Il vento - Lucy
racconto

Giulia Caminito

Il vento

02 Maggio 2023

In un paese misterioso sferzato da un vento gelido, Stella è alla ricerca del fratello Remo, scomparso senza lasciare traccia.

Il vento

La ragazza di nome Stella si levò i sandali con un gesto distratto, posò i piedi sull’asfalto per sentire il calore della strada, al centro della via non arrivava mai l’ombra, al mezzodì in paese si aveva paura di passare per di là, potevano rivoltarsi gli spiriti e le fate: camminare al centro della giornata era vietato.

Si era quindi soliti stare rifugiati nelle case, con i portoni serrati, in inverno ad addossare la legna nel camino e in estate a grattare il ghiaccio per berlo mischiato a bacche di ginepro e succo di lamponi. C’erano così tanti lamponi al ciglio delle stradine che bisognava far attenzione a non macchiarsi la suola delle scarpe, l’orlo di qualche lungo abito di cotone.

Sua madre la chiamava spesso Stellina e le piaceva farlo soprattutto davanti agli estranei, a chi aveva da poco incontrato, e proprio quella mattina, con la voce stridula di una volpe, le aveva chiesto: Dove vai, Stellina? Ma lei non aveva risposto. 

La donna con la bandana rosa, che Stella aveva incontro al primo angolo del paese seduta a gambe larghe mentre pelava delle patate, aveva detto che il freddo lì poteva sopraggiungere all’improvviso, con il vento che tagliava le vie, spazzava le vesti, costringeva in ginocchio.

Ma lei non le aveva creduto e si era tolta le scarpe quando sul suo orologio era segnato il mezzogiorno. Ora le piante dei piedi erano bollenti e la pelle scricchiolava, ogni cosa era ferma e ogni cosa poteva mutare, Stella era lì per aspettare la notte e vedere le donne più anziane scendere nelle vie strette, a vendersi e a spingersi per farsi notare.

Una lunga fila di uomini giovani attendeva ogni sera queste apparizioni, i capelli lunghi e grigi, le bocche raggrumate ma dipinte di pesca o di rosa gelsomino, le calze a rete portate fieramente e tenute su da giarrettiere antiche e smerlate.

Al paese salivano in pochi dalla valle dove Stella viveva, chi per comprare, chi per la paura. Le case erano basse e ruvide, la chiesa era chiusa da quando il prete s’era ammazzato, ma non si sapeva il motivo, così fanno i preti: si scelgono i peccati e le colpe.

Le regole erano d’arbitrio insolente, gli sguardi ti indagavamo e notavano subito la tua foresteria, perché bastava un lampo per rendere manifesto ogni straniero, ogni curioso, ogni possibile cliente.

La ragazza aveva sentito parlare del paese a una festa. Marco, il giocatore di poker dalle camicie verdi e blu, le aveva detto che c’erano posti vicini e terribili, e incubi anche dietro l’angolo, bastava salire di quota. Lei aveva domandato: Dove? E lui aveva risposto: Al paese.

Le aveva indicato la via, le aveva dato qualche informazione giusto per non perdersi, per arrivare a destinazione, salire, salire, che poi in realtà sembrava più di scendere, in paese, farsi inghiottire.

Il sole pareva cadere in picchiata ed essere pronto a picchiare, far baruffa, la strada si stava sciogliendo e presto sarebbe stata liquida come il fiume che dai monti dava fastidio alle case e alle botteghe. Un fiume dalla superficie gialla, per colpa di una pietra alla sorgente, che lacrimava un liquido color zafferano e stillava goccia a goccia essenza e tintura. 

C’era chi vi bagnava i piedi anche in inverno, si pensava infatti potesse dare sollievo dai calli e dai duroni, anzi, in paese ne erano convinti, perché era la natura che forniva protezione e pericolo, non c’erano più medici o farmacisti e con l’addio del prete neanche Dio s’interessava più di tanto a loro.

Forse anche per questo chi abitava ancora il paese non lo lasciava mai, detestavano i venditori di soluzioni e pelavano le patate a grandi mucchi, mai poche, sempre tante e sempre per cuocerle in tegame, sul fuoco. 

Resistevano con le loro tradizioni, le coscienze vecchie e decrepite, le fisime, inventavano feste e suonavano tamburi, era terribile per loro il vroom di una automobile, o il suono che fanno le motoseghe quando tagliano i tronchi degli alberi e il fracasso della caduta, per conseguenza.

Per loro ogni gesto aveva un senso, ogni decisione una base di esperienze incontrovertibili, ma da fuori, per chi saliva fin là, niente appariva giusto o possibile: erano dei matti e basta, erano dei sogni cattivi.

La ragazza fu costretta a rimettersi i sandali, le girava la testa e il paese era una vertigine, si accendeva e si spegneva di bagliori, le sussurrava una strisciante inquietudine che prima non aveva sentito, quando spavalda era andata diretta dalla donna della bandana a chiedere indicazioni per attraversare incolume quel mucchio di case. 

Se arriva il vento, tu mettiti a correre, sempre verso il basso, in alto si rischia troppo, in alto stanno solo i santi; aveva specificato la donna della bandana rosa, e Stella aveva notato che se l’era annodata al contrario, la punta ingiù a coprirle mezzo occhio.

Il pensiero del vento aveva iniziato a crucciarla, la sua venuta era misteriosa, la salvezza difficile da immaginare, forse era stato un errore ascoltare Marco, farsi sedurre da ciò che agli altri metteva spavento, e non sarebbe riuscita ad arrivare in cima, ad attendere il buio, a spiare il via vai, per capire chi voleva amore e chi solo possesso.

La giovane si spostò trascinando i piedi all’ombra, che era sottile e sporgeva di poco dai tetti e dai muri, si schiacciò con la schiena contro una casa, la sentì calda e dolorosa, le scapole venivano punte dall’intonaco grezzo.

Le cose piccole fanno poca ombra, si disse.

Quando rimise i sandali, vide una tendina muoversi nella casa di fronte e degli occhi spuntare: un signore era lì e la guardava bruciare, combattere con la calura. Pochi metri li separavano, quelli più difficili da affrontare. 

Dietro alla tenda si nascondevano la sua cucina economica, il sacchetto di carta del pane, il soffitto sporco di fumo, le bacche a mucchietti per tenere lontane le formiche e le cimici, un cesto di patate colmo da tenere al sicuro e il ghiaccio nel freezer in attesa della sete. Era vecchio, era stanco, di certo, aveva pochi capelli a fili lunghi che scendevano dalle tempie, mentre la punta della testa era rimasta sgombra. Il naso, grosso e poroso, stava sulla faccia come appoggiato o dipinto, sembrava sul punto di staccarsi e la sua espressione era di disagio, le persone giovani infatti arrivavano lì la notte e non per passeggiare, e poi erano al centro della giornata, e quella ragazza stava sfidando le buone creanze, anzi le consapevolezze.

L’uomo si chiamava Picchio e aveva una casa rossa, di un rosso scuro, simile ai grumi del sangue, alle ferite chiuse da poco, Stella pensò che se lo avesse fotografato ora, il signore sarebbe apparso dietro a quel vetro come cerbiatto in una teca e il colore della casa nessuno lo avrebbe mai saputo, avrebbero pensato: ecco qui il solito uomo, con la solita faccia, dentro la solita casa grigia.

Chissà come era la sua tavola, se lunga, se stretta, se tonda, se malferma, la ragazza si chiese come sarebbe stato sedere davanti all’uomo e chiedergli notizie su quei pini alti che avevano le punte acuminate e poi certi animali che si diceva attraversassero il paese una volta al mese. Erano stambecchi? Erano capre? Voleva sapere di più delle ore tarde, quelle senza sole, e se lui aveva una moglie e sei lei anche alla sera si perdeva per i vicoli e si vendeva, e poi se lo aveva mai visto, suo fratello. 

Remo era sparito due anni prima, era uscito al pomeriggio di casa e aveva detto di voler passare dalla posta e dal fruttivendolo in centro, ma poi non aveva fatto nessuna delle due cose, non aveva imbucato una lettera o pagato la bolletta della luce, non aveva comprato un sacchetto di ciliegie, quelle scure, le più dolci.

La madre di Stella ormai lo dava per spacciato, aveva costruito un altarino di sue foto da bambino e ogni mattina ci parlava inginocchiata, ma Stella no, lei voleva cercarlo e se c’era un posto, dove tutto era al rovescio o tutto era difficile da capire, forse là si era nascosto Remo, per scappare all’ovvio e alla menzogna delle cose ordinarie.

La ragazza pensò di bussare sul vetro e farsi aprire dall’uomo, pensò alle rughe che lui aveva intorno alla bocca e al cappello che forse teneva chiuso nella tasca dei pantaloni, era già pronta a mostrare la fotografia che aveva nella borsa: lei e Remo abbracciati sulla costa nord nel lago, si vedeva che erano fratello e sorella, si vedeva anche che erano diversi. 

E se l’uomo lo avesse già incontrato, e se lui fosse lì davvero in qualche scantinato, dentro il tronco di un albero; se fosse uno di quelli che cercavano piaceri da non dire per le stradine, ai bivi del paese? Lei cosa ne avrebbe pensato e come lo avrebbe giudicato, sarebbe stato possibile il perdono o avrebbe prevalso lo sconcerto, la distanza?

Ma Stella non fece in tempo a decidersi, non fece in tempo a tirare fuori la fotografia, ad attraversare la strada e a bussare sul vetro.

Gli occhi di Picchio si aprirono per l’allarme e poi arrivò il vento, la ragazza fu costretta a smettere di pensare.

Il vento attraversò il paese con dolore, lo fece gemere, dondolare, era un vento gelato che non arrivava dalla cima ma veniva dal basso, era un vento che raschiava i muri, graffiava le strade e Stella lo sentì passarle addosso come uno schiaffo, restò contro la casa, la abbracciò, sapeva che c’era il pericolo di perdere l’equilibrio e finire in alto, finire dove c’erano le madonne.

Era un vento perverso, tentacolare, che acchiappava e scuciva e tirava e pareva avere mille mani, dita lunghissime e sapere come farti del male.

I sandali di Stella vennero presi dal vento e così il suo vestito a righe e la biancheria, il vento la lasciò nuda e sola e in preghiera. Le finestre sbattevano, le vecchie s’erano chiuse in cantina, i fuochi erano spenti, tra le pareti della chiesa si sentiva fischiare il ricordo di Don Selenio, che amava le corde, le sedie e soffocare.

La donna con la bandana aveva portato dentro le patate e faticato a chiudersi dietro la porta di casa, era stato necessario spingere con tutto il peso del corpo per poter passare il chiavistello e sentirsi al sicuro. Ognuno degli abitanti era sparito dagli usci e dalle finestre, in molti erano raggomitolati sotto ai letti, in attesa che la corrente finisse.

Intanto il vento passò e rimase, tornò indietro, senza logica e possibilità di previsione, disturbò e colpì, e la ragazza si aggrappò alla propria fatica per non perdere le sensazioni, dalla finestra il signore non la guardava più, ma si era andato anche lui a nascondere in basso, il cielo era cattivo, la terra era buona, e lui lo sapeva.

Sapersi nuda in mezzo alla strada le avrebbe potuto ricordare i giochi con Remo da bambini al mare, perdevano sempre il costume a forza di tuffarsi dagli scogli e tornavano in spiaggia coi corpi lucenti e spogli, la madre subito interveniva per coprirla, mentre per il fratello non c’era bisogno di riparo. Ma in quel momento il vento aveva portato via anche i pensieri, era confusa, era vuota, una busta di plastica trascinata sull’erba.

Quando finalmente le raffiche calarono e divennero lingue più morbide e sinuose, la ragazza si prese il viso tra le mani e scuotendolo cercò di rianimarlo, di ricordarsi come si camminasse, come si alzassero mani e piedi, come fosse il mondo fuori dal paese e lontano dal vento. 

C’era quasi riuscita, ricordò Marco, ricordò il modo in cui mischiava le carte, come se fossero soffici, pensò alla propria casa, l’appartamento dei genitori, la sua università, le aule con microfono diffuso, le fontanelle dove riempire le borracce, l’automobile che aveva parcheggiato a qualche chilometro da lì, il viso di Remo così tondo, così gentile; poi ricordò sé stessa mentre saliva al paese e lo guardava dal basso, le era sembrata una caricatura, una cosa finta e ridicola.

Mentre lei ricordava, il vento tornò, forte più di prima, Stella si rannicchiò tenendosi a sé stessa e in un attimo vide la casa di Picchio aprirsi, le mura rosse si schiusero al modo di un fiore, il tetto si ruppe al centro e crollò, come crollano le divinità, gli eserciti, gli sconfitti. 

Chissà se Remo aveva sentito quel vento addosso, chissà se era riuscito a resistergli. Le parve di ascoltare la voce di sua madre, portata dall’aria feroce, chiedeva: Dove vai, Stellina?

Il mezzogiorno era passato solo da un quarto d’ora, eppure alla ragazza sembrò l’eternità di una lunga notte. 

Giulia Caminito

Giulia Caminito è scrittrice. Il suo ultimo romanzo è L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 2021).

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