Il seguace - Lucy
racconto

Damon Galgut

Il seguace

23 Febbraio 2023

Qualcosa di oscuro lega Damon e Reiner e qualcosa di oscuro verrà detonato quando i due partono per il Lesotho, in un viaggio sfiancante che esplora il mistero dell’attrazione e del potere.

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Il seguace

Succede così. Nel pomeriggio si incammina sul viottolo che gli hanno indicato e poco dopo si è già lasciato alle spalle il paese. Nel giro di un’oretta è fra le colline basse ricoperte di olivi e pietre grigie da cui si scorge il panorama di una pianura che gradualmente declina verso il mare. Prova una felicità intensa, il che per lui è possibile quando cammina ed è solo.

Poiché la strada sale e scende ci sono momenti in cui vede lontano e altri momenti in cui non vede niente. Continua a cercare con gli occhi altre persone, ma l’immenso paesaggio sembra completamente deserto. L’unico segno di vita umana è qualche casa sporadica, minuscola e distante, e l’esistenza della strada stessa.

Poi a un certo punto, arrivando sulla cresta di un colle, si accorge di un’altra figura lontana. Potrebbe essere una figura maschile o femminile, potrebbe essere di qualsiasi età, potrebbe camminare nell’uno o nell’altro senso di marcia, verso di lui o nella direzione opposta. Lui continua a guardare finché la strada, digradando, non scompare alla vista e quando arriva in cima all’altura successiva la figura è più nitida, gli viene incontro. Ora si guardano a vicenda, facendo finta di no.

Quando arrivano fianco a fianco si fermano. La figura è un uomo più o meno della sua età, tutto vestito di nero. Camicia e pantaloni neri, scarponi neri. Anche lo zaino è nero. Cosa indossi il primo uomo non lo so, lo dimentico.

Si salutano con un cenno del capo, sorridono.

Da dove vieni.

Da Micene. Indica dietro la spalla. E tu.

Anche l’uomo in nero, con un gesto vago, indica un punto in lontananza alle sue spalle. E dove vai. Ha un accento che il primo non riesce a collocare, scandinavo forse, o tedesco.

A vedere i ruderi.

Credevo che i ruderi fossero da quella parte.

Sì, ma non quei ruderi. Quelli li ho visti.

Ce ne sono altri, quindi.

Sì.

Lontani quanto.

Credo una decina di chilometri. Così mi hanno detto.

L’uomo in nero annuisce. Ha un tipo di bellezza imbronciata, capelli lunghi e setosi che gli ricadono sulle spalle. Sorride, anche se non c’è niente di cui sorridere. Tu di dove sei.

Sono sudafricano. E tu.

Io sono tedesco. Dove alloggi a Micene.

All’ostello della gioventù.

C’è un sacco di gente, mi sa.

No, sono l’unico. Tu rimani.

L’altro scuote la testa, le lunghe ciocche si sollevano e si agitano. Prendo il treno stasera. Per Atene.

Hanno portato avanti questa conversazione con curiosa formalità, divisi dall’ampiezza della strada, eppure nel modo in cui si rapportano c’è qualcosa, se non proprio di intimo, di familiare. Come se si fossero già conosciuti da qualche parte, tanto tempo fa. Ma non è così.

Buon proseguimento, sorride il tedesco. Il sudafricano ringrazia. Si separano di nuovo con un cenno del capo e lentamente si allontanano l’uno dall’altro sulla stradina bianca, guardandosi indietro ogni tanto, finché non ridiventano due puntini minuscoli che salgono e scendono ognuno per conto suo con le ondulazioni del terreno.

Arriva ai ruderi a metà pomeriggio. Adesso non ricordo nemmeno cos’erano, i resti di qualche grande ma oscuro edificio, c’era una recinzione da scavalcare, c’era il timore di incontrare dei cani che però non si sono visti, lui avanza inciampando fra pietre, colonne e aggetti, tenta di immaginare com’era, ma la storia resiste all’immaginazione. Si siede sul bordo di un pavimento rialzato di pietra e fissa le colline intorno senza vederle e adesso pensa a cose accadute in passato. Riandando indietro nel tempo, lo ricordo mentre ricorda, e sono più presente sul posto io di quanto non fosse lui. Ma la memoria ha le sue distanze, in parte quell’uomo sono completamente io, in parte è uno sconosciuto che osservo.

Quando torna in sé il sole è già basso, sulla piana si allungano le ombre dei monti. Si riavvia adagio nella frescura azzurra. Le stelle si disseminano nel cielo in aiuole luminose, la terra è enorme, antica e nera. Arriva alla periferia del paesino che l’ora di cena è trascorsa da un pezzo e passa per il corso deserto, i negozi e le trattorie sbarrati, tutte le finestre spente, attraverso il portone aperto dell’ostello, su per le scale, lungo corridoi, davanti a stanze con file e file di letti a castello vuoti, tutto buio e freddo, in quel periodo dell’anno non ci viene nessuno, finché non raggiunge l’ultima stanza, quella più in alto, al centro del sottotetto, un cubo bianco fissato a un piano. Ora è stanchissimo, ha fame, e vuole dormire.

Ma nella stanza c’è il tedesco che aspetta. È seduto su un letto, con le mani fra le ginocchia, e sorride.

Ciao.

Lui entra e si chiude la porta alle spalle. Che ci fai qui.

Ho perso il treno di stasera. Domattina ce n’è un altro. Ho deciso di aspettare. Gli ho chiesto di mettermi in stanza con te.

Vedo.

Non ti dispiace, spero.

Sono solo sorpreso, non me l’aspettavo, no, non mi dispiace.

Non gli dispiace, ma comunque è a disagio. Sa che l’altro ha rimandato la partenza non a causa del treno ma a causa sua, a causa della conversazione che hanno fatto per strada.

Si siede sul proprio letto. I due si scambiano di nuovo un sorriso.

Tu quanto tempo ti trattieni.

Parto domattina anch’io.

Vai ad Atene.

No. Dall’altra parte. A Sparta.

Quindi Micene l’hai già vista.

Sono qui da due giorni.

Ah.

Ora c’è un silenzio in cui nessuno dei due si muove.

Magari resto un altro giorno. Non ho fretta. Questo posto mi piace.

Il tedesco ci riflette. Pensavo che potrei anch’io. Io Micene non l’ho vista.

Dovresti.

Quindi rimani.

Sì.

Sì. Allora rimango anch’io. Un giorno.

La sensazione è che l’accordo che hanno preso vada oltre questa decisione pratica, ma non è chiaro cosa riguardi di preciso. È tardi e fa freddo e la stanzetta sotto la luce al neon è grezza e brutta. Poco dopo il sudafricano s’infila nel suo sacco a pelo. È timido e mentre normalmente si spoglierebbe stasera non lo fa. Si toglie scarpe e orologio e i due bracciali di rame, entra e si sdraia. Vede le stecche di metallo del letto di sopra e gli tornano in mente immagini slegate di quella giornata, i ruderi, la strada, le forme nodose degli olivi.

Anche il tedesco si prepara per andare a dormire. Stende il sacco a pelo sopra il letto sul quale è seduto. Ovviamente il sacco a pelo è nero. Si slaccia gli scarponi, se li toglie e li mette per terra l’uno accanto all’altro. Forse anche lui normalmente si spoglierebbe ma stasera no; non c’è modo di sapere cosa farebbe normalmente. Il tedesco non porta orologio. Con i calzini neri indosso va a spegnere la luce vicino alla porta, poi torna a letto senza fare rumore e s’infila dentro. Per sistemarsi gli ci vuole qualche istante.

Il sudafricano dice qualcosa.

Non ti sento.

Come ti chiami.

Reiner. E tu.

Io mi chiamo Damon.

Damon. Buonanotte.

Buonanotte, Reiner.

Buonanotte.

Quando il giorno dopo si sveglia, nell’altro letto non c’è nessuno e dalla doccia adiacente arriva il fruscio dell’acqua. Si alza ed esce fuori sul terrazzo. L’aria è gelida, brillante e limpida. Si avvicina al bordo e si siede sul parapetto, con tutti gli altri tetti del paesino ai suoi piedi, il corso che va da est a ovest, le sagome minuscole di alcuni cavalli in un campo. È lontanissimo da casa.

Reiner esce sul terrazzo asciugandosi i lunghi capelli con un asciugamano. Porta gli stessi pantaloni neri del giorno prima ma niente camicia, ha un fisico abbronzato e sodo, perfettamente proporzionato. Sa di essere bello e in qualche modo questo fatto lo imbruttisce. Resta in piedi ad asciugarsi al sole, poi va anche lui a sedersi sul parapetto. L’asciugamano gli penzola intorno al collo, ha la pelle d’oca dal freddo, sui peli ispidi del petto gli brillano delle perline d’acqua che sembrano metallo.

Cos’hai voglia di fare oggi.

Che ne dici di quei ruderi.

Vanno a vedere i ruderi. Lui li ha già visti, il giorno prima è rimasto lì per ore, ma adesso guarda i muri spessi, le fondamenta, le fortificazioni e le tombe alte attraverso gli occhi di Reiner, che senza cambiare espressione gira da un piano all’altro alla stessa velocità invariabile, il lungo corpo perfettamente eretto. Si siede su un masso ad aspettare e Reiner gli va vicino e si accovaccia. Parlami di questo posto, dice.

Non so granché dei fatti storici, a me interessa più che altro la mitologia.

Allora parlami di quella.

Lui racconta quello che ricorda, che la donna rimasta sola aveva atteso il ritorno del marito dalla lunga guerra di Troia covando vendetta per il dolore che le aveva procurato l’assassinio della figlia, nulla alimenta la sete di vendetta come il dolore, è una lezione che la storia continua a insegnare, e la donna unisce la propria rabbia a quella del suo amante che ha i propri dolori da vendicare, fino al giorno in cui Agamennone non torna portando con sé la concubina che tiene prigioniera, la profetessa che vede cosa riserva il futuro ma non può far niente per evitarlo. Entra e passa sopra gli arazzi vivaci che la moglie gli ha steso davanti, trascinandosi dietro dieci anni d’assedio, Cassandra lo segue, entrambi vengono ammazzati. Agamennone viene assassinato nel bagno e per qualche motivo questa è l’immagine che si conserva più vivida e reale, quella dell’omone abbattuto a colpi d’ascia che sputa sangue e crolla nudo nell’acqua scarlatta, chissà perché è sempre tanto facile immaginare la violenza mentre la tenerezza per me resta chiusa nelle parole. Già nel finale di questa storia appare inevitabile il ciclo successivo di dolori e vendette, vale a dire che la storia seguente non può non iniziare.

Ed è vero?, dice Reiner. Vero in che senso. Nel senso, se è successo per davvero. No, no, questo è il mito, anche se il mito racchiude sempre un po’ di realtà. E la realtà in questo caso qual è. Mah, che questo posto esiste mentre per tanto tempo si era creduto il contrario, questa è una realtà, per cominciare. A me i miti non interessano granché, dice Reiner, saliamo lassù.

Si riferisce al monte dietro i ruderi.

Lassù.

Sì.

Perché.

Perché sì, dice Reiner. Sorride di nuovo, nel suo sguardo c’è un luccichio particolare, ha lanciato una specie di sfida e rifiutare sarebbe un fallimento.

Cominciano a salire. Sul primo pendio c’è un campo arato intorno al quale girano con attenzione, poi il monte diventa ripido, loro si fanno strada nella macchia e si inoltrano fra i rami. Più salgono, più le pietre si ammucchiano e diventano pericolose. Dopo un’oretta sono arrivati su una spalla bassa del monte con la cima che svetta alta sopra di loro, solo che lui non vuole andare oltre. Basta, dice. Basta, esclama Reiner alzando lo sguardo perplesso, ti sei stancato? Sì. Passa un attimo prima che arrivi la replica: d’accordo, e quando si siedono su un masso il tedesco ha una strana espressione sardonica sul viso.

I ruderi ora sono molto più in basso e le altre due o tre persone che li stanno visitando sono piccole come pupazzetti. Il sole è già alto e nonostante la stagione è una giornata calda. Reiner si toglie la camicia e rimette a nudo l’addome piatto con la scia di peli scuri color polvere da sparo che scende, scende giù. Cosa ci fai tu in Grecia, chiede. 

Cosa ci faccio in Grecia, dici. Vado in giro. Guardo. Tutto qui.

Guardi che cosa.

Non so.

Da quanto tempo è che sei in viaggio.

Qualche mese.

E dove sei stato.

Sono partito dall’Inghilterra. Francia, Italia, Grecia, Turchia e ora sono tornato in Grecia. Non so dove andrò da qui.

C’è un silenzio durante il quale il tedesco lo studia e lui guarda altrove, la valle, la pianura fino ai monti azzurri e distanti, dietro queste domande ce n’è un’altra alla quale non vuole rispondere.

E tu.

Io sono venuto qui a riflettere.

A riflettere.

Sì. A casa ho un problema. Volevo venire qui qualche settimana per camminare e riflettere.

Reiner dice così e poi chiude gli occhi. Neanche lui vuole parlare, ma in lui il silenzio è potere. A differenza mia, a differenza mia. Mi tolgo la camicia anch’io per crogiolarmi al sole caldo. Poi, senza sapere perché, continua, si toglie scarpe e calzini, e i pantaloni, resta in mutande sul masso, l’aria non è più tanto calda. Tutti e due capiscono che in un certo senso si sta offrendo, magro, pallido e commestibile, sulla roccia grigia. Chiude gli occhi anche lui.

Quando li riapre Reiner si sta rinfilando la camicia. La sua espressione resta immutata, non tradisce nulla. È ora di pranzo, dice, voglio tornare giù.

Il ricordo successivo che gli sovviene è di quella sera e in qualche modo è l’inverso della mattina, lui sta seduto di nuovo sul parapetto mentre l’ultima luce abbandona il cielo, Reiner è di nuovo sotto la doccia, si sente il rumore dell’acqua. Poi cessa. Poco dopo Reiner esce fuori, di nuovo a petto nudo, con l’asciugamano intorno al collo, e va a sedersi accanto a lui sul muretto. Per un po’ restano in silenzio e poi, come rispondendo a una domanda che gli è appena stata fatta, Reiner dice a bassa voce che è lì per riflettere su una donna.

Il sole se n’è andato, stanno spuntando le prime stelle.

Una donna.

Sì. C’è una donna a Berlino. Che mi vuole sposare. Io non voglio, ma se non la sposo lei ha intenzione di non vedermi più.

E questo è il problema.

Sì.

E hai deciso.

Non ancora. Ma non credo che mi sposerò.

Il paese è costruito su un pendio che digrada dolcemente per un paio di chilometri e quindi si appiattisce nella piana che continua fino al mare. Dove comincia la piana c’è la ferrovia che lo ha portato lì e l’indomani lo porterà via, sulla quale in quel momento sta passando un treno in lontananza con le carrozze illuminate all’interno da un bagliore giallo. Lui guarda il treno che passa. Anch’io sono qui a causa di un’altra persona, dice. Ma io non devo decidere, solo dimenticare.

Me l’ero immaginato.

La persona non è una donna.

Reiner fa un gesto nell’aria, come se stesse gettando via qualcosa. Donna o uomo, dice, per me non fa nessuna differenza.

Sembra che questo significhi una cosa, ma potrebbe anche significarne un’altra. Più tardi, nella stanzetta, accingendosi ad andare a letto, lui si sveste e resta in mutande come prima sul monte, poi si avvoltola veloce nel sacco a pelo. Quella sera fa molto freddo. Reiner ci mette parecchio a prepararsi, a piegare camicia e calzini e a metterli nello zaino. Poi si toglie i pantaloni. Se li toglie con una certa cerimonia, stando al centro della stanza, e li piega. Poi in mutande, che non sono nere, viene verso l’altro letto, quello in cui sono sdraiato io, e si siede sul bordo. Ne vuoi un morso, chiede porgendomi una mela, l’ho trovata nello zaino. I due si passano la mela, mordono e masticano con aria solenne l’uno puntellato su un gomito, l’altro seduto con le ginocchia tirate su, e basterebbe un minuscolo movimento di uno dei due, una mano tesa, o il lembo alzato del sacco a pelo, vuoi infilarti anche tu, ma nessuno dei due fa la mossa, l’uno ha troppa paura e l’altro troppo orgoglio, poi la mela finisce, il momento passa, Reiner si alza strofinandosi le spalle, fa freddo qui dentro, e torna al suo letto.

La luce è ancora accesa. Un attimo dopo lui si alza per andare a spegnerla. Poi torna indietro nella stanza buia e va a sedersi accanto a Reiner. Non ha una mela da offrire e tutti e due aspettano in silenzio, respirando, il gesto che nessuno dei due farà, alla fine lui si alza e torna al proprio letto. Si accorge che sta tremando.

La mattina dopo sono di nuovo formali e corretti l’uno con l’altro. Fanno i bagagli. Lo vuoi il mio indirizzo, chiede Reiner, magari un giorno verrai in Germania. Lo scrive di persona sul quadernetto, i caratteri fitti della sua grafia sono vergati con precisione, poi chiede mi daresti il tuo. Io un indirizzo non ce l’ho, non ho una casa, ma ti lascio il recapito di un’amica. Ed è questo che gli scrive, dopo di che lo scambio è completo. Si avviano insieme a piedi sul corso ed escono dal paese andando giù per la lunga discesa che arriva alla stazione. I loro treni partono l’uno a pochi minuti dall’altro, per direzioni diverse. La stazione consiste di una sala e una banchina di cemento ai bordi della pianura verde e sconfinata, loro sono gli unici passeggeri in attesa, dietro il vetro sudicio dello sportello c’è un solo impiegato che gli vende i biglietti e poi esce fuori di persona a suonare il fischietto quando compare il primo treno. Il sudafricano sale e si affaccia al finestrino. Ciao, dice, mi ha fatto piacere conoscerti.

Anche a me.

Senti.

Dimmi.

Perché ti vesti sempre di nero.

Il tedesco sorride. Perché mi piace, risponde.

Il treno comincia a muoversi.

Ti rivedrò, dice Reiner alzando una mano, e poco dopo già sparisce in lontananza, mentre il paesaggio solido diventa liquido sotto la pioggia a dirotto.

Va a Sparta, va a Pilos. Pochi giorni dopo la partenza da Micene sta attraversando una piazza di una cittadina quando sul televisore di un bar vede immagini di bombardamenti e incendi. Si avvicina. Che è successo, chiede a qualcuno di quelli seduti a guardare. Uno che parla inglese gli dice che è la guerra nel Golfo. Tutti se l’aspettavano da un pezzo e adesso è scoppiata, è scoppiata in due luoghi, a un altro capo del pianeta e nello stesso tempo alla televisione.

Lui guarda, ma ciò che vede non gli sembra reale. Il troppo viaggiare e il fatto di non avere un posto suo lo hanno messo al di fuori di tutto, sicché la storia accade altrove, non ha niente a che fare con lui. Lui è soltanto di passaggio. Forse è più facile provare orrore da casa. Questa è sia una pena che una salvezza, perché così non ha oneri morali astratti da sopportare, ma quest’assenza si rispecchia per lui nella successione di stanze anonime punteggiate di uova di mosca in cui dorme una notte dopo l’altra, stanze sempre diverse che in qualche modo sono sempre la stessa.

La verità è che lui non è un viaggiatore per natura, la condizione del viaggiatore gli è stata imposta dalle circostanze. Mentre viaggia, trascorre la maggior parte del tempo in un acuto stato d’ansia che rende tutto più vivido e intenso. La vita si trasforma in una serie di particolari minimi e minacciosi, lui non sente alcun legame con ciò che lo circonda, ha una paura costante di morire. Di conseguenza non è praticamente mai felice nel luogo in cui si trova, dentro di lui qualcosa sta già andando avanti verso il luogo successivo, mentre lui non va mai verso niente e al contrario si allontana sempre, sempre. È un difetto della sua natura che il viaggiare ha trasformato in malattia. Vent’anni prima, per motivi diversi, era capitata una cosa analoga a suo nonno. Sedentario e radicato per la maggior parte della sua lunga vita, alla morte della moglie il vecchio sentì spezzarsi dentro di sé qualcosa in maniera irrevocabile e si mise in viaggio. Girò tutto il mondo, fino ai posti più lontani e improbabili, spinto non da curiosità o meraviglia, ma dal dolore. Nella cassetta delle lettere di casa sua arrivavano cartoline e lettere con francobolli e timbri singolari. Ogni tanto il nonno telefonava e la sua voce sembrava risalire dal fondo del mare, roca dal desiderio di tornare. Però non tornava.

Solo molto tempo dopo, quand’era ormai molto vecchio e stanco, finalmente rientrò per sempre e andò a vivere gli ultimi anni in un appartamento nel giardino dietro casa loro. A mezzogiorno girovagava in pigiama fra le aiuole, con i capelli spettinati e sporchi. Non ci stava più tanto con la testa. Non ricordava più dov’era stato. Tutte le immagini, le impressioni, i paesi e i continenti che aveva visitato si erano cancellati. Quello che non ricordi non è mai successo. Per quanto lo riguardava, non aveva mai varcato i confini del giardino. Dopo essere stato irascibile e cattivo quasi tutta la vita, adesso il più delle volte era docile, benché ancora capace di accessi di collera irrazionale. Ma che dici, mi strillò una volta, io in Perù non ci sono mai stato, non ne so niente, non dirmi cretinate sul Perù.

Riparte dalla Grecia due settimane dopo. Si sposta da un paese all’altro per un anno e mezzo e poi torna in Sudafrica. Nessuno sa che è arrivato. Dall’aeroporto prende il pullman, viaggia con lo zaino sulle ginocchia guardando dai finestrini coi vetri oscurati la città in cui è tornato a vivere, e non c’è modo di dire come si sente.

Mentre era in viaggio è cambiato tutto. Il governo dei bianchi ha capitolato, il potere è caduto e ha mutato forma. Ma al livello in cui viene vissuta la vita non sembra che ci sia niente di molto diverso. Scende alla stazione e nel viavai di gente cerca di pensare: adesso sono a casa, sono tornato a casa. Però si sente come se fosse solo di passaggio.

Prende un taxi e va da un’amica che durante la sua assenza si è sposata. L’amica è contenta di vederlo, ma lui già dal primo abbraccio avverte fino a che punto sia diventato un estraneo. Per lei e per se stesso. Non è mai stato in quella casa e gironzola guardando mobili, decorazioni e quadri che gli sembrano di una pesantezza insopportabile. Poi esce in giardino e si mette al sole.

L’amica viene a cercarlo. Eccoti, dice, che combinazione che sei arrivato proprio oggi, nella cassetta della posta stamattina c’era questa per te. Gli dà una lettera che potrebbe essere caduta dal cielo. È di Reiner.

Cominciano a scriversi. Le lettere vanno e vengono ogni due o tre settimane. Il tedesco è asciutto e concreto, parla di fatti della sua vita dal di fuori. È tornato a Berlino. Non si è sposato. Si era messo a studiare all’università, ma ha cambiato idea e ha lasciato. Poi è andato in Canada, da dove adesso arrivano le sue lettere, partecipa a un progetto di forestazione in un posto imprecisato, pianta alberi.

Lui prova a immaginarselo, a immaginare la figura austera vestita di nero dai lunghi capelli setosi che mette a dimora arboscelli e ricompatta il terreno. Non lo ricorda molto bene, non com’è fatto, però conserva la sensazione che Reiner gli ha suscitato, un misto di disagio e di eccitazione. Ma non oserebbe mai esprimerlo, avverte nell’altro una riluttanza a parlare apertamente di sentimenti, in qualche modo parlare così è una debolezza. Per quanto Reiner sembri esplicito sui fatti, tuttavia, nei racconti che lo riguardano mancano ancora parecchi particolari: con chi ha vissuto a Berlino, chi gli dà i soldi per viaggiare dovunque, come mai è andato in Canada a piantare alberi. In un modo o nell’altro, anche quando viene interpellato direttamente in proposito Reiner riesce a non rispondere.

Lui, dal canto suo, non ha mai trattenuto i sentimenti, anzi, semmai gli dà sfogo con troppa libertà, almeno nelle lettere. Perché le parole sono staccate dal mondo. Per questo è facile scrivere a Reiner di quanto sia duro per lui il ritorno. A quanto pare non riesce a trovare una sistemazione da nessuna parte. Per un po’ resta a casa dell’amica e di suo marito, ma è un’intrusione, un’imposizione, sa che deve spostarsi altrove. Prende una camera in una casa insieme a uno studente, ma lì sta malissimo, la casa è sporca e piena di pulci, lui non si ambienta, dopo un paio di mesi si sposta di nuovo. Bada alle abitazioni di altri quando questi sono fuori, si accampa in qualche stanza per ospiti. Poi trasloca in un appartamento di proprietà di una sua ex padrona di casa che occupa le tre stanze adiacenti e il piano di sotto. Ma è un errore. La signora si presenta da lui a tutte le ore seguita a ruota dal suo barboncino abbaiante, sta attraversando un brutto periodo, ha bisogno di parlare, lui cerca di darle retta ma è già parecchio infelice per conto suo. Vorrebbe stare da solo ma quella donna non lo lascia in pace, e il cane gli sparge pelo e isteria su tutto il pavimento. A un certo punto scrive a Reiner: mi piacerebbe che venissi qui e mi portassi da qualche parte a fare un lungo giro a piedi. Arriva una lettera di risposta: grazie dell’invito, vengo a dicembre.

Non venire a prendermi all’aeroporto, gli dice Reiner, non c’è bisogno, ti trovo io. Ma lui telefona alle compagnie aeree per scoprire quale sia il volo, si fa prestare una macchina da amici ed è nella sala degli arrivi con un’ora d’anticipo. Prova ansia e attesa. Sono passati due anni da quando si sono visti, non sa come andranno le cose.

Quando esce dalla porta Reiner non si aspetta di trovare nessuno e quindi non si guarda intorno. Rimango a distanza per osservarlo. D’aspetto è sempre lo stesso. I capelli castani e lucenti gli ricadono sulle spalle, è vestito di nero dalla testa ai piedi, porta in spalla lo stesso zaino nero. Con aria severa va subito verso una fila di sedili di plastica per rimettere in ordine il bagaglio.

Continuo a guardarlo per qualche momento, poi tentando di avere un’aria disinvolta mi avvio senza fretta e mi fermo accanto a lui.

Ciao.

Reiner alza lo sguardo. Il volto scuro si illumina un istante, poi si richiude. Perché sei qui. Ti avevo detto che non dovevi.

Lo so. Ma volevo venire.

Allora.

Ciao.

Non sono sicuri di come salutarsi. Lui apre le braccia e l’altro accetta l’abbraccio. Ma non del tutto.

Pensavi che non avrei trovato la strada.

Volevo solo darti il benvenuto, tutto qui. Ti aiuto a portare qualcosa.

Ho solo lo zaino. Preferisco tenerlo io.

Vanno in macchina a casa sua. Mentre salgono le scale la padrona di casa, con cui non parla più, controlla dalla porta socchiusa. L’appartamento in cui abita è quasi spoglio e vuoto, le poche cose che possiede sono chiuse negli scatoloni, se ne andrà via da lì alla fine del mese. Si siedono fuori in balcone, a guardare gli alberi verdi di sotto, la distesa di Cape Flats che si allarga fino alle montagne. Per la prima volta lui resta in silenzio.

Insomma, dice Reiner.

Sì.

Eccomi qui.

È strano.

Si guardano, sorridono entrambi. Finora l’arrivo di Reiner è stato un fatto irreale, lui non credeva fino in fondo che sarebbe successo, ma adesso sono di nuovo entrambi nello stesso posto. Sono seduti in balcone, chiacchierano. All’inizio prevalgono il nervosismo e l’imbarazzo, le parole non vengono facilmente e quando vengono sono cariche di tensione. Ma dopo qualche istante, appena la conversazione comincia a scorrere, si rilassano un po’ e si rendono conto con sollievo che stanno bene insieme, che hanno in comune un umorismo legato al distacco dalle cose. Questo li aiuta a riscoprire una simpatia reciproca, anche se per ora questa simpatia non si fonda su niente di concreto, solo un vago senso di affinità. È quasi sufficiente.

Nel suo appartamento c’è un solo letto, che devono dividere. Ma quella sera, quando arriva l’ora di dormire, Reiner dice che non gli serve un materasso.

In che senso.

Segue con lo sguardo Reiner che esce sul balcone e comincia a disfare lo zaino. La gente ha bisogno di troppe cose, spiega Reiner tirando fuori un sacco a pelo e un materassino sottile. La gente vuole stare comoda, ma non è necessario. Srotola il materassino sul balcone e ci stende sopra il sacco a pelo. Basta questo. Io preferisco così. Si toglie le scarpe, s’infila nel sacco a pelo e tira su la lampo. Sdraiato lì, guarda il compagno nel buio. Impossibile vedere l’espressione del suo viso. Perfetto, dice.

Ora che Reiner è arrivato, lui prende l’atlante e insieme lo studiano ansiosamente. Cercano un paese pieno di spazi aperti, con poche città. Nei momenti passati a parlare del viaggio si sono messi d’accordo sul tipo di condizioni ideali per entrambi. Nessuno dei due vuole folle di gente, strade trafficate o aree edificate. Perciò ci sarebbe il Botswana. Ci sarebbe la Namibia. Ci sarebbe lo Zimbabwe.

E questo posto qui che cos’è.

È il Lesotho.

Che cosa sai di questo posto.

Lui non ne sa molto, non c’è mai stato né ci sono stati i suoi amici. Sa che è molto montuoso e molto povero e completamente circondato dal Sudafrica, ma a parte ciò il paese per lui è un mistero. Restano tutti e due seduti a guardarlo.

Forse dovremmo andare lì. 

Forse sì.

Magari non avranno detto proprio queste parole, ma la decisione nasce così, leggera e sconsiderata. Un attimo prima non sanno dove vogliono andare e un attimo dopo sono in partenza per il Lesotho.

L’indomani si recano in un ufficio statale in centro dove gli viene data una carta che riporta in maniera chiara tutte le strade, gli insediamenti e le altitudini. A me sembra l’ideale, Reiner invece la studia con aria dubbiosa.

Che c’è.

Secondo te non sarebbe meglio procurarsi delle carte più grandi? Con più particolari. Quattro o cinque, che coprano tutto il paese.

Ma perché.

Così possiamo organizzare ogni tappa del giro.

Ma possiamo organizzarci anche con questa carta qui.

Questa non basta.

Si guardano, è la prima volta che non sono in sintonia. Ma l’impiegato dice che comunque lui non ha altre carte più particolareggiate, meglio di così non può fare. Va benissimo, dico io, la prendiamo. Più tardi, però, Reiner dice quando arriviamo nel Lesotho bisogna cercare.

Cercare che cosa.

Altre carte più dettagliate.

Sono contraddizioni che lasciano interdetti, quest’uomo reputa superfluo un letto decente ma una carta stradale assolutamente valida non gli basta. Il giorno dopo Reiner esce e va a informarsi sul Lesotho nella biblioteca del quartiere. La notizia è un sollievo, almeno sapremo qualcosa del posto in cui vogliamo andare, ma quando poi rientra viene fuori che sulla storia del paese non ha scoperto niente di niente. Invece ha fatto ricerche sul clima, sul terreno e sulla topografia, tutta roba codificata in cifre.

I numeri per Reiner sono una forma di sicurezza. Quando la sera gli si offre del caffè risponde no, oggi ne ho già presi due, non prendo più di due caffè ogni dodici ore. Quando vanno a fare una passeggiata in un posto qualsiasi Reiner vuole sapere quanti chilometri sono. Se lui non lo sa, o se non lo sa con esattezza, Reiner fa una faccia contrariata.

Perciò fin dai primi giorni mi accorgo di certe differenze esistenti fra loro. Ma non c’è tempo per preoccuparsene. Mancano due settimane alla partenza e lui ha parecchio da fare, deve saldare tutti i conti e mettere in un deposito tutte le sue cose. Si sente assillato e sotto pressione e in queste condizioni preferirebbe stare da solo. Ma da solo non sta quasi mai. Anche quando esce di casa per una banalissima commissione Reiner lo accompagna sempre. La sua presenza costante lo logora, Reiner gli sembra una specie di cupo angelo custode, meditabondo e ironico, dal viso quasi stizzoso. E a sua volta Reiner pare irritato da tutti quei compiti e doveri, ai suoi occhi le esigenze di una vita normale sono cose indegne. 

Perché devi fare tutte queste cose stupide.

Ci sono costretto. Vanno fatte.

Ma perché, dice Reiner con una smorfia.

Chi sia a occuparsi delle più banali necessità vitali di Reiner a casa sua è un mistero. A pensarci bene lui non sa nulla di Reiner, ma anche se chiede non cava un ragno dal buco. Viene a sapere che i suoi sono molto religiosi, ma a parte ciò ignora chi siano o da che ambiente provenga Reiner. Nonostante il proprio interesse sincero, avverte che dall’altra parte c’è una profonda riluttanza a rispondere.

Una volta gli domanda: tu come fai per i soldi.

Come faccio, in che senso.

Come te li guadagni. Da dove ti arrivano.

I soldi arrivano e basta. Tu non dovresti preoccuparti.

Ma per guadagnare una persona deve lavorare.

In Canada mi hanno pagato. Per piantare gli alberi.

E prima.

Io sono un filosofo, dice Reiner, e il discorso si ferma lì, quell’idea lo mette a tacere. Un filosofo, ma che significa. Possibile che i filosofi siano esentati dal lavorare. E chissà chi li mantiene. Che cosa fanno di preciso. Evidentemente i filosofi non hanno tempo per le normali incombenze della vita e forse è per questo che Reiner è irritato da tutti quei giri.

Che cosa preferiresti fare.

Camminare.

Ma noi camminiamo.

Non abbastanza. Dovremmo allenarci per il viaggio. Bisogna che seguiamo un programma, si vede che non sei in forma.

Una volta per volontà di Reiner fanno una lunga escursione. Ci serve qualcosa di impegnativo, dice Reiner. Per prepararci. Vanno in autobus fino a Kloof Nek e da lì prendono il Pipe Track, superano Camps Bay e arrivano quasi fino a Llandudno dove il paesaggio con le sue pietre grigie e il mare turchese somiglia molto alla Grecia, il passato echeggia in anelli concentrici attraverso il tempo, loro salgono in cima alla montagna, scendono giù dall’altro versante a Constantia Nek e da qui attraversano tutto il bosco fino a tornare a Rondebosch, sei o sette ore di cammino, hanno le vesciche ai piedi e la testa che gira per la fame. Mi sento svenire, dice lui, devo mangiare. Mi sento svenire anch’io, dice Reiner, è una sensazione interessante, non voglio mangiare.

E questa è un’altra differenza che li distingue, ciò che per l’uno è sofferenza per l’altro è interessante. Anche il sudafricano ama camminare, ma non continuamente e in maniera ossessiva, anche lui è attirato dagli estremi, ma non quando la situazione minaccia di diventare pericolosa, lui è incapace di esaminare la propria sofferenza come una spora su un vetrino e di trovarla interessante, interessante. Se reputi interessante la tua sofferenza, chissà quanto sarai distante dalla sofferenza altrui, ed è vero che in Reiner c’è qualcosa che guarda alle debolezze umane con distacco, forse addirittura con disdegno. Da cosa sia nata questa sua freddezza non so.

Reiner vuole che ci prepariamo per questo viaggio senza distrazioni, vorrebbe eliminare tutte le quisquilie che non c’entrano, le parole che ha usato quella sera sul balcone esprimono una verità che per lui è fondamentale: la gente ha bisogno di troppe cose e non è necessario. Reiner studia per ore la carta del Lesotho, ci ha segnato sopra con la penna rossa una serie di percorsi possibili. Io guardo con paura quelle linee sottili, sembrano vene che attraversano uno strano organo interno, a tratti pare che quel paese per Reiner sia solo un concetto, un’idea astratta che si può sottomettere al proprio volere. Ne parla in termini di distanze e altitudini, di dimensioni spaziali che si possono sintetizzare in formule, non fa menzione della gente o della storia, contano solo lui e il luogo vuoto in cui si sta proiettando. Com’è la situazione politica, dico io, non abbiamo considerato la realtà umana, non sappiamo in che cosa ci stiamo infilando. Reiner lo fissa sconcertato, poi agita una mano sprezzante. Neanche qui in Sudafrica, dove non è mai stato, si interessa a ciò che gli succede intorno, quando scende in strada a fare le sue lunghe passeggiate si ficca dei tappi nelle orecchie, non accetta l’intrusione di rumori esterni, il suo sguardo cupo e intenso punta diritto davanti a sé ma in realtà è rivolto verso l’interno.

In questa fase, però, ci sono solo vaghi segni di disagio. Lui è euforico all’idea del viaggio. Una volta lasciata la città, quando saranno soli e insieme sulla strada, quel piccolissimo attrito fra loro sparirà, ne è certo. Nessuno dei due è nato per fare una vita sedentaria.

Da un amico si fa prestare una tenda. Reiner insiste per montarla nel giardino davanti all’appartamento. Ci mettono un bel po’, paletti e picchetti sono come un alfabeto nuovo e sconosciuto che devono imparare. Bisogna comprare o farsi prestare tutto, fornello bombolette filtro dell’acqua torcia coltelli forchette piatti di plastica una piccola farmacia da viaggio, lui non ha mai viaggiato in questo modo, la stranezza dell’insieme lo spaventa ma nello stesso tempo lo elettrizza, il pensiero di disfarsi della vita normale gli fa assaporare la libertà, così com’era quando si sono conosciuti in Grecia. E forse è questa la vera ragione del viaggio, liberandosi di tutta la zavorra della vita familiare tentano entrambi di ricatturare una sensazione di leggerezza che ricordano ma che forse non hanno mai vissuto, nella memoria più che in qualunque altro luogo viaggiare è come un lancio in caduta libera, o un volo.

A un certo punto in quelle due ultime settimane sorge la questione dei soldi. Ci sono alcune questioni pratiche da prendere in considerazione, ad esempio in che modo si manterranno strada facendo. Reiner dice che ha dei dollari canadesi che vuole finire perciò è meglio se dei soldi si occupa lui. Ma io che faccio, dico.

Me li restituisci dopo.

Per cui dovrei annotare quello che spendo.

Reiner fa segno di sì e alza le spalle, i soldi sono una quisquilia, non sono importanti.

Ormai è tutto pronto. Lui saluta la gente e scopre di farlo con una punta di inquietudine, come se potesse non tornare. In fondo a ogni partenza, minuscola come un semino nero, c’è sempre la paura della morte.

Prendono un treno per il centro città. Alla stazione salgono su un pullman e viaggiano di notte. Si dorme con difficoltà, loro continuano a svegliarsi di soprassalto e fuori c’è sempre il paesaggio grigio metallico che scorre via. Arrivano a Bloemfontein alle prime luci di una domenica e camminano per le strade deserte finché non trovano una stazione di taxi da cui si può prendere un minibus fino al confine con il Lesotho. Sono costretti ad aspettare ore finché il minibus non si riempie. Reiner si mette seduto sul sedile posteriore, con lo zaino sulle ginocchia e la testa appoggiata allo zaino, i tappi infilati nelle orecchie.

Io gironzolo e poi torno, poi ricomincio a gironzolare. Viaggiare consiste spesso di pure e semplici attese, con tutta la noia e la depressione che le accompagna. Gli tornano in mente ricordi di altri luoghi in cui ha aspettato, sale partenze di aeroporti, stazioni di pullman, marciapiedi solitari nella canicola, e in tutti i ricordi c’è un’identica vena di malinconia che si riassume in alcuni particolari effimeri. Un sacchetto di carta che vola via spinto dal vento. L’impronta di una scarpa sudicia su una mattonella. Lo sfrigolio irregolare di una lampada al neon. Di questo posto conserverà in particolare l’immagine di un muro di mattoni crepato che sotto il sole diventa sempre più rovente.

Partono che è già pomeriggio. Il tragitto non è lungo, poco più di un’ora, e attraversa una campagna piatta di terreni coltivati, strade sterrate che si allontanano da una parte e dall’altra. Nel veicolo affollato i due sono oggetto di una muta curiosità. Reiner è palesemente contrariato da questa prossimità forzata con la gente, ha l’aria di uno che stia trattenendo il respiro.

Al confine vanno a mettersi in fila in attesa di superare la dogana, le divise e gli occhiali neri e le barriere e le stanze scolorite, elementi tipici di tutti gli attraversamenti di frontiera. Passano al di là di un lungo ponte su un fiume e vengono ammessi dall’altra parte di nuovo con un timbro. Ora hanno varcato una linea su una carta geografica e si trovano all’interno di un altro paese in cui il destino ha potenzialità diverse da quelle che si sono lasciati alle spalle.

Dove vadano e che cosa facciano da qui non si sa, lui si era fatto l’idea che si sarebbero semplicemente messi in cammino sulla strada che si allungava davanti a loro, ma quella che hanno di fronte è una città di confine che si è estesa in maniera incontrollata, con alberghi e casinò su entrambi i lati di una via molto trafficata e sudicia, una folla brulicante che si muove pigramente sui marciapiedi, e l’ora è già tarda. Si consultano e decidono di prendere una stanza per la notte. L’indomani diranno definitivamente addio alle stanze. Gli alberghi sono mediocri, l’uno vale l’altro, così scelgono il primo a sinistra e gli viene data una camera a un piano alto che affaccia sulla strada.

Per ingannare il tempo girano per la città, Maseru. Camminano su e giù per la via principale, guardano i negozi, vanno in un supermercato e comprano da mangiare. Fra di loro c’è un’eccitazione fatta anche di paura, si sono impegnati in una situazione dall’esito ignoto, i viaggi hanno questo in comune con l’amore. Lui non ama Reiner ma la loro amicizia ha comun­que in sé le sembianze di un’oscura passione.

Quando tornano all’albergo fanno un giro anche lì. Scendono le scale sul retro e vanno nel giardino. In un angolo c’è un casotto di legno. Un cartello sulla porta dice sauna. All’interno c’è una donna sulla cinquantina, il suo sguardo ha qualcosa di estenuato e finito, quando li vede la sua contentezza è febbrile. Entrate, entrate, fate una sauna. La sauna è tiepida e senza vapore, le pareti sono semplicemente quelle di legno del casotto. No, no, davamo solo un’occhiata, magari dopo. No, venite adesso, fatevi fare un massaggio, vi faccio un bel massaggio. La donna ci sta addirittura trattenendo per le braccia.

Quando usciamo lui dice a Reiner: quella donna si stava vendendo.

Reiner non dice nulla, ma nondimeno nella sua espressione c’è qualcosa che è una risposta. Durante tutta la cena nella sala da pranzo e una volta tornato su in camera è taciturno e meditabondo. È ancora presto, ma il resto della serata si allunga senza uno scopo.

Io mi sa che esco, dice a un certo punto.

Per andare dove.

Magari mi faccio una sauna.

Reiner esce e io resto a lungo davanti alla finestra a pensare. Le luci della città si sparpagliano in tutte le direzioni, ma le accerchia un buio fitto. Lui aspetta il ritorno di Reiner, ma Reiner non arriva, e continua a non arrivare, e alla fine lui se ne va a letto.

Si risveglia che è mattina e Reiner è sull’altro materasso, sopra ha solo il copriletto. Il drappo è scivolato giù e Reiner, sotto, non indossa niente. Il tedesco è sempre discreto e meticoloso riguardo al coprirsi e quest’abbandono incurante sembra annunciare qualcosa. La lunga schiena abbronzata si assottiglia fino al punto in cui le natiche si dividono e la pelle più chiara fa spiccare la peluria e l’ombra, Reiner si volta, per un brevissimo istante appare un’erezione, poi la sua mano dormiente tira su il copriletto e io mi alzo in un tumulto di struggimento e repulsione, possibile che ieri sera l’abbia fatto sul serio.

Sì, dice lui.

Sei tornato da quella tizia e ci sei andato a letto.

Sì. Reiner sta sorridendo di nuovo, con un sorriso altezzoso a fior di labbra, questo succede più tardi, mentre è seduto sul bordo del letto con un asciugamano intorno alla vita. Una parte di Reiner è perennemente in bilico su un dirupo e guarda dall’alto la confusione morale della pianura. Quando ero in Canada ho cominciato ad andare a puttane.

Perché.

Sono molto teso. Il sesso mi aiuta a scaricare la tensione.

Non è una risposta alla domanda ma lui non chiede altro, è chiaro che è rimasto turbato e in un modo o nell’altro questo lo ha indebolito, così annuisce e cambia discorso anche se dentro di sé non riesce ad abbandonare il volto segnato ed esausto della donna nella sauna, il modo in cui ci aveva trattenuti per le braccia.

Si vestono, fanno i bagagli e vanno. Solo adesso stanno partendo sul serio, tutto il resto sono stati preparativi. Con gli zaini in spalla si avviano, altezza e aspetto degli edifici circostanti mutano, ma la città non finisce mai. Sono diretti verso un’alta catena di monti alla periferia orientale, le ore passano ma a quanto pare manca ancora molto e comincia a prospettarsi la possibilità che trascorrano lì anche la seconda notte.

Poi però raggiungono la lunga strada sterrata che si inerpica sulla dorsale, a poco a poco i tetti di lamiera e i giardini si diradano e alla fine eccoli sulla salita finale con rocce scure e sterpaglia su entrambi i lati. Arrivati in cima si fermano per dare un ultimo sguardo al calderone ribollente e miasmatico dal quale sono venuti, poi proseguono. Al di là della prima dorsale ce n’è una seconda e ora si trovano in un luogo diverso.

Le montagne continuano a perdita d’occhio, il mondo degli angoli retti e delle linee rigide è stato inglobato da un altro mondo di ondulazioni e avvallamenti, grafici che mappano gli umori in striature di colore, dove i bruni si infittiscono in sfumature di blu che quasi si confondono col cielo. È il tardo pomeriggio. Ma fa molto caldo. Nell’aria fumante compaiono e scompaiono oggetti sul ciglio della strada: un albero, un aratro rotto. All’inizio il paesaggio è vuoto, non lavorato e incolto, ma al di là dell’altura successiva, o di quella dopo ancora, ci sono campi, forse minuscole figure umane che sgobbano, una capanna o una casa in lontananza. Si fermano a riposare in un posto ombreggiato, a lui sembra incredibile che siano qui, forse sembra incredibile a tutti e due, la frase scritta alla leggera in una lettera di mesi fa si è avverata.

Riprendono a camminare e tutto il movimento latente nelle vaste curve della terra si contrae in qualche modo nelle dinamiche di questo movimento, una gamba che si allunga dopo l’altra, i piedi piantati a terra e sradicati a turno, l’intera superficie del mondo è stata calpestata in questa stessa maniera nel corso del tempo. Lo zaino pesa, la cintura gli sega fianchi e spalle, le dita dei piedi e i calcagni sfregano contro gli scarponi, la bocca è secca, tutti i pensieri che vagano liberi e slegati nella sua testa si addensano intorno alla volontà e all’impulso di andare avanti. Da solo non lo farebbe. Da solo si metterebbe seduto e non si sposterebbe più, oppure non sarebbe affatto lì, e invece c’è, e questo di per sé lo fa arrendere all’altro, che lo trascina al proprio seguito come tirando sottili fili di potere.

Non parlano. Sì, fanno conversazione ogni tanto, ma riguardo a cose pratiche, dove dormiamo, dobbiamo riposarci. Altrimenti camminano, talvolta fianco a fianco, talvolta distanti, ma sempre soli. È strano che tutto questo spazio che dilaga verso l’orizzonte, non costretto entro limiti artificiali, debba rispedirti completamente dentro te stesso, ma così è, non so a quando risale l’ultima volta che sono stato concentrato così intensamente in un singolo punto, e ora cammino su quella strada di polvere col viso ripulito da tutte le solite emozioni, dalle sollecitazioni e dagli sforzi per stare collegato col mondo. Magari è la meditazione profonda a farti sentire così. E forse è proprio questo che intende Reiner quando quella sera dice che camminare ha un ritmo che ti prende.

In che senso.

Nel senso che se continui a camminare, a un certo punto il ritmo prende il sopravvento.

Nel modo in cui Reiner si esprime c’è una vaghezza che ispira la voglia di abbandonare lì il discorso e questo capita spesso con lui, ti sottopone un pensiero interessante o profondo che magari non è suo e tu avverti che dall’altra parte c’è un vuoto che non riesce a colmare, che non ci sono altri pensieri a seguire il primo. Reiner aspetta in silenzio che sia tu a parlare. A volte va a finire così, ma non stasera, sono troppo stanco. Lui e Reiner sono seduti fianco a fianco in una piccola grotta, una sporgenza della roccia.

È quasi buio. Da quando hanno lasciato la città sono passate ore e ore, lui avrebbe preferito fermarsi molto prima ma Reiner voleva andare avanti, solo dopo il tramonto ha ammesso finalmente che era ora di montare la tenda, salvo che adesso non si vede neanche un posto ospitale, ci sono campi da un lato e una catena di monti brulli dall’altra, è un punto troppo esposto, non sembra quello giusto, forza, arriviamo solo oltre il crinale e diamo un’occhiata. E lì per caso trovano la grotta, Reiner ha l’aria olimpica e trionfante di chi l’aveva sempre saputo e la sua espressione sottintende che è in sintonia con i ritmi dell’universo, che i ritmi del camminare non sono diversi da quelli del vivere, se ti spingi coraggiosamente agli estremi avrai tutto.

Visto?, non c’è nemmeno bisogno di montare la tenda. Io sono meno entusiasta: davvero vogliamo dormire qui all’addiaccio come due barboni? Ma lui è viziato e rammollito, gli manca il fatalismo di quell’uomo duro che è il suo compagno di viaggio, e intorno alla caverna i pastori hanno lasciato vari mucchietti di cacca. Via via che il buio s’infittisce e il mondo si contrae riducendosi alle dimensioni della piccola sporgenza rocciosa, stare qui, nel cerchio del fuoco che hanno fatto con le loro mani, diventa più piacevole, però.

Davanti alla grotta la terra sprofonda e si dilegua in una vallata estesa, alla luce l’immensità di questo spazio incuteva paura ma adesso è diventata consolante, molto più in basso si scorgono i minuscoli fuochi isolati dei pastori, il suono lontano dei campanacci sale in echi tremolanti, una volta scaldata l’acqua e mangiato scende un senso di benessere, gli strappi e le fratture del mondo sono stati tutti ricuciti e sanati, si prospettano ore di sonno.

Lui stende il sacco a pelo e si sdraia su un fianco, guardando fisso nel buio. Un attimo dopo arriva Reiner, che si accuccia dietro di lui. Non dicono niente, il silenzio si addensa trasformandosi in tensione, poi Reiner dice: in una delle tue lettere.

Sì.

Hai detto che non vedevi l’ora di rivedermi.

Sì.

Che cosa volevi dire.

Lui non sa che cosa voleva dire, ma sa che cosa vuol dire Reiner adesso. Non può farci niente, sulla strada la sua mente ha continuato tutto il giorno a evocare immagini che non desidera, gli torna davanti agli occhi la donna dell’altra sera, colma fino all’orlo di una disperazione febbrile, vede Reiner sopra di lei che la fa piegare in pose plastiche con le sue mani scure. Quello che Reiner vuole adesso non sarebbe diverso da quello che ha voluto con la donna, un rituale compiuto senza tenerezza né calore né piacere dei sensi.

Ma la verità è che in lui c’è anche un rispondente impulso di arrendevolezza, una parte vorrebbe cedere, sul soffitto della caverna vedo ombre avvinghiate in contorti corpo a corpo.

Non so che cosa volevo dire.

Non sai che cosa volevi dire.

Non vedevo l’ora di rivederti.

E basta.

Non mi viene in mente altro.

Reiner annuisce adagio. Nessuno dei due è la persona che è stato finora per consenso di entrambi, da stasera le regole saranno diverse. Lui sente nel naso il sudore fumoso dell’altro, o forse è il suo, non è un cattivo odore, ma a quel punto Reiner si alza e va a sistemarsi in fondo alla grotta. Non si parlano più. Il fuoco pian piano si smorza, le ombre sfumano, nell’aria si prolunga il suono dei campanacci.

Ripartono prima che faccia giorno, la strada è ancora azzurra e indistinta. I punti dolenti di ieri bruciano con rinnovata intensità, ma dopo una mezz’ora di cammino il dolore si è diffuso ed è generale. Gli fa piacevolmente male dappertutto. Spunta il sole e le montagne emergono dovunque dal buio.

Camminano seguendo un grande cerchio che si richiuderà in un punto vicino alla città, da qui inizieranno un secondo cerchio più grande che finirà quasi nello stesso punto e da qui ne inizieranno un terzo. In questo modo attraverseranno il paese in tre giri crescenti, l’ultimo dei quali li condurrà fra i monti più alti del Drakensberg, in una zona lontana a est. Per allora sperano di essere forti e in forma, più abituati ai disagi di un viaggio di questo tipo, anche se lui nutre qualche dubbio. È Reiner che ha organizzato il viaggio così, disegnandolo sulla sua carta con la penna colorata.

Si fermano in un negozietto di campagna a comprare da mangiare per quel giorno. Il locale è minuscolo e pieno di barattoli, scatole e pacchetti, pasta, dolciumi, verdure e sapone. I pacchi sono pesanti e sembrerebbe più sensato prendere cose leggere, magari qualche panino, un po’ di riso. Ma Reiner si aggira nella penombra del negozio scegliendo articoli pesanti e tira giù dagli scaffali barattoli, un sacco di patate, barrette di cioccolato.

Ma perché.

Perché mi va.

Cioccolato.

Il cioccolato mi piace. Ho letto in un articolo che un tizio ha vissuto per un anno a cioccolato e acqua.

Non è possibile.

Reiner lo guarda con una smorfia, certo che è possibile. Nei giorni seguenti staccherà dei pezzetti di cioccolato che mangerà con delicatezza, assaporandone un’essenza che riuscirà a nu­trirlo al di là delle leggi della biologia. Per Reiner le complessità e le contraddizioni del mondo sono un motivo di distrazione e la verità è sempre cruda e semplice, è una regola che va seguita rigorosamente se si vuole evitare ogni confusione, sopravvivere grazie al cioccolato e alla forza di volontà è senz’altro possibile, lui ne è convinto, e ogni volta che ne offre un po’ al suo compagno di viaggio ricompare sul suo viso quella piccola smorfia.

I soldi con cui comprano questi generi alimentari, e qualsiasi altra cosa, sono di Reiner. A Maseru, Reiner ha cambiato in rand una parte dei suoi dollari canadesi, tiene tutto in una borsetta che porta legata in vita e adesso vivono di questo denaro. Anche se prendo diligentemente nota di ogni cosa su un quadernetto e anche se ripagherò tutto fino all’ultimo centesimo al termine del viaggio, appare chiaro fin da ora, secondo giorno di questo giro, che sarà Reiner a decidere cosa possono o non possono comprare strada facendo.

Perciò prendono i barattoli, le patate e il cioccolato, se li dividono in maniera equa, ma quando si rimettono in marcia sembra un peso spropositato e lui si sente trattenere da un forte risentimento, cammina più lento di prima. A mezzogiorno il sole è di un caldo intenso, tutti e due grondano sudore. Nelle vicinanze ci sono alcuni brutti edifici moderni, un paesetto non meglio identificato, una vecchia chiesa in rovina. Secondo me dovremmo fermarci a riposare un po’, dice Reiner.

Oltre il crinale a destra c’è uno strapiombo e a metà si vede una grotta più grande di quella in cui hanno dormito la notte prima. Reiner vuole salire fin lì. Ma la strada per scendere è lunga. E allora? Allora poi dobbiamo risalire. E allora? C’è un altro silenzioso momento di conflitto, poi l’ironia sardonica negli occhi scuri dell’uno ha la meglio sulla riluttanza del più debole e cominciano a scendere fra massi e piante d’aloe mentre i sassi si sparpagliano sotto i loro piedi. Quando arrivano alla grotta, la veduta serena della valle si dispiega ai loro piedi e la sua rabbia si raffredda all’ombra della pietra. È bellissimo qui. Sì. Ciò che Reiner intende con quell’unica sillaba d’assenso è che ancora una volta ha ragione.

Si stendono sulla roccia. Lui si addormenta e al suo risveglio sono passate ore e sta per scoppiare un temporale. Il cielo è livido di nubi, cadono fulmini a zigzag, i tuoni fanno tremare la pietra. Quando arriva, la pioggia è quasi solida, una porta che lascia chiuso fuori il mondo. Si siedono sotto la volta di roccia, l’acqua scende a catinelle e dal suolo trapelano odori freschi. È come la sera prima, ora che si è riposato e ristorato, ora che il caldo non c’è più, anche la crudezza delle sue fortissime emozioni ne esce placata e adesso riesce quasi ad amare quello strano luogo in cui si trova, e il suo strano compagno di viaggio.

Secondo me, dice Reiner, dovremmo fare sempre così. Alzarci presto, camminare e fermarci a metà giornata. E poi ripartire.

Sì, dice lui.

In quest’istante è completamente d’accordo con Reiner, non sa come abbia fatto ad arrabbiarsi con lui, sullo sfondo del cielo temporalesco il suo volto solenne è bellissimo.

Quando il cielo schiarisce, la luce filtra e i due escono fuori in un mondo sciacquato, pulito e gocciolante di colore. Questi temporali pomeridiani ci sono quasi ogni giorno, il calore aumenta di intensità fino a scoppiare e dopo si avverte sempre un senso di rigenerazione, nel paesaggio ma anche fra di loro.

Il viaggio adesso è cominciato sul serio. Finché non hanno trascorso la prima notte all’aperto era ancora tutta un’idea folle che potevano abbandonare in qualunque momento, ma bene o male hanno superato un certo punto e sono passati da un mondo a un altro. In quello vecchio avevano la solita vita con le sue abitudini e gli amici, i suoi luoghi e le sue scelte, ma tutte queste cose adesso se le sono lasciate alle spalle. In questa nuova vita ognuno dei due ha soltanto l’altro e una selezione di oggetti che porta in spalla. Il resto, anche la gente con cui si fermano a parlare sul ciglio della strada, è tutto di passaggio.

In questa curiosa unione, in questo matrimonio strampalato, deve nascere una serie nuova di abitudini che li tengano vivi. Ci sono compiti da sbrigare, i più basilari, i più necessari, che in certi giorni possono brillare di un significato quasi religioso e in altri possono sembrare faccende noiosissime. Ad esempio, bisogna montare e smontare la tenda. Due o tre volte al giorno bisogna preparare da mangiare e dopo bisogna lavare piatti e pentole. All’inizio, nei primi giorni, si dividono questi lavori equamente. Si aiutano a disporre i pali e a infilarli nella tela floscia, vanno insieme a cercare delle pietre per piantare i picchetti nel terreno. Oppure contrattano: tu monti la tenda e io faccio da mangiare. Okay, e dopo ti aiuto a lavare i piatti. E anche se si guardano con diffidenza, e i brevi momenti di conflitto ricorrono più volte, nella gestione delle cose ci sono simmetria ed equilibrio e potrebbero andare avanti così per un po’.

In questi primi giorni parlano ancora molto, riescono a intavolare discorsi interessanti, scambiano idee e dissentono in maniera rispettosa. E se evitano di affrontare argomenti personali, se non discutono della loro vita più intima, è perché quella vita intima se la sono lasciata alle spalle. Al suo posto c’è adesso questa nuova intimità, l’intimità pratica che si è instaurata fra di loro per cui stanno distesi fianco a fianco o si urtano l’un l’altro al buio, e la mattina per prima cosa si guardano in faccia, e in un certo senso è proprio quest’intimità l’elemento trainante del loro viaggio.

La giornata si organizza intorno a piccoli riti di crisi e rinascita. Tutte le mattine si alzano prestissimo, prima che ci sia luce. Uno dei due accende il fuoco e fa bollire l’acqua per il caffè mentre l’altro smonta la tenda. Poi si mettono in marcia e cercano di percorrere una certa distanza prima che cominci a fare troppo caldo. Dopo un paio d’ore si fermano per fare colazione. Poi se c’è acqua lavano i piatti, altrimenti ripongono pentole e piatti sporchi per lavarli in seguito, e riprendono il cammino.

Verso metà mattina, quando fa ormai troppo caldo, trovano un posto in cui riposare qualche ora. In questo paese di vette e valli solcato da fiumi c’è spesso un posto ombreggiato vicino all’acqua da cui si gode una veduta di distanze azzurre, loro si abituano a dormire in questi ambienti rigogliosi e morbidi, le api ronzano, le ombre delle nuvole si muovono silenziose, l’erba ondeggia.

Poi il caldo crescente preannuncia un temporale. I contorni dei monti diventano di una lucentezza netta ed elettrica, nell’aria alta aumentano le nubi scure, alla fine comincia a soffiare un vento secco. Loro aspetteranno dove sono, magari rimonteranno addirittura la tenda finché il temporale non sarà passato, oppure si rifugeranno in una capanna o in una grotta. La paura più grande in questi momenti sono i fulmini. In uno stato d’agitazione in cui la morte è una presenza costante nell’animo, l’idea di essere fulminati dal cielo è di una plausibilità grottesca. Lui non ha mai visto un fuoco così sfolgorante, o udito tuoni così terrificanti.

Poi c’è l’ultima tappa della giornata, l’ultima scarica di ener­gia e d’impegno nel tentativo di percorrere una certa distanza prima che scenda la notte. Verso il tramonto cercano un posto in cui accamparsi. Il più delle volte montano la tenda. Se sono nei pressi di un villaggio vanno a chiedere il permesso al capo, permesso che viene immancabilmente accordato, in un paio d’occasioni gli viene offerta una stanza in cui dormire. Poi ci sono i riti serali, il fuoco e la cena, magari un po’ di lettura, l’allontanarsi al buio con un rotolo di carta igienica in mano. Prima che si faccia troppo tardi si mettono a dormire, stendendosi fianco a fianco, la stanchezza cancella la mente nel giro di qualche secondo, anche il suolo più duro diventa morbido.

Così trascorrono i giorni. La strada li fa passare davanti a case o a piccoli raggruppamenti di capanne e dovunque la gente interrompe quello che sta facendo per guardarli. A volte grida dei saluti, frasi fatte in inglese che avrà imparato a scuola: salve come stai sì no sto bene anch’io arrivederci. In molti posti vengono circondati da uno sciame di bambini che cantando e ridendo seguono la coppia di pifferai magici che li attira dietro di sé. In un villaggio il sindaco li sistema in casa sua, è un omone enorme con i denti radi che fuma incessantemente marijuana rollata nella carta da giornale e insiste per farli dormire nel proprio letto mentre lui andrà a pernottare altrove. In un negozio lungo la strada due ragazzine chiacchierano timidamente, anche loro provano a sciorinare la loro litania di frasi in inglese, salve salve come ti chiami, poi una non si trattiene e dice ti amo e tutte e due vengono prese da un attacco di ridarella.

Reiner è divertito dalle due ragazzine, qui nel Lesotho potrei avere una bella moglie grassa, mi piacerebbe ah ah ah, ma in genere davanti a questi approcci amichevoli reagisce con aria irritata. Non vuole essere infastidito da sorrisi e chiacchiere, non vede la necessità di uno scambio di quel tipo. Quando la mattina si mette in marcia, infila i tappi nelle orecchie e sulla strada tiene lo sguardo fisso davanti a sé. È contento se gli offrono una camera ma non vuole pagarla, e non vuole chiedere il permesso di accamparsi. Perché mai dovremmo. È l’usanza. L’usanza loro, non la mia. Ma noi siamo nel loro paese. Il loro paese?, io ai paesi non ci credo, sono linee su una carta e basta. Certe volte, Reiner, non capisco proprio a cos’è che credi. A questo commento la faccia imbronciata si limita a sorridere.

Per lo più seguono la strada, ma a volte passano per la campagna incolta. Accade quando Reiner vede sulla sua carta una possibile scorciatoia, guarda qua, da questo punto a quest’altro. Certo, ma in mezzo ci sono i monti. Sì, li vedo. Tante volte sembra che Reiner scelga questi percorsi proprio per gli ostacoli, monti fiumi scarpate rappresentano una sfida interessante, dobbiamo vincere la natura con la stessa indifferenza che la natura ci dimostra, e così si inoltrano per la campagna selvaggia. 

A me non piace lasciare la strada, accentua la mia sensazione di vulnerabilità, induce una specie di ansia primordiale. Ma questo è anche uno degli elementi più irresistibili di un viaggio, il senso di terrore che soggiace a tutto, che rende più intense e acute le sensazioni, il mondo è carico di un’energia che nella vita normale non ha.

Dopo una settimana circa completano il primo anello del viaggio. Nella cittadina di Roma si accampano sul terreno di un seminario abbandonato, un lungo edificio di arenaria con archi e colonne, e un filare scuro di pioppi sul retro, sembra uscito dall’Italia.

A Roma c’è anche il vegliardo nella trattoria con i tavoli per strada all’ora di pranzo, di dove siete, sempre sorridendo sdentato, ah del Sudafrica voi sudafricani pensate che noialtri siamo scimmie però tenete in galera Nelson Mandela. Quando lui gli dice che Nelson Mandela non è più in carcere già da tre anni, il vecchio ride sgangheratamente gettando indietro la testa, voi pensate che noialtri siamo scimmie, ma Nelson Mandela sta dentro. Non è vero, non è vero, glielo giuro, per qualche motivo gli viene quasi da piangere. Il vecchio gli ride in faccia con un moto d’odio. Lascia stare, dice Reiner con aria spaventata, non lo sapeva, non gliel’ha detto nessuno, lascia stare.

Il giorno dopo vanno via da Roma e seguono delle strade che li portano ad alta quota. Finora si erano mossi fra le colline pedemontane del Drakensberg, ma adesso le cime svettano intorno a loro stagliandosi contro il cielo con linee strane e fantastiche. La strada sale e scende come una nave sul mare agitato, si contrae in tornanti o fa giri complicati per coprire brevi distanze. Nel pomeriggio scoppia un forte temporale. Il cielo sopra la lunga vallata si chiude, i fulmini sono spettacolari. Loro si rifugiano davanti a una casa e poi proseguono cercando un posto in piano per montare la tenda, ma non ne trovano, la strada è a mezza costa e ha pareti scoscese sopra e sotto. Al calar del buio arrivano a una missione religiosa, viene fuori che i preti sono tedeschi, Reiner intavola una lunga e amabile conversazione, sorride e annuisce, sembra tutta un’altra persona. I preti dicono che da loro non c’è posto ma li mandano dal capo del villaggio vicino, quella notte dormono sul pavimento di fango di una capanna, misteriosi fruscii dal tetto di paglia.

Reiner riferisce che la strada che hanno preso finisce poco più avanti, gliel’hanno detto i preti. Da lì dovranno attraversare un tratto impervio di montagna per raggiungere la strada successiva. Reiner ha un piano, senti, dice, ce la possiamo fare, l’indomani vuole tentare una tappa lunga, la più lunga che abbiano fatto finora, per arrivare fino a Semonkong.

A questo punto anche gli avvenimenti più banali celano come un tentativo di conquista del potere. All’inizio, quando si sono conosciuti in Grecia due anni fa, si consideravano uguali. Su quella strada solitaria sembravano l’uno l’immagine speculare dell’altro. Forse tutti e due ritenevano superflua una comunicazione concreta, le parole moltiplicandosi dividono, la cosa certa era piuttosto l’essere un tutt’uno sotto le parole. Ora invece si trattengono dal parlare perché parlando potrebbero scoprire quanto sono pericolosamente diversi l’uno dall’altro. L’immagine in uno specchio è un rovesciamento, riflesso e originale sono uniti ma potrebbero cancellarsi a vicenda.

Perciò sotto il viaggio c’è un conflitto, quasi un altro viaggio di per sé, una lotta per la supremazia che col passare dei giorni comincia ad affiorare in superficie. Quando la mattina si alzano Reiner ormai ha l’abitudine di bagnarsi in un fiume, se c’è, o con l’acqua delle borracce. Poi si asciuga e va a sedersi su una roccia e si spalma sul corpo creme e lozioni che prende da una serie di vasetti e flaconcini. Poi tira fuori una spazzola di legno e se la passa fra i lunghi capelli, un colpo dopo l’altro, fino a farli diventare lucenti. Anche se questo rito diventa ogni giorno più lungo, fino ad arrivare a mezz’ora e più, Reiner bada sempre a voler fare la sua parte, aspetta solo un attimino e poi ti aiuto, lascia lì la tenda che ci penso io, senonché il suo compagno non sopporta di restare lì a guardarlo, è meglio tenersi occupati, preparare il caffè, mettere a posto la tenda, mentre Reiner si fa bello. Quando poco dopo riprendono il cammino, spesso lui è lì che soffoca dalla rabbia o dall’irritazione mentre Reiner è tutto soddisfatto e compiaciuto, e le ciocche castane gli ballonzolano sulle spalle.

Un altro motivo di conflitto sono i soldi. Lui ha continuato meticolosamente a tenere nota di tutto sul suo quadernetto, cosa alla quale Reiner sembrerebbe indifferente. Ma ogni volta che si fermano a fare la spesa c’è una battaglia silenziosa su cosa sceglieranno e chi sarà autorizzato a farne uso. Reiner, per esempio, continua a comprare cioccolato, ma se sono io a volere qualcosa sorge spesso una discussione, mmmh non saprei, a che ci serve. E ogni tanto Reiner compra qualcosa per sé, una scatola di caramelle o una bottiglia d’acqua, e aspetta che il compagno gliene chieda un po’. Chiedere è umiliante e Reiner lo sa. I soldi non sono mai soldi e basta, sono un simbolo di altre cose recondite, in questo viaggio quanto possiedi è segno di quanto sei amato, Reiner fa incetta di amore, lo elargisce come fosse un favore, mentre io mi rodo all’infinito per la sua assenza, non avere amore equivale a non avere potere.

Perciò a questo punto del viaggio ci sono momenti di unione e momenti di conflitto e, in mezzo, lunghi spazi separati di cammino in cui ognuno dei due è da solo. Ma anche in quest’attività non riescono a trovarsi d’accordo. Non basta andare da a a b, devono farlo anche in un determinato lasso di tempo, non basta seguire la strada, devono sempre salire fino a una certa rupe o scendere fino a una certa grotta, c’è sempre qualcosa che viene misurato, qualcosa che viene spinto. Di sera Reiner sta perennemente chino con una torcia sulla sua carta e somma i chilometri che hanno percorso, controllando la distanza rispet­to al tempo.

Perciò quando dice che l’indomani vuole fare la tappa lunga, per ciascuno dei due significa una cosa diversa.

Lunga quanto.

Una sessantina di chilometri.

In un giorno solo.

Ce la possiamo fare.

Ma perché.

Perché voglio migliorare.

Lui capisce che Reiner si sta misurando contro certe probabilità di riuscita, contro i propri limiti, le condizioni avverse, e in questo schema lui rappresenta un’altra resistenza da superare, ma siccome non gli piace essere visto così risponde sì, va bene, possiamo provarci.

Si alzano molto prima dell’alba. Quando comincia a far luce hanno lasciato da un pezzo la casa di fango del capo e si sono rimessi in marcia. Gran parte della giornata precedente hanno camminato in alto rispetto al fondo boscoso della vallata, ma ora le montagne si ritirano da entrambi i lati e la strada continua a scendere, finché non arrivano a un villaggio. Qui la strada finisce. Per un po’ si riposano seduti fra le case e i giardini alla buona, con le capre che pascolano amabilmente tra i fiori, i polli che beccano nella terra. Poi ripartono avviandosi verso una direzione generica: dev’essere da questa parte. Devono uscire dalla vallata e valicare i monti, e il cammino continua a salire.

Sono le pendenze più forti che abbiamo dovuto affrontare, nessuna strada potrebbe salire così, spesso sono costretti a cercare un appiglio, ogni tanto ci sono dei sentieri, che loro seguono, e i sentieri li portano ad alcuni villaggi, sì, anche lì fra quei monti scoscesi e desolati ci sono le congreghe di casupole rotonde separate dal solito terreno arido rin­cal­zato, le facce che sbirciano fuori incuriosite o stupefatte quando passano, gente che vive tutta la vita in una piccola porzione del pianeta, ignara di tutto ciò che esiste oltre i suoi confini. La memoria è ridiventata frammentaria e intermittente, chissà perché certi panorami, certi tratti di un percorso restano così impressi nella memoria, tornano in mente così vividamente, mentre altri scompaiono senza lasciare traccia, vedo i due che finalmente si inerpicano su per un’ultima salita fino alla sommità spoglia di una collina, in cima ci sono altri villaggi, campi di granturco, ma in lontananza, più in alto, si vede la linea della strada, forse una macchina che passa come un’automobilina su una pista, ce l’abbiamo fatta, guarda, guarda, siamo arrivati.

Per raggiungere la strada ci vuole un’altra ora. Si fa già sentire una grande stanchezza, così si riposano seduti davanti a una casa. Di tanto in tanto passa una macchina, potrebbero farsi dare un passaggio, ma l’obiettivo risulterebbe vanificato, e poco dopo riprendono il cammino. Oggi c’è un cielo perfetto, il caldo sconfinato opprime. Arrivano a un negozio sulla spalla di una collina, a questo punto non ci sono più né la volontà né l’energia per continuare, si siedono fuori sulla verandina di cemento, lui per un attimo perde i sensi, e sono solo a metà strada.

Quando si rimettono in marcia imboccano un viottolo di campagna che si eleva sopra quell’altopiano popolato, poi eccoli su una landa alta e desertica con distanze disabitate, non si muove nulla a parte loro, che oltretutto si muovono appena. Ormai sono molto stanchi. L’implacabile salita iniziata la mattina li ha svuotati, anche se adesso stanno scendendo dolcemente hanno i muscoli sfibrati al limite dello strappo, in questo movimento non c’è alcun piacere. Non è contento neanche Reiner. Non si vedono né cartelli stradali né insediamenti, la carta non sa dirgli dove si trovano, io continuo a guardare avanti cercando con gli occhi Semonkong, saremo quasi arrivati, a questo punto ci siamo senz’altro, ma dietro ogni curva la strada prosegue, si allunga avanti come il destino. Passa un tizio su un asino con una coperta e un enorme cappellone Basuto che non presta loro la minima attenzione. Il pendio si fa più ripido, stanno scendendo di nuovo dal punto più alto della catena, il sole scivola dietro le cime.

Al di là della stanchezza c’è uno stato di debolezza talmente acuto che non importa più dove sei o che cosa stai facendo. Lui entra in questo stato la sera, prova uno sfinimento che sembra sonnolenza, è difficile tenersi in equilibrio. Passa davanti a un cavallo in un campo sotto la luna piena. Nessun’altra immagine di quel viaggio è per lui così rara e brillante, il verde dell’erba sembra un piumaggio lucente, l’animale sogna tranquillo di profilo, il tondo bianco lassù è come Dio. Ora devono essere arrivati per forza. Ma scende la notte, non si vede una luce da nessuna parte, e loro proseguono.

Basta così, dice a Reiner. Perché non ci fermiamo.

Qui? Reiner si guarda intorno, anche il suo volto teso e disfatto rivela la tentazione. Però non vuole arrendersi. Saremo vicinissimi, abbiamo già fatto tutta questa strada.

Ai piedi dei monti la strada torna in piano, ormai ci siamo, ormai ci siamo, camminano senza sosta perché se si fermassero a riposare non riuscirebbero a rialzarsi, superano una diga, al loro passaggio alcuni uccelli si levano in volo gridando, i versi selvaggi nella notte sembrano la voce della terra che esclama fermatevi, ora fermatevi, ma loro non si fermano, il paesaggio che scorre via da entrambi i lati si muove adesso di propria volontà, non c’entra niente il fatto che stiano camminando, le stelle in cielo ruotano impercettibilmente secondo i loro schemi ermetici, il tondo perfetto della luna rotola come un cerchio sfuggito di mano e sparisce, poi a un certo punto verso mezzanotte arrivano su un’altura e più avanti ecco le sagome basse e piatte, le luci sparse e fosche della cittadina. Un cane si mette ad abbaiare, un altro lo imita, su un’onda di ringhi e guaiti i due vengono trascinati attraverso le strade, chi sono questi viandanti venuti dal buio.

C’è un cartello. Lo seguono. Attraverso tutta la cittadina fino a uscire dall’altra parte. La strada sprofonda in una gola e passa sopra un fiume, arrivano a un campeggio in fondo alla gola con i bungalow sparpagliati, è tutto immerso nell’oscurità. Suonano un campanello, arriva qualcuno, sono troppo stanchi per montare la tenda perciò prendono una stanza, si mettono a letto. Ce l’abbiamo fatta, dice Reiner, ci siamo riusciti, ma sa senza neanche pensarci che la corda è stata tirata fin troppo.

Si riposano lì un paio di giorni. La mattina dopo lasciano il bungalow e piantano la tenda sull’erba. C’è una cintura d’alberi e poi il fiume, che scorre scuro come birra fra le rocce.

Adesso quasi non si parlano. La lunga camminata è stata un duro colpo per entrambi, hanno le vesciche ai piedi, i muscoli doloranti, scorticature nei punti in cui gli zaini hanno lacerato la pelle a forza di sfregare. Ma le loro reazioni a quest’esperienza sono molto diverse. Reiner sembra ringiovanito, per lui lo scopo era superare la propria debolezza ed è stato raggiunto, sicché sta già progettando la tappa successiva. Annuncia che forse per una giornata possono proseguire su una strada buona che sale fino a un certo posto. Fra quel posto e la fine del secondo anello del viaggio c’è una catena di monti dove non passa nessuna strada. Modificando il percorso, andando a sud per un breve tratto, arriverebbero a una strada che li porterebbe dritti dove vogliono andare, ma così è troppo facile, attraversiamo i monti a piedi, dice Reiner. Ci saremo in due, tre giorni.

Io guardo la carta fiaccamente.

Mi piacerebbe fare altre tappe lunghe, dice Reiner. Come quest’ultima. Tu che ne pensi. Incrementiamo un po’, poi facciamo una tappa lunga, poi ci riposiamo qualche giorno.

Lui annuisce, si volta, dentro di lui è finito qualcosa. La stanchezza della lunga camminata non vuole abbandonarlo, gli si è insinuato un intorpidimento nelle ossa. Si aggira per il campeggio cercando di riprendersi, pensa di tutto e non si risolve a fare niente, lava i propri panni nel fiume e li stende ad asciugare sulle rocce. Poi si mette al sole, ascolta l’acqua, legge. In una stanza sconosciuta devi svuotarti per il sonno. Ma prima di svuotarti per il sonno, cosa sei? E una volta svuotato per il sonno, non sei. E quando sei riempito dal sonno, non sei mai stato. Le parole gli vengono da molto lontano. Posa il libro e fissa i singolari insetti dalle zampe lunghe che guizzano frenetici avanti e indietro sul pelo dell’acqua vivendo tutta la loro vita nello spazio di due o tre metri, non sanno niente di lui e dei suoi guai, anche in questo momento non sono consapevoli del fatto che li sta guardando, la loro alterità rispetto a lui è totale.

Il proprietario del campeggio è un grassone che si chiama John. John racconta ai due del panorama spettacolare che si ammira a un’ora e mezza di cammino da lì, non perdetevelo, dice, è proprio eccezionale. Quando arrivano sul posto constatano che è vero, il panorama è davvero stupefacente, lo stesso fiume accanto al quale sono accampati si getta giù da una rupe e sparisce nel vuoto. Lui si stende a pancia sotto e sbircia oltre il ciglio. Lo strapiombo prosegue vertiginoso, fa girare la testa, la forza di gravità si unisce in esso a un segreto desiderio di morte.

Strisciando si allontana dall’orlo e quando si rialza in piedi vede Reiner poco più avanti che da sopra un masso ai bordi dello strapiombo si sporge verso l’abisso. In quell’istante, fugacemente, muto, gli passa per la testa l’impulso di spingere, un movimento minimo delle mie mani ed ecco che lui non c’è più. Ma da dove viene questo pensiero omicida che mi affiora con tanta naturalezza fra i detriti quotidiani della mente e poi risprofonda via.

Questa qui è la strada che dobbiamo fare, dice Reiner. Domani.

Ah.

Quando ci rimettiamo in marcia mi piacerebbe fare una tappa notturna. Partiamo quando fa buio e andiamo avanti tutta la notte.

Possiamo provarci, dice lui.

Così il pomeriggio seguente si mettono in cammino alle ultime luci del giorno mentre comincia a scendere una pioggerella. Scompaiono nell’oscurità, e anche in un buco della memoria, nell’immagine successiva che ho di loro stanno salendo fra i monti nella luce forte del giorno. Hanno abbandonato la strada e grosso modo si stanno dirigendo a ovest. In questa calda giornata qualunque le due minuscole sagome si inerpicano su, su, fra crepacci, fenditure, campi e koppie, oltrepassando villaggi e ruscelli, fitti boschi e boschetti, verso la vetta della catena, dalla quale potranno cominciare la discesa. Reiner traina entrambi. Nel pomeriggio piove, un acquazzone breve e intenso, ma il caldo non va via. Il vapore sale dovunque, pare che la terra arda, e nel tardo pomeriggio l’aria è tesa, elettrica e rovente.

Poi l’impressione è che succeda tutto velocemente convergendo verso un punto. All’imbrunire sbucano su quello che sembra il tetto del mondo, proprio davanti a una gola scoscesa e a creste e creste di monti che si perdono in lontananza. Il buio sta calando con una rapidità innaturale e guardando più avanti capiscono perché. Da punti diversi dell’orizzonte stanno arrivando due grossi temporali che finiranno per scontrarsi più o meno dove si trovano loro in quel momento. I fronti di nubi nere sono impenetrabili, hanno già oscurato il sole.

Ormai è troppo tardi per tornare indietro o per cercare un posto più a valle in cui rifugiarsi. Hanno solo qualche minuto prima che i temporali si scatenino, giusto il tempo di piantare la tenda, e i due cominciano a trafficare freneticamente con paletti, picchetti e tiranti. Il vento sta aumentando e nell’aria si sente un odore strano, come di metallo. Arriva più volte un rumore di tuoni. Montano la tenda, infilano dentro gli zaini e poi si precipitano a cercare pietre per tenere giù la tela.

I contorni del mondo hanno già cominciato a piegarsi e oscillare e si ha la sensazione di sfrecciare nello spazio. Con un occhio interno lui osserva tranquillamente il luogo assai esposto e isolato in cui si trovano, il piccolo bernoccolo che spunta sul cocuzzolo pelato della montagna. I fulmini, pensa, dobbiamo sbarazzarci del metallo. Nei due minuti successivi rovistano entrambi negli zaini tirando fuori tutto il metallo che riescono a trovare. Carichi di posate, temperini e bracciali escono fuori precipitosamente e buttano il misero mucchietto argentato nella boscaglia agitata, poi precipitosamente tornano alla tenda. Servirà a qualcosa quella precauzione ridicola? Ci sono ancora i picchetti ficcati nel terreno, di metallo anche quelli, troppo tardi per rimediare. Si rinfilano dentro nel momento in cui scoppiano i temporali.

Nessuna forza umana l’ha preparato a una violenza così impersonale e così intensa. Vento pioggia e rumore. Il suolo trema. Tra fulmini e tuoni l’intervallo è minimo e si sta riducendo. Poi l’intervallo sparisce e il centro del furore è sopra di loro.

Bene o male quest’immagine riassume il quadro, questo è il momento che rappresenta l’esito di tutto, lui è sdraiato a faccia in giù in fondo alla tenda, come un pezzo di legno, o un sasso, con la faccia schiacciata a terra e le mani sopra le orecchie. Adesso, pensa, ecco che adesso succede, adesso, adesso, adesso, mentre Reiner sta disteso dalla parte opposta, con la testa alzata, e tiene leggermente scostati i lembi della tenda per guardare fuori, con quel broncio da bambino arrabbiato, il mondo ruggente illuminato come a mezzogiorno.

Il mattino spunta perfetto e senza nubi. Lui si sveglia presto e sguscia fuori nella calma. L’umidità inargenta i cespugli, i monti si stagliano tersi e nitidi contro l’azzurro. Nell’aria pulita l’occhio viaggia con capacità telescopiche verso i minuscoli dettagli dell’orizzonte. Si trovano a un’altezza notevole.

Reiner esce fuori poco dopo e si guarda intorno. Mmh, dice. Mi sa che faccio una passeggiatina. Si allontana in direzione della gola.

Mentre lo aspetta, lui accende il fornello per fare il tè e poi controlla i danni della sera prima. Qualche corda si è allentata e qualche pietra è rotolata via, ma a parte ciò la tenda è ben piantata. Più che altro saranno stati loro con il loro peso a tenerla ferma.

Poiché Reiner non è ancora tornato, lui si tiene occupato trascinando fuori gli zaini dalla tenda. Poi comincia a smontare tutto. Ci mette più tempo del solito a causa di tutto il fango e la terra e una volta arrotolata e riposta la plastica non trova più alcuni picchetti. Sono spariti, sprofondati nel terreno bagnato.

Reiner ricompare camminando a grandi falcate nella boscaglia. Il suo silenzio dice che qui sul picco del mondo, fra vette e temporali, è davvero nel suo elemento.

Non riesco a trovare tutti i picchetti.

Mmh, dice Reiner. Si versa un po’ di tè, va a sedersi su una roccia e guarda intensamente in lontananza.

Lui scava un po’ nel fango, poi si allontana cercando gli oggetti di metallo di cui si sono sbarazzati la sera prima. Non ricorda dove li hanno gettati, oggi non c’è niente che abbia lo stesso aspetto di ieri al buio. Alla fine il luccichio dell’argento cattura il suo sguardo e lui riporta tutto indietro in un mucchio puntuto per metterlo via. Reiner lo guarda e dice: avevi paura dei fulmini.

Sì. Tu no?

Reiner scuote la testa e beve un sorso di tè.

Preparo la colazione. Reiner butta via quel che rimane del tè e viene a mangiare. I due non parlano e fra di loro c’è una tensione profonda, un residuo del brivido elettrico del temporale. Reiner mangia adagio continuando a pensare e a guardare ed è ancora lì che mangia quando il suo compagno di viaggio finisce. Il compagno è spazientito dall’attesa e si rimette a cercare i picchetti mancanti. Quando rivolge lo sguardo verso Reiner, lo vede appollaiato su una roccia, a petto nudo, che si spalma la crema.

Potresti aiutarmi a cercare.

Ho da fare, dice Reiner.

Ha da fare.

Lui torna e raccoglie le posate e i piatti sporchi. Li ripone nel proprio zaino. Reiner intanto ha finito di spalmarsi e si sta spazzolando i capelli. La spazzola sale e scende, i colpi si moltiplicano, ripetitivi ed esasperanti.

Lui va a lavarsi i denti. Quanto ritorna Reiner ha finito di spazzolarsi e si sta infilando la maglietta. Poi mette a sua volta un po’ di dentifricio sullo spazzolino e si allontana.

Torna qualche minuto dopo a passo svelto ed efficiente. Pronto, dice, andiamo.

Non abbiamo ancora trovato tutti i picchetti.

Come?

I picchetti.

Reiner fa schioccare la lingua irritato, sospira. Si avvicina alla zona appiattita dov’era montata la tenda e scruta il terreno calpestato. Poco dopo dice: lascia perdere.

Come?

Lascia perdere. Useremo qualcos’altro.

Non è mia la tenda. Devo starci attento.

Be’, i picchetti sono spariti. Io non li vedo. Forza, stamattina abbiamo già perso un sacco di tempo.

Lui lo guarda e da un luogo molto profondo le parole salgono superando una grossa resistenza: tu non hai fatto niente, dice.

Come?

Tu non hai fatto niente. Stamattina ho fatto tutto io. E io voglio cercare i picchetti.

Reiner schiocca di nuovo la lingua spazientito, scuote i lunghi capelli in maniera eloquente. Senza una parola prende il suo zaino e si avvia sul sentiero che stavano seguendo. Quello rimasto indietro lo guarda sbalordito mentre si allontana deciso, la sagoma scura rimpicciolisce rapida fino a scomparire. Lui a quel punto mette via la tenda nello zaino e si accoda.

Il sentiero all’inizio fa parecchie curve assecondando i contorni del monte, non si riesce a vedere granché lontano, ma una volta girato intorno al versante il pendio si dispiega e il sentiero prosegue srotolandosi per un lungo tratto nel futuro. Ora si vede Reiner in lontananza, una sagoma minuscola che si muove svelta senza guardarsi indietro. Lui tenta di accelerare il passo, ma è stanco e appesantito. Sta anche portando più di quanto gli spetti, la tenda toccherebbe a Reiner, ma Reiner è partito senza prenderla, alla fine si riduce tutto a una manciata di picchetti persi e al peso di una tenda.

Dopo un po’ rinuncia al tentativo di raggiungerlo. Ma una volta arrivato sull’altro versante del monte ha una visuale completa del sentiero che continua e poi gira bruscamente a sinistra, scendendo verso un fiume. Reiner è molto avanti, sta per arrivare alla curva. Il sentiero non procede diritto e lui nota che uscendo di pista in quel punto e tagliando per un declivio scosceso può arrivare al fiume davanti a Reiner.

Comincia a scendere a sinistra, cercando punti d’appoggio fra cespuglietti stentati e sassi sparsi, tentando di non perdere l’equilibrio. Con la coda dell’occhio controlla Reiner, lo vede accelerare il passo nel tentativo di mantenersi in testa appena capisce quello che sta succedendo, poi lo vede rallentare di nuovo quando si rende conto che non può farcela. Tutto ciò accade senza che i due si scambino un cenno.

Barcollando e avanzando a fatica arriva in fondo all’avvallamento e rientra sul sentiero davanti a Reiner. Ora può concedersi qualche momento per rilassarsi. Va tranquillo verso il fiume, si sfila lo zaino e si mette seduto ad aspettare. L’acqua è bassa ma scorre veloce. Qualcuno ha messo dei sassi in maniera tale che saltellando dall’uno all’altro si può attraversare il fiume. In fondo, al di là di un’altura, si vedono i tetti a punta di alcune capanne, un filo di fumo sottile che spacca e apre il cielo.

Qualche minuto dopo arriva Reiner. Non si guardano. Reiner resta in piedi, osserva i dintorni, poi anche lui si sfila lo zaino e si mette seduto. Non parlano. Tengono tutti e due lo sguardo fisso nella stessa direzione, in silenzio, un po’ distanti l’uno dall’altro. Il rumore dell’acqua fa da sottofondo alla scena. Sono calmi entrambi ed è sottinteso che da qui in poi andranno avanti insieme.

Quando si rimettono in marcia è Reiner a muoversi per primo, si alza e si stiracchia e armeggia con lo zaino. A quel punto si alza anche lui e si prepara, facendo da specchio a Reiner. È come se fossero in due luoghi diversi, non è stata proferita parola.

In mezzo al fiume lui inciampa su un sasso e cade. Non si è fatto male, è solo bagnato e umiliato. Reiner è già sano e salvo sull’altra riva e si gira un attimo a guardare. Non ride ma è come se ridesse. Non aspetta, non si ferma, mi lascia in ginocchio nell’acqua e prosegue, trenta secondi dopo è sparito al di là dell’altura.

Mi alzo, raggiungo l’altra sponda. Fisso un istante il sentiero deserto pensando: se n’è riandato, se n’è riandato. Poi lo seguo. Ora è incalzato da una furia che lo rende di una calma glaciale, tutte le parole non dette gli vorticano nella bocca come fumo, e le gambe e le braccia bollono per tutte le cose che non ha fatto.

Superata la cima vede Reiner seduto su un tronco, in una valletta, mentre sorride guardando dei bambini di un villaggio che giocano intorno a lui fra l’erba alta. Sorride e continua a sorridere.

Lui gli si avvicina e chiede: perché non mi hai aspettato.

Reiner solleva lo sguardo inarcando i sopraccigli, un’espressione di paziente perplessità sul viso.

Adesso, quando sono caduto. In acqua. Perché non mi hai aspettato. Io ti avevo aspettato.

Ne parliamo, dice Reiner, però dopo.

Ne parliamo adesso.

L’ultima parola, quell’adesso, è carica di un voltaggio che lascia tutti sorpresi. I bambini, che non hanno capito il significato di questo sommesso scambio di battute, all’improvviso ammutoliscono e si allontanano guardinghi.

Ne parliamo, dice Reiner, ma non con quel tono di voce.

Il suo tono di voce è sdegnoso e annoiato, è come se gli fosse passato sotto il naso un odoraccio, lancia un’occhiata al compagno di viaggio poi torna a guardare i bambini e sorride.

A questo punto accade che anch’io mi metto a guardare, divento uno spettatore del mio comportamento mentre apro lo zaino, tiro fuori la roba e la butto. Mi stanno uscendo di bocca delle parole, prese e buttate anch’esse, incoerenti e male assortite, e le traiettorie collidono, secondo te mi diverto a camminare con te ti sbagli non mi diverto puoi proseguire per conto tuo da adesso in poi continui da solo mi hai sentito come fai a trattarmi toh prendi questo ti servirà questo e questo e questo, e butta le bombolette di gas, il sacco a pelo arrotolato, coltelli e forchette, rotoli di carta igienica, cibo in scatola, questo e questo e questo.

Gli oggetti volano, cadono a terra e rimbalzano. Reiner li guarda con un distacco divertito, santa pace guarda che furore ma che situazione incresciosa. Non si muove. Sembra che stesse aspettando questo momento sin dall’inizio, anche se probabilmente la verità è che non se l’aspettava proprio.

A un tratto la frenesia si esaurisce, lui chiude lo zaino e se lo mette in spalla, comincia ad allontanarsi. È difficile credere che abbia deciso così, una parte di lui vorrebbe che Reiner lo richiamasse, perciò quando sente la sua voce si ferma.

Ehi.

Si volta. Reiner sta andando verso di lui. Se mi porge anche una sola parola di scuse, se accetta di fare anche un minimo gesto d’umiltà verrò a più miti consigli. Ma Reiner è troppo rigido e troppo orgoglioso. Anche se per certi versi quello che fa risulta ancora più strano.

Tieni, dice. Ti serviranno.

Gli sta tendendo un biglietto da cinquanta rand.

Lui non ha denaro suo, neanche un centesimo, ma nella sua collera era pronto ad andarsene via squattrinato e anche adesso tentenna. Poi però la mano si allunga, prende i soldi, è un addio amaro.

Ciao.

Ciao.

O forse non c’è scambio di saluti, niente di detto, sì, è più probabile che sia andata così, fra loro passa un ultimo sguardo poi si voltano le spalle. Lui si incammina verso una direzione che, a giudicare dal sole e dal suo istinto, spera sia est. Quando arriva sul crinale si gira indietro a guardare e Reiner ha raccolto tutti gli oggetti e le carabattole e sta andando nella direzione opposta, verso ovest. Così si separano fra i monti una mattina, sotto gli occhi dei bambini sul prato.

Nel giro di mezz’ora comincia a pentirsi. Si è lasciato trasportare dai sentimenti, senza riflettere, non era giusto abbandonare così una persona. Ma subito gli rispondono delle voci di protesta, cos’altro avresti dovuto fare, si meritava di essere abbandonato. Allora si ferma e si mette seduto a pensare con la testa fra le mani. Cerca di valutare le alternative che ha. Ma a che serve, anche se tentasse di raggiungere Reiner, su quei monti non c’è modo di sapere dove sia, e se pure lo trovasse quante probabilità ci sono che il litigio si possa risolvere? Se lo sente che Reiner non perdona.

Perciò si rimette lo zaino in spalla e prosegue, camminando più svelto e leggero di quanto non faccia da giorni. Continua a dirigersi verso est nel tentativo di tornare a Semonkong. Ogni volta che arriva a un insediamento di qualsiasi genere, negozio o villaggio che sia, si ferma a domandare e c’è sempre qualcuno che conosce la strada. In un posto un giovanotto placido con una tuta blu insiste per accompagnarlo e fargli da guida e cammina per chilometri al suo fianco, senza parlare, limitandosi a sorridere timidamente ogni volta che lui gli chiede qualcosa. Il giovanotto lo porta all’imboccatura di una gola che passa tra i monti. C’è un sentiero che scende e il giovanotto indica: da questa parte Semonkong, sorridendo e facendo su e giù con la testa.

Lui non ha soldi da dargli, solo il biglietto da cinquanta rand, ma non sembra che quello si aspetti di essere pagato, accetta contento una stretta di mano e segue con lo sguardo lo strano viaggiatore che si allontana. Le pareti di roccia salgono verso l’alto su entrambi i lati, la gola pare deserta, ma poco più avanti un pastore, invisibile da qualche parte in alto, comincia a chiamarlo con le stesse frasi che lui ha già sentito, quelle imparate a memoria a scuola, salve salve come stai. Lui guarda ma non vede nulla. Salve ti amo, grida il vocione echeggiando nella gola in maniera surreale, ti amo ti amo salve.

Continuando a chiedere e a girovagare, riesce a raggiungere Semonkong in serata. È un’impresa notevole, ha compiuto in un solo giorno un viaggio di due, ma forse il suo percorso è più diretto, e lo zaino è sicuramente più leggero. Rivedendolo così presto John il grassone sembra interdetto: ma non sei partito due giorni fa, e che fine ha fatto l’altro, il tedesco. In montagna abbiamo litigato, abbiamo preso due strade diverse. John gli concede di accamparsi quella notte per la metà della tariffa solita, è disponibile ma sospettoso, magari in montagna l’ha assassinato, il suo compagno di viaggio. Tuttavia, l’indomani mattina va da lui e gli dice: la vedi quella ragazza, oggi va a Maseru, magari ti dà un passaggio.

La ragazza è un’americana di ventiquattro o venticinque anni che lavora nel Lesotho in qualche progetto di assistenza. Non fa i salti di gioia all’idea di aiutarlo, si capisce dalla faccia, però accetta, e lui sarà costretto a viaggiare dietro insieme ad alcuni altri cooperanti e a una pila di scatoloni che sono da scaricare. Sì sì qualsiasi cosa che per te vada bene. Così sale con gli altri e li ascolta che battibeccano e bisticciano fra loro. Sono stati qui insieme per troppo tempo, nelle loro voci si nota un certo tono, è ora che se ne tornino a casa.

Quanto a lui, oggi si sente stordito e svuotato, il rapido epilogo della vicenda quasi non gli pare vero, continua a riandare con la mente alla scenata del giorno precedente. Chiude le orecchie ai discorsi che si fanno intorno e guarda fuori dal finestrino la campagna che gli scorre davanti. È strano vedere al contrario tutto l’ampio panorama del lungo viaggio a piedi che hanno fatto appena qualche giorno prima, ecco il punto in cui ci siamo riposati, lì c’è il posto in cui ho visto il cavallo, qui abbiamo ripreso la strada asfaltata.

Arrivano a Roma nella tarda mattinata. Gli scatoloni vanno scaricati qui e lui va con gli altri nella struttura in cui alloggiano, li aiuta a portare gli scatoloni e poi aspetta all’ombra che sbrighino le altre incombenze. Si rende conto che questa gente lo trova strano e distaccato, il suo silenzio per loro è una stravaganza, ma non riesce a compiere tutti i giusti segnali sociali, è solo. 

Ci vogliono ore prima che si rimettano in viaggio, più un’altra oretta per arrivare a Maseru. La ragazza lo lascia alla periferia della città, deve andare da qualche altra parte e non ha voglia di accompagnarlo oltre, ma lui si profonde in ringraziamenti. Ciao, ciao. Poi con lo zaino in spalla si incammina di nuovo per l’interminabile via principale.

Passa i due attraversamenti frontalieri quando è ormai il tardo pomeriggio. Di colpo viene catapultato nuovamente nella realtà concreta della sua situazione, che non è né buona né consolante. A un certo punto nel corso di quest’ultima giornata ha deciso di andare al nord, a Pretoria, dove vive sua madre, perché è più vicina e facile di Città del Capo. Ma ora che si ritrova definitivamente appiedato sul ciglio della strada davanti al sole rosso del tramonto, quale sia la sua meta non fa differenza. Ha speso venti rand per il campeggio e per mangiare, gliene restano trenta con cui fare un viaggio di seicento chilometri. E questo non è il paesaggio deserto e benevolo del Lesotho, questo è un posto di confine sudafricano, continuano a passargli accanto macchine e furgoni, fiumane di gente vanno e vengono sulla strada e lui è un personaggio curioso e isolato, vulnerabile nella sua solitudine. Quasi si aspetta di vedere Reiner nei paraggi.

Tenta di fare l’autostop ma non vuole fermarsi nessuno. Nelle automobili non ci sono molti neri, che comunque lo guardano appena, e anche le famiglie bianche o le coppie o le donne sole ingioiellate e con alte acconciature, venute da Bloemfontein per un paio di serate folli al casinò, lo fulminano con sguardo diffidente o sprezzante e gli passano davanti col mento alzato. Forse ha l’aria sporca o trasandata, sicuramente dall’aspetto non sembra uno di loro, lo circonda un alone di pericolo. All’imbrunire, quando la temperatura comincia a calare, la sua disperazione è come un altro strato di vestiario. Non c’è un posto per dormire, non un solo posto sicuro per montare la tenda, se servisse riattraverserebbe il confine, ma dall’altra parte sa­rebbe altrettanto solo.

Quando è ormai quasi tutto buio passa un minibus taxi, l’autista grida dal finestrino la destinazione: Jo’burg Jo’burg. Johannesburg è vicina a Pretoria, lì ha degli amici che lo possono ospitare, va bene come casa sua, sì grazie, grida, sì. L’autista lo guarda e si ferma. Quant’è.

Settanta rand.

Ne ho solo trenta.

L’autista scuote la testa. Non si può fare.

La prego.

Mi dispiace.

L’autista fa per ingranare la marcia e ripartire quando gli chiedo: prenderebbe trenta rand e il mio orologio.

L’autista lo guarda di nuovo, chi è questo bianco impazzito, poi tende la mano. Lui si sfila l’orologio e glielo passa dal finestrino. Gli viene il sospetto che quello possa semplicemente andarsene, e a quel punto cosa potrebbe fare lui per fermarlo. Invece esamina l’orologio e infine alza le spalle: sali.

Il minibus è vuoto ma l’autista, che si chiama Paul, prosegue e lo porta un po’ più avanti, sotto un grande albero secco dove stanno aspettando gli altri passeggeri. Lui è l’ultimo e l’unico bianco del gruppo. Questo taxi non è come quelli di città ai quali è abituato, dove la gente si mischia ed è gioviale, qui lui è l’intruso, e nessuno gli rivolge la parola. Paul, però, lo prende in simpatia, vieni a sederti davanti, dice, e durante tutto il tragitto la strada gli corre incontro blu e violenta sotto la pioggia.

A mezzanotte sta scendendo su un marciapiede di Hillbrow, intorno a lui le luci della città sembrano un fuoco giallo e senza calore. Stringe la mano a Paul, che sta per tornare dritto nel Lesotho a prendere un altro carico di passeggeri. Segue con lo sguardo il minibus che sparisce, i fanali posteriori che si fondono con tutte le altre luci in movimento casuale, poi i passeggeri si disperdono tra la gente, in varie direzioni, vite unite per qualche momento e poi di nuovo disunite.

Resta su a Pretoria qualche settimana. Pensa a Reiner solo di tanto in tanto. E si chiede dove sia finito e che cosa stia combinando. Dentro di sé dà per scontato che abbia fatto come lui, che si sia messo a camminare di buon passo per valicare i monti e poi sia tornato giù a Città del Capo. Il viaggio nel Lesotho lo stavano facendo insieme, sicuramente Reiner non avrà avuto voglia di proseguire da solo.

Un giorno, d’impulso, telefona a vari amici di Città del Capo. Domanda se hanno visto Reiner, se Reiner si è rifatto vivo, se è passato. No, non l’ha visto nessuno, nessuno ha sentito niente. Ma che è successo, domandano gli amici, che cosa è andato storto. Lui tenta di spiegare ma gli si rapprende e raggruma tutto sulla lingua. Finora non ha avuto veri rimorsi di coscienza, ma ora comincia ad averne, sentendo l’incredulità nella voce di uno di questi amici: davvero hai fatto così, l’hai lasciato lì fra i monti. Sì è andata così ma tu non capisci. Sì è proprio andata così. Il disagio adesso gli provoca un’angoscia intensa, forse il fallimento non era di entrambi come se l’era dipinto, forse è solo una cosa sua. Se avessi fatto questo, se avessi detto quello, alla fine è sempre ciò che non si fa a tormentarci più di ciò che si è fatto, col tempo le azioni già compiute si possono sempre razionalizzare, mentre l’atto trascurato avrebbe potuto cambiare il mondo.

Dopo circa un mese rientra a Città del Capo. Non ha una casa e deve ricominciare un’altra volta a cercare. Nel frattempo sta da vari amici, torna a vivere nelle stanze degli ospiti, continua a spostarsi. Dai recenti avvenimenti la sua attenzione è passata ai problemi del presente. Ora non pensa più tanto spesso a Reiner. Presume che ormai sia tornato in Germania, a fare la vita di cui era così restio a parlare, a odiarmi da lontano.

Ma all’improvviso Reiner ricompare, un giorno arbitrario, senza preavviso. Durante tutto questo periodo, mentre lui era prima su a Pretoria e poi cercava di risistemarsi a Città del Capo, Reiner è rimasto nel Lesotho. Ha mantenuto fede al loro progetto. È dimagrito parecchio, i vestiti gli stanno larghi, è debole e ha esaurito le energie. Ha trascorso tutto questo tempo a camminare, dice, anche se non si saprà mai dove sia andato di preciso e cosa abbia fatto.

Anche queste poche notizie gli arrivano di seconda mano, tramite resoconti altrui. Prima di partire aveva presentato Reiner a un amico che abitava nel suo stesso caseggiato. Quest’amico ora telefona per dire che Reiner è comparso alla sua porta il giorno prima con un’aria patita e una pessima cera, senza un posto dove andare. Gli ha chiesto se poteva stare da lui una settimana, finché non partirà il volo che lo riporterà a casa. Ovviamente l’amico ha detto di sì, si tratta solo di pochi giorni.

Reiner resta tre mesi. Dorme sul divano nel salotto, non esce quasi mai, all’inizio circola a malapena per l’appartamento. È in uno stato pietoso. È afflitto da vari mali con sintomi allarmanti, gli vengono febbri altissime, ha le ghiandole gonfie, una specie di infezione da funghi alla lingua. L’amico lo porta da due medici, che gli prescrivono degli antibiotici. Ma i mali a quanto pare non passano e Reiner non si mostra intenzionato a partire.

Questi resoconti arrivano tutti tramite il suo amico, per telefono o fatti di persona. Durante l’intero periodo in cui Reiner resta lì lui non va a trovarlo neanche una volta, non vuole vederlo, non vuole parlarci. In verità è traumatizzato dal fatto che sia ricomparso, mentalmente aveva già relegato l’episodio al passato, questo ritorno gli sembra quasi rivolto a lui personalmente. Ma la presenza così vicina di Reiner lo affascina, chiede costantemente sue notizie, vorrebbe sapere cos’è successo dall’ultima volta che si sono visti. Di notizie ne arrivano pochissime. Ascoltando il suo amico, però, intuisce che Reiner è altrettanto affascinato da lui. Domanda di me, domanda dove sono andato, dove mi trovo adesso. A volte inveisce contro di me. Perché, vuole sapere, perché me ne sono andato via come una furia, fra di noi c’era un rapporto così bello, che cosa gli è saltato in testa.

Lui si sorprende a protestare, chiedilo a lui, lui sa perché è finita così, e l’amico ascolta partecipe ma anche dubbioso, gli si legge in faccia che ha sentito da Reiner un’altra versione dei fatti, la seconda storia che qui non è scritta. Le due versioni si respingono a vicenda, non si concilieranno mai, e lui vorrebbe discutere e spiegare fino a far sparire l’altra storia.

A volte sembra che Reiner non ripartirà mai. Continuerà a occupare il divano nell’angolo del salotto per occupare un angolo della sua vita, per sempre. Ma alla fine, invece, raccoglie le forze. Si scuote di dosso una parte dei mali, comincia a mangiare come si deve, mette su qualche chilo. Ricomincia a uscire, a camminare per strada. Poi gli arrivano misteriosamente dei soldi da oltreoceano e finalmente conferma una data per il biglietto di ritorno.

In tutto questo periodo lui spende parecchio impegno ed energie per evitarlo. Ma in due occasioni capita che si incontrino per caso. La prima volta accade in un giorno qualunque, nel posto più qualunque del mondo. Lui si è già trasferito in un appartamento suo, non lontano da dove sta Reiner. Una mattina si reca alla posta per spedire delle lettere e avvicinandosi all’entrata ha la percezione improvvisa e chiara che Reiner sia nell’ufficio. Non entrare, dentro c’è lui. Si ferma di botto, ma poi vuole verificare se la premonizione era giusta. Ovviamente varca la soglia e i due si guardano negli occhi per la prima volta da mesi. Reiner sta in coda, aspetta, e benché lì per lì abbia un attimo d’esitazione lui va a mettersi in fondo alla fila. Il cuore gli martella e gli sudano le mani. La coda fa una curva e torna indietro a centottanta gradi, Reiner è nell’altra metà e così si muovono l’uno incontro all’altro un posto alla volta. Un passo, un passo, un altro passo. Quando verrà servito il prossimo saranno l’uno di fronte all’altro, a un braccio di distanza, vicini come quando erano sdraiati in tenda. Lui vorrebbe scappare ma non osa.

Poi Reiner gira i tacchi, scavalca la corda ed esce. Io tremo con uno strano senso di vittoria. 

La seconda e ultima occasione capita qualche settimana dopo, di sera, per strada. Lui è andato da amici e sta tornando a casa da solo. Mentre cammina rasente un muro lungo e curvo vede due persone che gli vanno incontro. Si accorge che la persona all’esterno, quella più vicina a lui, è Reiner, insieme a una donna che lui non conosce. La donna sta parlando, è presa dalla conversazione, e Reiner ascolta, ma quando alza lo sguardo il suo corpo registra il colpo. Se fossero soli entrambi, forse uno dei due attraverserebbe la strada per allontanarsi, o forse stavolta si fermerebbero a parlare. Ehi. Ciao. Ciao. Come stai. Ma la presenza estranea della donna è come una distanza e un silenzio fra loro e mentre a poco a poco si avvicinano lungo la traiettoria curva si guardano soltanto, e quando sono quasi appaiati Reiner sorride. È quel vecchio sorriso sardonico che dice tutto senza dire niente, con gli angoli della bocca che si sollevano nella rigida maschera del volto. Poi si oltrepassano. Lui non si guarda indietro ed è quasi certo che Reiner faccia lo stesso.

Finché un giorno se ne va. Il mio amico chiama per dire: allora, Reiner è partito ieri sera, e con quell’unica frase tutta la storia è conclusa. Lui aspetta che accada qualcos’altro, non sa cosa, una telefonata, una lettera che sistemi definitivamente la situazione, anche se non vuole essere lui a prendere i contatti. Poi a un certo punto si rende conto che il silenzio, la sospensione, è l’unico tipo di conclusione che questa storia avrà mai.

Quando due persone si incontrano per la prima volta, forse nella loro diversa natura sono racchiuse tutte le possibili variazioni del destino. Questi due si attireranno, quei due si respingeranno, i più tireranno dritto educatamente, guardando altrove, e si affretteranno a proseguire da soli. Quello che è successo fra lui e Reiner era amore, odio o qualcos’altro con un altro nome? Non lo so. Ma la storia finisce così. Qualche tempo dopo, sgombrando la scrivania durante i preparativi per un nuovo trasloco, trova il quadernetto in cui Reiner aveva scritto il proprio nome e indirizzo anni prima in Grecia e dopo aver guardato un po’ quella grafia piccola e stretta lo butta via. Poi tira fuori anche le lettere di Reiner, che sono un grosso mucchio, e le lascia cadere nel secchio. Non è vendetta e a questo non seguirà nient’altro. Ma anche se ripenserà di rado a Reiner, e sempre senza rimpianti, ci sono ancora delle volte in cui camminando da solo su una strada di campagna non si stupirebbe di vedere in lontananza una sagoma scura che gli va incontro.

Traduzione dall’inglese di Chiara Valeria Letizia.

Il racconto Il seguace fa parte della raccolta In una stanza sconosciuta (Edizioni E/O, 2011). Si ringrazia la casa editrice.

Damon Galgut

Damon Galgut è uno scrittore sudafricano. Il suo ultimo libro è La promessa (Edizioni E/O, 2021).

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