Il buon turista non esiste - Lucy
articolo

Lucia Tozzi

Il buon turista non esiste

Esiste il turismo sostenibile? A quanto pare no. Chi viaggia animato da buone intenzioni dovrebbe rassegnarsi, perché soddisfare i propri desideri ha un prezzo.

Il voyage d’Italie era un genere paraletterario molto praticato: con le rarissime eccezioni che ancora vengono lette e citate, questi lunghi reportage sette-ottocenteschi redatti da letterati o aristocratici restano un corpus quasi indigeribile di luoghi comuni orientalisti e impressioni non richieste sulle stesse opere d’arte e gli stessi monumenti. 

Anche quello del marchese de Sade era noioso e ripetitivo, ma ha funzionato come uno schizzo dal vero, uno di quei quadri di sintesi che i pittori preimpressionisti tracciavano sinteticamente en plein air allo scopo di fissare gli elementi essenziali di un paesaggio per poi rielaborarli con calma in un’opera più strutturata e importante. 

L’itinerario classico tra le città d’arte si trasformò, nella mente ossessiva di Sade, in una cupa e perversa scenografia adatta a ospitare le gesta di Juliette, l’eroina che prospera grazie al vizio, al contrario della virtuosa – e per questo perseguitata dagli uomini e dalla natura stessa – Justine, sua sorella. Juliette accumula potere e prestigio organizzando orge crudeli tra le mura dei palazzi rinascimentali fiorentini, nelle regge borboniche e a San Pietro, per e con  papa Pio VI, da lei confidenzialmente appellato “Braschi”. 

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Naturalmente è legittimo annoiarsi, come molti fanno, anche leggendo il Sade romanziere, ma non è questo il punto. Juliette è sicuramente un prototipo della bad girl, ma soprattutto è l’incarnazione del bad tourist, il cattivo turista. Il suo arrivo in ogni nuova location porta stragi e violenza, stupri e assassinii, fonte di godimento per chi agisce (per lo più ricchi aristocratici) e di infinite sofferenze per le vittime, a volte anch’esse nate nel privilegio ma più spesso nei bassifondi. La natura, che a quei tempi era più nota per essere matrigna e distruttrice che non Pacha Mama, premia la sua capacità di nutrirsi di vite straziate procurandole trionfi e successi evolutivi. La vita, il piacere sono il campo della sopraffazione, dominati dal principio estrattivo: non c’è posto per gli scout. 

Senza arrivare agli estremi di Juliette e dei suoi sodali, sarebbe ora di ammettere che in viaggio siamo tutti uguali a lei: forse non rapiamo bambini per usarli come prede sessuali (anche se le cifre sul turismo sessuale minorile sono sorprendenti, e gli italiani sono primi al mondo nel campo), ma prediamo le loro case ogni volta che prenotiamo un airbnb o un booking, costringiamo i loro genitori a diventare in qualche modo nostri servitori – camerieri, maestri di sci o kitesurf, animatori, commessi, bagnini, guide, insomma ad abbracciare tutti i mestieri precari, stagionali e poco redditizi che dipendono dai flussi turistici. Ci accaparriamo la loro acqua per giocare a golf su prati molto verdi, ci riserviamo l’uso esclusivo delle loro spiagge più belle, dei musei e monumenti più importanti, dei mezzi di trasporto più efficienti. La nostra smodata passione per il territorio in cui abitano alimenta la produzione di nuova edilizia, nuove strade, nuovi parcheggi, nuove piste da sci, nuovi impianti di risalita, nuovi porti turistici, nuovi aeroporti sempre più simili a centri commerciali: ammassi di cemento che deturpano quei territori che, se prima erano molto amati perché “vergini”, ora finiscono per non piacerci più; e allora, si va in cerca di altri lidi, più o meno incontaminati da conquistare e poi abbandonare, in un loop senza fine

“Forse non rapiamo bambini per usarli come prede sessuali, ma prediamo le loro case ogni volta che prenotiamo un airbnb o un booking, costringiamo i loro genitori a diventare in qualche modo nostri servitori”.

Siamo gli attori materiali di una forma subdola di colonialismo, una forza che non si limita a sfruttare le risorse, ma gerarchizza la società dei residenti, dividendola in una minoranza di proprietari di immobili e imprese (che hanno la possibilità di abbracciare nuove ricchezze) e una maggioranza di spossessati (della casa, del lavoro, dei servizi pubblici), monopolizza l’economia, trasformando anche l’agricoltura o l’artigianato in turismo e la cultura in marketing del folklore e auto-orientalismo. 

Chi campava coltivando frutta e verdura per il mercato locale viene sostituito da designer convertiti alla progettualità europea che organizzano workshop e laboratori didattici sull’agroforesta con aperitivo. Chi studiava archeologia o medicina o cinema si ritrova a fare la comunicazione per l’agriturismo dell’odiato vicino o i corsi di equitazione o di immersione per i villeggianti, o a inventarsi la storia inesistente del prodotto tipico locale, formaggio o coltellino che sia, o a organizzare per mesi il festival della tarantella che ha sempre odiato da quando bambino ne aveva sorbito le prime note nella recita scolastica. 

Tutto questo per attirare e soddisfare noi, i turisti pazzi della pizzica ma anche del trullo resort, del corso di cucina marocchina e del pittoresco delle concerie tossiche, della funicolare sospesa sulle favelas e della basso experience con la pizza fritta cotta con la bombola, o anche dei tour Scampia-Faraglioni tutto compreso e dei selfie al lager. 

È necessaria una falsa coscienza formato King Kong per definire questo dispositivo di regressione sociale una forma democratica di scambio culturale. L’unica illusione di democrazia viene offerta dalla possibilità, per chi serve, di essere servito in qualche altro posto da lavoratori ancora più malpagati grazie a una crociera o a un pacchetto che offre una simulazione low cost del lusso. Una consolazione ben magra, la realizzazione a tempo determinato del pavido sogno di Leporello. Invece di organizzarsi per respingere l’assoggettamento, ricaricare la propria autostima strapazzando il cameriere che non sa piegare l’asciugamano a cigno bene come lo fai tu al paese tuo. E poi tornare a piegare la schiena col sorriso standard. 

Ma allora, mi dicono e mi ridicono, che fare? Dobbiamo rinunciare anche al piacere del viaggio? Ah, fustigatrice dei costumi! Ahi moralista! Che colpa ne abbiamo noi, poveri meschini? La responsabilità è tutta della finanza, delle multinazionali e dei politici capitalisti. A chi del resto potrebbe giovare il rifiuto di un singolo? Se non ci vado io a scoprire l’ultima isola greca autentica ci andrà mio cugino, il mio capo, i cinesi.

Il buon turista non esiste -

Più o meno è così: la questione non è purificarsi dal turismo, compiendo l’ascetica ed eroica scelta di restare a squagliarsi nelle isole di calore urbane. La ricerca della coerenza perfetta implicherebbe anche evitare l’aria condizionata, la carne e il pesce, l’avocado, i prodotti in plastica ma anche in cuoio e fast-fashion, i mezzi di trasporto individuali sia elettrici che alimentati da combustibili fossili, i device e soprattutto lo smartphone, gli eventi culturali e sportivi troppo commerciali, la sanità privata, i supermercati, l’aperitivo e il delivery. E infinite altre cose, tra cui i lavori fondati sulla manipolazione della realtà (nella comunicazione per esempio) e quelli che implicano lo sfruttamento dei sottoposti, cioè la quasi totalità. 

La questione, a mio parere, è rinunciare all’idea di sentirsi buoni viaggiatori. Ovviamente alcune scelte producono più danno di altre – chi si sposta in jet privato per raggiungere la propria destinazione del weekend o invita la coppia di amici in panfilo è più malvagio del singolo passeggiatore solitario in campagna – ma è importante liberarsi dell’idea del turismo sostenibile, che non esiste. 

Il turismo è un fenomeno scalare: se è vero che i multimilionari, come in tutto quello che fanno, hanno impatti procapite più gravi sull’ambiente e la società, vietare yacht, droni e jet privati non compensa i flussi di milioni di persone che si spostano annualmente con voli low cost o navi da crociera. I cicloturisti originari, che affrontavano una serie di rischi dopo avere sviluppato parecchie abilità attraversando sentieri impervi, sono purtroppo stati i pionieri di una moda nefasta che oggi procura danni pesantissimi alle montagne, perché le masse meno esperte oggi rivendicano il diritto di arrivare con le bici nei luoghi che loro avevano raccontato, segnalato, filmato, e il nuovo business costruisce per loro infrastrutture più impattanti dello sci. I boutique festival sono l’anticamera dei concertoni, l’arte pubblica gentrifica i paesi trasformandoli in borghi di lusso che sotto i finti tetti in ardesia consumano più energia dei grattacieli di Dubai. La turistificazione delle comunità di fricchettoni e persino dei movimenti politici è ormai un luogo comune, dalla triste deriva di Christiania (che si appella oggi alle autorità per contrastare il traffico di droga) agli zapatisti (che stavano proprio in un bel posto, bello il Chiapas).

“Siamo gli attori materiali di una forma di colonialismo che non si limita a sfruttare le risorse ma gerarchizza i residenti, dividendoli fra proprietari di immobili e spossessati”.

Mark Fisher si è a lungo interrogato sul Luxury communism, senza giungere a una conclusione. Se il comunismo ha storicamente perso la battaglia del desiderio, sopraffatto dall’immaginario consumistico americano, se i Levis hanno vinto sull’uguaglianza, come costruire un realismo comunista, cioè un desiderio non utopico, ma “realistico e realizzabile”, alternativo a quello di matrice capitalista? Come scrollarsi di dosso “il grigiore antilibidico” associato all’uguaglianza – si chiedeva in una nota conversazione con Judy Thorne – e postulare una “ricchezza, un’abbondanza rossa, per usare i termini di Francis Spufford, che fa sembrare i prodotti del capitalismo piuttosto pacchiani”? 

Uno dei grossi problemi è che l’idea di un lusso non differenziale, non competitivo, dissociato dall’esclusività, è pensabile (e doveroso) in certi ambiti e non in altri. Fatto salvo un certo margine di libertà, di eterogeneità dei gusti, è assolutamente legittimo nel campo dell’abitare, della scuola, della sanità, del sapere, del tempo. In questi campi è logico assumere che “gli ostacoli a una riorganizzazione e redistribuzione egualitaria delle risorse non sono materiali o tecnologici: sono politici”. Potremmo lavorare tutti meno e avere più tempo libero. È un desiderio realizzabile quello di abitare tutti in case proporzionate alle nostre esigenze e non chi in un castello e chi in una baracca. Non è utopistico – è stato già in parte realizzato nella storia, anche se stiamo velocemente regredendo – un diritto universale alle cure sanitarie. 

Ma se pensiamo alle risorse ambientali, e probabilmente a quelle energetiche, l’assunto dell’infinità cade in maniera inversamente proporzionale alla crescita esponenziale della popolazione. Marx viveva insieme a un miliardo di abitanti, noi insieme a otto miliardi che consumano molto di più, e non casualmente in modo sempre più disuguale, come dimostra Piketty. 

Di cosa potrebbe quindi essere fatto questo lusso comunista? Quali sono le risorse lussuose che non potrebbero mai essere redistribuite equamente, e che la loro intrinseca esclusività collocherebbe tra i desideri “pacchiani” di matrice capitalista? 

Non avrebbe senso, ad esempio, desiderare caviale per tutti perché se ne producono 380 tonnellate all’anno (ne spetterebbero 0,0475 grammi a testa); di champagne toccherebbe meno di una goccia all’anno; di auto purtroppo ne abbiamo una ogni cinque abitanti, e sappiamo quanto sia  già infernale così. Le imbarcazioni sono stimate in soli 33 milioni, e a giudicare dalla situazione attuale augurarsi una crescita è suicida. 8 miliardi in barca sarebbe l’orrore, ma anche solo 100 milioni. E però già una mora su questi beni posizionali à la Briatore-Crozza susciterebbe una reazione anti-austerity da parte di parecchi sostenitori del luxury communism. Inserire il viaggio tra i desideri pacchiani sarebbe uno scandalo. 

“Amare il viaggio non significa magnificarne le virtù. Chi ama bere Negroni non confuta il fatto che è dannoso per l’organismo”.

I dati sull’overtourism sono inequivocabili: il 20% della popolazione mondiale (1,46 miliardi su 8) si sposta internazionalmente ogni anno, mentre nel 1950 lo faceva solo l’1% (25 milioni su 2,5 miliardi). Se lo facessero tutti, non ci sarebbe più spazio per abitare, fare ricerca, andare a scuola, vivere – se non per pochissimi privilegiati. Il desiderio di viaggiare è in aperto conflitto con il desiderio di redistribuire la ricchezza, e almeno per ora è molto più diffuso. 

In conclusione, Juliette aveva le idee molto più chiare sia dello stolido liberale che viaggia in lungo e in largo pensando di fare bene all’economia locale, sia del volenteroso turista sostenibile che pensa di alimentare lo scambio culturale e magari anche politico. Era cosciente, in generale, che il desiderio non è necessariamente positivo o altruista, e che comporta rischi per sé e per gli altri. Lei, personaggio sadiano, naturalmente se li assumeva. Dovremmo farlo anche noi, come del resto sostiene anche la compagna Elisa Cuter, autorità in materia.

Amare il viaggio non significa magnificarne le virtù. Chi ama bere Negroni, indipendentemente dall’inclinazione politica, non confuta il fatto che è dannoso per l’organismo. A livello morale, ognuno troverà i compromessi con la propria coscienza. A livello politico chi desidera l’uguaglianza può felicemente combattere il turismo senza tema di essere equiparato agli ideologi dell’austerità. Chi non la desidera, almeno ci risparmiasse le penose retoriche del trickle-down. 

Lucia Tozzi

Lucia Tozzi è studiosa di politiche urbane e giornalista freelance. Il suo ultimo libro è L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio 2023).

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