Ti riconosco dalla voce - Lucy
articolo

Giulia Cavaliere

Ti riconosco dalla voce

17 Febbraio 2023

Diventare un altro per essere se stessi, camuffarsi per trovare una nuova identità artistica: spesso nella musica maschere e alter ego non servono solo a nascondere, ma a svelare.

E soprattutto, cos’è il nome? Se ci pensate, assolutamente nulla. Cos’è allora, mi sono detto, limmortalità in arte, in poesia, in unaltra cosa qualsiasi?

(Fernando Pessoa,  1906)

In un mezzo così sensibile al contesto come il rock, il clamore è una parte essenziale del messaggio.

(Ellen Willis, 1969)

Dopo aver deciso con gli altri tre Beatles di interrompere definitivamente l’attività live della band (ci sarà un concerto di addio sul tetto dell’Apple Corps con la folla beatlemaniaca di sotto, lungo Saville Row, tenuta a debita distanza grazie al vuoto che separa i comignoli dal suolo), Paul McCartney parte per un viaggio in Francia e poi in Kenya, dove verrà raggiunto anche dall’assistente personale e roadie del gruppo, Mel Evans.

È il 1966 e complici le quantità di dischi vendute e le tournée mondiali, Macca decide di partire nascondendosi in una versione di sé costruita appositamente per l’occasione: un’acconciatura nuova e un po’ bizzarra e lo strano pizzetto non saranno forse in grado di donargli l’anonimato, ma potranno comunque fare in modo che qualcuno si senta confuso e in questa confusione preferisca fargli godere la vacanza anziché rischiare una figuraccia disturbando un sosia.

Quale sistema per provare a continuare a condividere la propria musica con il pubblico senza per questo doverne subire le urla ai concerti?

Questa è la domanda che, più di tutte, accompagna Paul durante il suo viaggio, fino a quando, proprio sul volo di ritorno, ha l’illuminazione: e se in quel suo personale tentativo di anonimato ci fosse la soluzione che stava cercando? Se la chiave per andare avanti con la band fosse in quei baffi, quel pizzetto, quel taglio di capelli strano?

Penny Lane e Strawberry Fields Forever, in quel momento le canzoni già scritte per il nuovo album, si annodano tutte ai ricordi giovanili di lui e John Lennon: evocano il loro mondo originario iperinglese, nel caso di Lennon in chiave lisergica; e in quello di Paul in un modo più tradizionale che abbraccia l’immaginario paterno – quando Jim McCartney suonava per i figli il pianoforte verticale. Anni prima, su quello strumento Paul aveva scritto When I’m Sixty Four, in omaggio al mondo vaudeville caro al padre, brano che finirà poi nel disco che sta per nascere, anticipato da Penny Lane e Strawberry Fields Forever.

È pensando a suo padre (che oltre a essere pianista e trombettista, negli anni ’20 era a capo della Jim Mac’s Jazz Band, vera e propria big band locale), che seduto su quell’aereo Paul McCartney, giocherellando con i contenitori di sale e pepe, visualizza il nuovo lavoro in studio come fosse eseguito da un immaginario gruppo di musicisti: una banda di ottoni d’epoca vittoriana, la “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, ovvero la ‘Banda del Club dei Cuori Solitari del Sergente Pepper’.

Una pazzia, una cosa che può venire in mente solo a lui, a cui Lennon non smetteva di dire “you’re all Pizza and fairytales”, ‘tutto pizza e fiabe’, romanticismi, silly love songs e bizzarrie. Anche se sulle prime i compagni di band (a esclusione di Ringo Starr immediatamente entusiasta) non impazziscono all’idea, sapete bene come vanno certe cose e se avete visto Get Back, il documentario monstre sugli ultimi Beatles uscito un anno fa, lo sapete ancora meglio: comanda Paul, che non è disposto a perdere quella band che è la sua casa, un amore, la sua storia.

L’idea di Sgt. Pepper’s, dunque, diventa realtà. I quattro cambiano look sulla scia di quanto fatto in precedenza da Paul come se dovessero, questa volta, partire per la Francia e per il Kenya tutti insieme, camuffando se stessi in modo un po’ folle e smettendo di essere solo i Beatles e diventando formalmente un’altra band, quella che Paul ha immaginato in volo.

Quando si parla di questo disco si fa sempre riferimento all’idea di concept album e all’immediato predecessore Freak Out! di Frank Zappa e i Mothers of Invention; eppure l’espressione qui non è del tutto corretta perché il concept è nell’idea di chi suona e non tanto in ciò che viene eseguito.

Il concept qui, semmai, è l’artista, la Lonely Hearts Club Band, il gruppo immaginario che nell’idea di Paul metterà al sicuro il futuro dei Beatles rappresentando un gruppo ulteriore che, verrebbe da pensare, serve a proteggerne il cuore di quello originale alterandone soltanto l’apparenza, lo strato più superficiale: quel che si vede e non quel che è.

Eppure, se la forma è sostanza, quella protezione che Paul sta cercando, chissà se a livello più o meno conscio, va considerata sostanziale: in altre parole, nell’ipotesi peggiore, se non saranno i Beatles ad aver fatto qualcosa che non funzionerà, quel che non avrà funzionato esporrà meno la band all’urto del fallimento.

Eccoci dunque all’idea della maschera come dispositivo di protezione.

Che qualcosa si perda e qualcosa si guadagni attraverso l’uso delle maschere è chiaro fin dall’etimologia del termine, che oscilla tra la fuliggine che copre, il fantasma o lo stregone che avvolgono e trasformano lo scenario, passando dal visibile all’invisibile: qualcosa che nella preistoria consisteva nel passare dal mondo dei vivi a quello dei morti.

In ognuno di questi trapassi qualcosa arriva e qualcosa va perduto per sempre, esattamente come accade quando si applica una protezione e dunque si rinuncia all’esposizione massima: a sottoporsi tanto alla fama più sconfinata, quanto allo sguardo indiscreto o perfino violento che l’assenza di confini può implicare; con la grande massa che indica e giudica il volto scoperto – talvolta anche fanaticamente.

Naturalmente i Beatles sono i Beatles e lo sanno tutti pure quando i quattro giocano alla Big Band simile a quella di papà McCartney e, oltre che per un primato storico, il loro caso è interessante anche per questo: è parziale, ha a che fare con qualcosa di teorico più che con la piena messa in atto; mostra, cioè un tentativo e, con esso, la dolce fragilità dell’incertezza.

Tale incertezza sta nello scarto tra il mettersi apertamente in prima linea e porre al riparo ciò che si fa rinunciando a un po’ di come si appare: abbracciando, cioè, l’abisso solitario della necessità.

Ti riconosco dalla voce -

Di lì a poco, nei ’70, ora sì tempo dei grandi concept album, la storia della musica si riempirà di maschere, mutuando dalle parole di Oscar Wilde (“ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero”) i giochi sull’identità tra finzione e verità, e affidando in modi più e meno riusciti il suono, la parola e la performance a personaggi inventati che faranno da tramite tra artista e arte, artista e pubblico; per proteggere ma pure provocare, giocare, inventare.

In ciascuno di questi casi, la maschera avrà a che fare con l’interpretazione, l’interposizione di un altro tra il proprio io e l’arte che ne scaturisce; un luogo in cui depositare le bizzarrìe e le incertezze che si desidera condividere con il pubblico. Insomma, messaggi che si sceglie di affidare a un altro o a un altro sé.

Ecco che allora Ruben and the Jets diventa l’alter ego di Frank Zappa, maschera che gli permette di fare il doo wop che tanto ama, mentre i Turtles, con la loro Battle of the bands, pur mantenendo il loro nome, creano una compilation di generi musicali – dal surf al country fino alla psichedelia – ideando in ogni traccia undici band dalla vocazione sonora differente.

La maschera, come nell’etimologia del carnevale (carnem levare), ‘leva la carne di mezzo’, non solo quella che nella quaresima prima della Pasqua non si doveva mangiare ma, trasversalmente, anche quella del volto; la carne, cioè, che dà sul mondo, si espone e, altrettanto carnevalescamente, si fa portavoce di parodie, divertissement e stramberie più o meno decifrabili, avvertibili, riconducibili a un volto noto.

“Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero”.

È David Bowie, grazie all’invenzione di Ziggy Stardust e dei suoi Spiders from Mars, a condurre a compimento massimo la dinamica della maschera come veicolo di un messaggio. Con Ziggy, Bowie interpreta una rockstar ma non vuole essere un’altra rockstar: vuole che sia un altro a parlare e cantare al suo posto, portando un messaggio alieno sul pianeta Terra – un messaggio che, insomma, non è quello di un uomo ad altri uomini, ma quello di un artista ad altri artisti.

Non è un caso che a portare la maschera nel rock ai massimi livelli di profondità sia un performer che ha attraversato lo spazio artistico in modo totale; uno che ha sempre esitato a definirsi rockstar e si è sentito, più spontaneamente, attore.

Ziggy è la maschera aliena che serve a dimostrare quanto il rock sia una posa ma, e questo Bowie non lo nega mai, anche a proteggerlo dai fan, a velarne la presenza sul palco, contro paure e insicurezze. Ziggy concede a Bowie una vita da rockstar: i capricci, gli alti e bassi, i deliri e i tremori del successo consentendogli di starsene con un piede fuori, attraversato da uno stato d’ansia più lieve al punto che, per enfatizzare quell’interstizio tra l’artista e il suo alter ego, il suo autore parlerà di Ziggy sempre in terza persona.

Ziggy è la maschera-strumento nelle mani dell’artista, del suo inventore, l’oggetto fatto umano a opera di un grande intrattenitore, in opposizione a quello che il rock fino ad allora aveva sempre preteso: verità interiore, valori in contrasto con lo show business – insomma, la famosa necessità delle cose come stanno.

Da Bowie in poi, tutte queste cose come stanno non stanno sempre bene, non sono sempre fantastiche, anzi: privano gli uomini di libertà creativa. La verità acquisisce un’accezione povera della realtà; in contrasto con i modi con i quali era considerato l’attore nel periodo del governo Cromwell dove era ritenuto peccatore in quanto espressione umana del falso.

Questa forma di affermazione della teatralità nella musica, che riporta la maschera al suo spazio performativo d’elezione, quella cioè che Bowie mette in campo con Ziggy e che più avanti sceglierà a metà degli anni ’70 interpretando il crooner tossicomane Thin White Duke nell’album Station to Station (1976), potrebbe essere ascritta a ciò che definiamo eteronimia, un’operazione non ha nulla dell’anonimato o del semplice pseudonimo.

Se con l’uso di uno pseudonimo l’autore resta se stesso scegliendo un nome alternativo, con l’eteronimia entrano in gioco degli Io differenti, autori e artisti estranei, esterni alla persona che sceglie di raccontare con la voce di un altro.

Se lo pseudonimo è dunque una maschera che copre il volto, l’eteronimo è un volto mascherato per dare voce a un diverso da sé: qualcuno che altrimenti non si potrebbe mai essere, un’individualità differente. Ed ecco che lo pseudonimo è un gioco di mera copertura mentre l’eteronimo è un processo creativo di piena alterità, invenzioni non di un altro nome ma di un’altra psiche che quindi compie azioni diverse: mettendo a fuoco un’altra arte, una scrittura altra.

L’eteronimia, di cui Fernando Pessoa è stato massimo teorico e sperimentatore letterario, vive in tutte le arti. Anche nella musica la maschera funziona da dispositivo dello pseudonimo o dell’eteronimo, in entrambi i casi garantendo all’artista la sua quota di protezione: dai Daft Punk a Myss Keta, dopo gli anni ’70 è la maschera con funzione di pseudonimo a dominare, la maschera che cela, che nascondendo permette di non offrirsi in pasto, in un mondo sempre più desideroso di immagini e dei giudizi che ne conseguono.

Ti riconosco dalla voce -

I Bloody Beetroots, band italiana nata nel 2008 e sospesa in una vocazione sonora multiforme tra elettronica, pop, rock, classica e hip hop, si presenta da sempre sul palco con una maschera, la variante nera di quella del costume di Spiderman; nell’estate del 2013 il gruppo pubblica un singolo, Out of sight, in cui collabora proprio con Paul McCartney, quello della Big Band e del Sergente.

Se lo pseudonimo è dunque una maschera che copre il volto, l’eteronimo è un volto mascherato per dare voce a un diverso da sé.

Quando in un’intervista del 2020 si domanda al gruppo italiano il perché di quella maschera, il frontman, che si fa chiamare Bob Rifo (uno pseudonimo, sì) ha le idee chiare: la maschera catalizza attenzioni e certamente colpisce, ma significa soprattutto privacy, anonimato.

Al contempo dalle nostre parti lo abbiamo visto in letteratura con Elena Ferrante e, ancora in musica, con Liberato che, se è vero che la maschera protegge, è vero pure che suscita curiosità.

Il mondo ossessionato dall’immagine assale il principio della maschera, del non apparire, e chiede il disvelamento del volto, lo pretende persino, arrivando a non darsi pace e a porre più attenzione sull’identità ignota dell’artista, che sulla bontà dell’opera.

La creazione di prodotti artistici, che si tratti di libri o di canzoni, è oggi eccessiva e i modi per mettere al centro ciò che si fa, in molti casi, passano dal fare massimo sfoggio di ciò che si è (all’apparenza).

La maschera, con la sua natura carnevalesca, rovescia la logica e crea una naturale distinzione: fa apparire e dà rilievo automatico all’anonimo per il solo fatto di essere tale. “Non sai chi sono, dunque guardami per scoprirlo”, grida oggi il mascherato. L’anonimo allora si protegge, sì, ma la sua protezione lo fa altresì luccicare più vividamente tra le altre stelle, spesso nate già spente, già fagocitate dal mercato.

Senza nulla togliere alla magnifica vita privata dell’artista e al suo desiderio di esistere agli occhi del pubblico pur negandosi l’esposizione totale, io tuttavia rivendico il piacere di domandare all’arte più eteronimi e meno pseudonimi, anonimati o nomi fittizi che fingono di costruire nascondigli quando in verità costruiscono palchi.

Vorrei cioè la moltiplicazione delle coscienze artistiche, delle vie d’azione e delle possibilità; vorrei mondi a non finire, infinite trame e poi alieni, costumi da altri che non siamo noi, non coperture ma accessi ad altri spazi e tempi. Vorrei artisti in grado di farsi espressione della nostra naturale frammentazione e poi, ancora, mutanti, corpi e immagini destinati a eternarsi solo nell’azione, nella bellezza.

Giulia Cavaliere

Giulia Cavaliere è giornalista, critica musicale e autrice. Collabora con «Domani» e altre testate. Il suo ultimo libro è Romantic Italia. Di cosa parliamo quando cantiamo d’amore (minimum fax, 2018).

newsletter

Le vite degli altri

Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.

La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.

Iscriviti

© Lucy 2024

art direction undesign

web design & development cosmo

lucy audio player

00:00

00:00