con un botto cioè con lo scoppio di un certo numero neppure tanto elevato di bombe atomiche.
A questo punto, tu mi chiederai, senza dubbio, che cosa si può fare e se c’è qualcosa da fare per evitare la catastrofe. È quello che mi sono domandato dopo la mia visita a Hiroshima. A questo scopo ho interrogato un certo numero di intellettuali giapponesi, cioè del solo paese che, finora, ha conosciuto l’esperienza della morte nucleare.
Ecco dunque la prima di queste interviste. È con il professor Shuichi Kato, docente di Storia Intellettuale Giapponese all’International College Sophia di Tokyo. Il professor Kato è nato nel 1919, si è laureato in medicina nel 1943 e deve forse a questo titolo il fatto di aver fatto parte della commissione giapponese-americana che immediatamente e dopo la fine della guerra fu incaricata di studiare gli effetti dell’esplosione nucleare. Ma il professor Kato deve la fama soprattutto e soltanto ai suoi libri di saggi letterari: Forma, Stile, Tradizione; Il fenomeno Giappone-Cina; l’autobiografia Hitsuji no Uta (Canti di una pecora); e soprattutto Storia della letteratura giapponese. Così che il suo parere è piuttosto quello di un uomo di lettere che di uno scienziato.
“Sì, il mondo finirà proprio con un botto cioè con lo scoppio di un certo numero neppure tanto elevato di bombe atomiche”.
Il professor Kato è un uomo, come si dice, di mezza età, con la tipica faccia dell’intellettuale di tutti i paesi del mondo. Vestito con una giacca semisportiva e pantaloni di flanella come un professore di Oxford, si esprime in ottimo, elegante francese.
Domanda. Per descrivere l’Apocalisse, San Giovanni non aveva che l’immaginazione. Nella realtà storica del suo tempo, la fine del mondo non poteva essere dedotta in alcun modo. Oggi, dopo Hiroshima, noi disponiamo invece di una prima prova di apocalisse tecnologica. Il problema, secondo me, è di sapere se potremo evitare la fine del mondo. Cioè se la fine del mondo è “inclusa” nella nostra storia oppure ne è “esclusa”. Cosa ne pensa lei? Crede che nella realtà oggi ci sia una logica non importa se storica o metafisica o altra che porta alla catastrofe nucleare?
Risposta. Poiché la corsa alle armi nucleari, così “verticale” come “orizzontale” sta continuando, non c’è ragione per credere che eviteremo la guerra nucleare, cioè la fine del mondo. È molto difficile se non impossibile evitare questa corsa e così, implicitamente, scampare alla catastrofe.
D. La catastrofe nucleare pare essere il logico sbocco della rivalità tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Ma a sua volta questa rivalità è spiegabile razionalmente oppure c’è in fondo ad essa qualche cosa di oscuro (per esempio ciò che Freud chiama “istinto di morte”) che non può essere spiegato e ci sfugge?
R. La rivalità tra Stati Uniti e Unione Sovietica mi sembra ampiamente spiegata dalla storia: gli Stati Uniti non hanno mai sofferto seriamente della guerra e perciò non la temono; dal canto suo l’URSS che ne ha troppo sofferto durante la seconda guerra mondiale, vuole essere ben preparata nell’eventualità di un conflitto. Data la rivalità militare, il complesso militare-industriale-scientifico si rafforza da ambo le parti e a sua volta rinfocola la rivalità non soltanto militare ma anche psicologica.
D. C’è un rapporto tra l’arma nucleare, che è arma di distruzione di massa, e il fenomeno della sovrappopolazione?
R. No, non lo credo.
D. C’è un rapporto tra l’arma nucleare e il disastro ecologico cioè la progressiva diminuzione delle risorse naturali?
R. Non direttamente ma indirettamente. La diminuzione delle risorse naturali di energia, per esempio il petrolio, suscita l’utilizzazione dell’energia nucleare la cui tecnologia è strettamente legata a quella delle armi nucleari. Filosoficamente, l’aggressività della civiltà materialista si traduce nel disastro ecologico ed è dunque inseparabile dall’aggressività verso la vita umana.
D. C’è un rapporto tra l’arma nucleare e il crollo dei valori tradizionali propri della cultura contadina?
R. Sì, il rapporto industriale-consumistico con il mondo della natura è in qualche modo responsabile della civiltà tecnologica e dunque della proliferazione delle armi nucleari.
D. C’è un rapporto tra l’arma nucleare e la rivoluzione industriale?
R. Si capisce. La rivoluzione industriale ha rafforzato o addirittura creato una quantità di valori come razionalità, efficacia, produttività, competitività e aggressività che possono portare alla guerra nucleare.
D. C’è un rapporto tra l’arma nucleare e quello che va sotto il nome di genocidio, cioè dell’idea che un determinato popolo o gruppo etnico possa o debba venire totalmente distrutto, come per esempio è già avvenuto agli ebrei nella seconda guerra mondiale, in base a pretesti pseudo-scientifici o di altro genere (morali, ideologici, religiosi ecc.)?
R. Va da sé. L’arma nucleare è il mezzo più adatto per mettere in atto il genocidio.
D. Ammettendo un momento che la fine del mondo non sia voluta dalla logica della storia, cosa bisogna fare per evitare l’errore di cui parla l’iscrizione del monumento ai morti di Hiroshima?
R. Bisogna mettere in atto il disarmo nucleare. Per arrivare al disarmo nucleare, bisogna cominciare a disarmare unilateralmente. Per costringere i governi a disarmare unilateralmente, bisogna allargare, incentivare i movimenti popolari antinucleari.
D. Lei crede che sia possibile psicologicamente e tecnicamente una guerra nucleare limitata, cioè con vincitori e vinti o con la possibilità per il mondo di riprendersi e continuare ad esistere?
R. Una guerra nucleare limitata è possibile ma non probabile.
D. Lei crede nel “deterrente” cioè nella vicendevole paura di USA e URSS delle armi nucleari dell’avversario?
R. Il presidente Reagan sulla questione del “deterrente” ha detto: no. Egli predica in sostanza la guerra nucleare limitata.
D. La proibizione dell’arma nucleare le sembra possibile?
R. Se l’umanità non vuole sparire, bisogna arrivare alla proibizione. Ma non sono sicuro che l’umanità non voglia sparire.
D. Crede che potrebbe avvenire alla bomba atomica quello che è avvenuto ai gas asfissianti, cioè di non venire usata proprio per la sua incontrollabile pericolosità?
R. No, perché la bomba è più efficace e al tempo stesso più controllabile dei gas.
D. Crede che la guerra tradizionale (con armi convenzionali e vincitori e vinti) sia stata resa impossibile dalla guerra nucleare?
R. No, per niente. Dopo l’invenzione della bomba atomica, ci sono state una quantità di guerre cosiddette convenzionali.
D. Crede che la presa di coscienza da parte della popolazione del mondo intero della minaccia nucleare possa impedire il conflitto atomico?
R. Ci dovrebbe essere non soltanto la presa di coscienza ma anche l’espressione politica del sentimento antinucleare, attraverso i mass-media, petizioni, manifestazioni, sit-in, sabotaggi, scioperi, e insomma tutti i mezzi possibili, legali e illegali.
“Se l’umanità non vuole sparire, bisogna arrivare alla proibizione. Ma non sono sicuro che l’umanità non voglia sparire”.
D. Un accordo tra URSS e USA per la spartizione del mondo in due zone di influenza potrebbe fare evitare il conflitto nucleare?
R. Non ci credo. Ci sono troppe tendenze che sembrano determinare l’indipendenza assoluta e vicendevole delle superpotenze perché il mondo possa essere agevolmente diviso in due parti.
D. E l’unificazione del mondo in un solo organismo planetario?
R. E’ uno scopo molto lontano. Certamente non raggiungibile nei tempi brevi.
D. Il Giappone è il solo paese che abbia finora vissuto l’esperienza orribile della catastrofe nucleare. Esiste una soluzione giapponese per impedire il conflitto atomico?
R. Sotto la pressione popolare, il governo giapponese ha adottato la politica antinucleare dei tre punti: primo, non fabbricazione; secondo, non possesso; terzo, non introduzione della bomba. È meglio che niente. Ma le basi americane in territorio giapponese non possono essere controllate dal nostro governo. Il terzo punto, dunque, manca di seria garanzia.
D. La schiavitù, durata migliaia di anni, non è finita da sé, per farla finire sono state necessarie sia una presa di coscienza universale sia misure pratiche. Crede che succederà lo stesso con la guerra e in particolare con la guerra atomica? Non crede che il pacifismo dovrebbe essere più organizzato, più aggressivo?
R. Sì. Il pacifismo dovrebbe essere molto più organizzato, molto più aggressivo e al tempo stesso molto più diffuso.
D. Crede che l’Onu dovrebbe essere rafforzato nel senso di essere in grado di agire sia sul piano economico sia sul piano militare in modo da impedire le guerre convenzionali, specie nel Terzo mondo?
R. Sì, ne sono convinto. Ma la funzione deterrente dell’ONU dipende dalla distensione tra URSS e USA. Dunque la politica di distensione dovrebbe essere perseguita a tutti i costi.
D. Crede che il disarmo totale dei paesi non interessati al conflitto tra USA e URSS (cioè praticamente di tutti i paesi del mondo salvo URSS e USA) potrebbe impedire la catastrofe nucleare?
R. Non sarebbe facile perché ci sono dei paesi che non accetterebbero il diktat americano o sovietico e dunque parteggerebbero per forza di cose sia per l’URSS sia per l’USA. Ma l’allargamento delle zone demilitarizzate faciliterebbe la distensione. Lo spirito di coesistenza, di compromesso e di distensione potrebbero rafforzarsi. Questo non impedirebbe la catastrofe nucleare ma ne diminuirebbe sensibilmente la probabilità.
Carissimo, questa materia ti sembrerà forse noiosa e arida. Ma una anche breve visita al museo degli orrori nucleari di Hiroshima ti convincerà che questa aridità nasconde una incommensurabile tragedia. Ed è qui che la filosofia della bomba si ferma e comincia l’incomprensibile, l’inconcepibile. Dice Nigel Calder, specialista del tema nucleare, nel suo libro Le guerre possibili:
“Tuttavia è sufficiente che un folle, un politico o un militare, si stanchi, e diventi intollerante della pace o che un incapace non sappia gestire una crisi, perché la civiltà del nostro emisfero abbia fine immediatamente.”
Questo è l’aspetto forse più terribile della bomba: l’impossibilità per il mondo di continuare ad esistere, a svilupparsi e a progredire sotto la minaccia della morte nucleare. Come mai si sia giunti a questo punto è difficile dirlo. Per millenni tutto lo sforzo degli uomini in guerra è stato di lanciare un oggetto contro l’avversario. Prima la fionda dei cavernicoli, poi le frecce, poi i primi archibugi, poi i cannoni su su fino ai proiettili esplosivi che in realtà servono anch’essi a lanciare, in forma di frammenti, degli oggetti mortiferi. Improvvisamente, diabolicamente, l’uomo è riuscito a violare il mistero della natura cioè a sfruttare un processo, diciamo così, naturale a scopo distruttivo. Per far capire quanto lo scoppio della bomba sia “naturale” cioè rivaleggi in terribilità con la natura, basterà pensare che subito dopo lo scoppio la temperatura raggiunge diversi milioni di gradi, cioè la temperatura stessa interna del sole.
Ora, l’uomo può forse controllare la propria distruttività; la natura no. Essa non ha alcun motivo di esercitare l’autocontrollo. L’uomo, dunque, è riuscito a mettere al servizio delle sue guerre insensate un furore indifferente e illimitato, il quale forse ha un senso che però non riguarda l’uomo.
L’estratto Lettera da Hiroshima è tratto da L’inverno nucleare (Bompiani, 2022). Si ringraziano la casa editrice, Carola Susani e l‘Associazione Fondo Alberto Moravia.
Domenica 26 marzo A Libri Come, Alessandra Grandelis, Nicola Lagioia, e Paolo Pecere omaggiano e ricordano Alberto Moravia a partire da L’inverno Nucleare.
L’appuntamento Nato per Narrare: riscoprire Alberto Moravia, organizzato da Fondazione Circolo dei lettori in collaborazione con la GAM e il Cinema Massimo, si terrà alle ore 15 all’Auditorium Parco della Musica di Roma, in Sala Studio 2.
Alberto Moravia
Alberto Moravia è stato uno scrittore italiano. Tra le sue opere, Gli Indifferenti (Bompiani, 1949).
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