In difesa del cattivo gusto - Lucy
articolo

Andrea Batilla

In difesa del cattivo gusto

Quando è nato il "cattivo gusto" e cosa dice di chi lo usa come metro di giudizio?

Quando passo davanti al centro massaggi thailandese sotto casa, registro l’immagine di quattro signorine sedute su divani di finto bambù addossati alla carta da parati floreale di una saletta dai soffitti bassi stipata di statuette e soprammobili dorati. Sono giovani, discinte, e guardano annoiate gli schermi dei loro telefoni. Il loro è un mondo in disequilibrio, è un imprevisto, una crepa aperta nell’asettico buon gusto milanese, quello che ritrovo nella pokeria e nel bar vegan a qualche metro di distanza. Le ragazze si sono ricavate un posto in cui accogliere in tranquillità i clienti, che qui non devono più rispettare le buone maniere.

Nella solida e liscia facciata della Milano per bene è stato aperto uno spiraglio che conduce alla promessa di olii, lettini e musica soffusa; alla promessa delle ragazze, che chissà cosa contiene; da quello che vedo attraverso le grandi vetrine, quando le ragazze alzano lo sguardo dalla luce blu dei cellulari stiracchiando le gambe, potrebbe contenere di tutto. Quello è un porto franco, un luogo in cui le regole della più noiosa città del nord Italia non si applicano più. E questo lo so prima di tutto perché quella stanza è il regno assoluto di ciò che chiamiamo “cattivo gusto”.

“Cattivo gusto” è l’espressione che affiora quando si giudica usando il parametro dell’estetica per liberarsi di un vago senso di inquietudine o straniamento suscitato da qualcosa che non si sa classificare. Chi la usa aderisce a un codice che permette di separare ciò che lo circonda e porlo al di qua o al di là dei limiti dell’accettabilità. È un criterio che viene usato ogni giorno come arma di attacco o di difesa – anche inconsapevolmente. 

In difesa del cattivo gusto -
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C’è quella ragazza grassa che avrà chissà quali problemi; c’è l’amica del cuore che ha quella famiglia così numerosa, così rumorosa e che si veste in quel modo eccessivo, come se volesse dire che lei è migliore perché ha più gioielli. E poi c’è la nonna di qualche moglie o marito che viene dal sud, che prepara pranzi da dodici portate insopportabilmente lunghi che procurano fastidiosi mal di stomaco il giorno dopo. Contro tutto questo pezzo di mondo, si liberano pensieri all’apparenza inoffensivi ma in realtà sprezzanti, che talvolta non vengono neanche verbalizzati, perché a Milano certe cose non si dicono: si pensano e basta.

È il cattivo gusto che qui, nella parte colta e produttiva d’Italia, delimita l’inconsistenza sociale fino al parossismo, mentre il buon gusto determina l’appartenenza al gruppo dei vincenti. Un vecchio maglione di cachemire portato con studiata noncuranza su consumati jeans di velluto, un viso senza trucco, meglio se con i segni del tempo e i capelli poco curati, ma all’anulare una severa tormalina blu degli anni quaranta che costa come un monolocale in centro. Un particolare modo di tenere le mani unite quasi in preghiera, con le unghie perfette senza smalto, quell’accavallare lentamente le gambe per non fare sfuggire neanche il più lieve segno di frivolezza femminile.

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Il nord produttivo è riluttante allo sfarzo e ogni caduta nell’eccesso viene condannata come volgare, trash, baùscia – che per analogia è uno che si sbava addosso dalla smania di esibire la propria boria. C’è sempre il pericolo di incontrare il brianzolo arricchito che non ha fatto in tempo a imparare le regole del buon vivere, quelle che servono a stare in società e che arriva alla cena in Ferrari. A Milano di Ferrari ne puoi avere quante ne vuoi, meglio se degli anni Sessanta, ma le devi tenere in garage e parlarne solo con chi ne ha altrettante. Queste sono le regole. E devono essere accettate.

Se poi si vuole cercare di comprendere il perché di questa mortificazione estetica così connaturata allo spirito meneghino (e anche torinese, ma mai veneto) bisogna intanto togliere di mezzo i termini “buono” e “cattivo”, posti subito prima di “gusto”. Il gusto, ovvero la bussola che seguiamo per fare le nostre scelte estetiche, non è una categoria dello spirito, ma una categoria del capitalismo; anzi, è una delle armi più potenti che la borghesia si è inventata per sopravvivere, per rendersi visibile e, più di ogni altra cosa, per afferrare il potere e non lasciarlo più – salvo poi dimenticarsene per qualche decina di minuti in un centro benessere thailandese, o in un centro benessere in Thailandia.

“Il nord produttivo è riluttante allo sfarzo e ogni caduta nell’eccesso viene condannata come volgare, trash, baùscia – che per analogia è uno che si sbava addosso dalla smania di esibire la propria boria”.

Se si vuole veramente capire qualcosa di questi comportamenti sarà necessario prendere un libro di storia, meglio se scritto da un filomarxista come Hobsbawm, sedersi su una poltrona anni cinquanta (meglio se di Albini o di Mollino), e lasciarsi trasportare indietro nel tempo fino al 1215. 

Il sistema parlamentare inglese esiste da allora e fin dalla sua nascita è testimone di una insanabile frattura: quella tra aristocrazia e borghesia, tra diritto ereditario e diritto conquistato attraverso guerra e lavoro. Ancora oggi esiste una Camera dei Lord (di cui ottantasette membri sono lì, appunto, per diritto ereditario) e una Camera dei Comuni che si riuniscono dentro Westminster, ricordando al mondo che la divisione tra ricchi di nascita e arricchiti è da sempre un problema. La guerra delle guerre tra borghesi e aristocratici, tra democrazie e assolutismi, tra giustizia e ineguaglianza, è stata combattuta per centinaia di anni e, alla fine, ha visto vincitrice la classe più dinamica, più moralmente adeguata ai tempi: quella in grado di separare il buono dal cattivo.

Quando nell’Ottocento le monarchie europee sono diventate solo un susseguirsi di teste coronate affacciate da una serie di balconi, i maschi borghesi si sono autoproclamati signori del mondo, regnanti su ogni telaio meccanico, su ogni ciminiera che sputava vapore e hanno scelto un’uniforme per distinguersi ed essere immediatamente riconoscibili: hanno cominciato a vestirsi da uomini.

Alla casta dei nati ricchi, abbigliati in maniera stravagante ed eccessiva perché di base nullafacenti, si è contrapposta una nuova razza di banchieri, mercanti, notai, avvocati o industriali che si svegliavano la mattina per andare a lavorare professando un unico credo, quello del denaro. A questa massa poco istruita e in cerca di segni in cui riconoscersi è venuta in aiuto una religione, quella protestante, che da secoli proclamava che la ricchezza esibita fosse un male, e i cui sacerdoti, da Calvino in poi, si aggiravano nerovestiti additando gli sfarzi di Roma come demoniaci.

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Il protestantesimo e tutte le sue declinazioni (anglicane, calviniste o puritane) erano nate da un moto di ribellione contro il cattolicesimo che scialacquava e vendeva indulgenze e che, soprattutto, produceva giganteschi affreschi policromi, cattedrali di marmo e vesti decorate d’oro per affermare la potenza della Chiesa e di Dio sulla terra. Per i nuovi capitani di industria che si muovevano veloci da Londra verso le loro fabbriche tessili di mattoni rossi, tutto quel luccichio, quell’eccesso, non rappresentava altro che sperpero. 

Le fortune adesso si costruivano per accumulo, e questo nuovo comandamento non poteva più essere violato né da papi né da regine, figure ormai di second’ordine, prive di ogni talento, abbandonate su divani di broccato a invecchiare come torte di compleanno lasciate fuori dal frigorifero. Nell’Ottocento la dottrina rivelata non serve più a salvarsi dalle fiamme dell’inferno, ma assume i contorni di una pratica quotidiana, in cui pregare è necessario quanto mangiare sano, lavarsi, fare sport, comportarsi bene, e lavorare il più possibile per guadagnare il più possibile.

I nuovi ricchissimi si chiamano Vanderbilt, Astor, Rockefeller, Carnegie, Rothschild e scavano miniere o costruiscono rotaie nelle sterminate praterie statunitensi. Le loro vite sono studiate per funzionare, le loro case si dividono in zone per il giorno e la socialità, contenute ma accoglienti, e in zone per la notte, con stanze recluse e inaccessibili come le loro mogli, diventate nel frattempo soprammobili, uguali alle statuine di porcellana di cui i loro salotti sono pieni. La rispettabilità sostituisce il casato, il conto in banca prende il posto del titolo onorifico, e l’eleganza e il buon gusto rimangono l’unica forma visibile di distinzione. Tutto il resto è nascosto.

“I maschi borghesi si sono autoproclamati signori del mondo e hanno scelto un’uniforme per distinguersi ed essere immediatamente riconoscibili: hanno cominciato a vestirsi da uomini”.

Cambia anche il modo di vestire. Gli uomini si fanno cucire addosso delle uniformi in lana nera, tagliate su corpi che non devono più sopportare i campi di battaglia ma le lunghe sedute alla Borsa e le altrettanto lunghe cene nei club privati in cui si scambiano fortune. Le camicie sono bianche, inamidate e raccontano di una pulizia interiore – che di fatto non esiste – ma che viene predicata come un Vangelo. Giacche, pantaloni, gilet e cappelli sono neri, così diversi dagli orpelli colorati degli aristocratici passati di moda, e anche così costosi da produrre. È un mondo che risplende dell’ideologia del progresso e che incasella ogni pensiero e ogni comportamento nelle nuove regole che ristrutturano la società. 

Una donna potrà suonare il pianoforte ma non il violino, potrà accettare una passeggiata con uno spasimante solo se seguita dalla madre che si premurerà che il lungo vestito in taffetà non si alzi con il vento, rivelando le caviglie. Un uomo potrà decidere le sorti della famiglia senza mai essere messo in dubbio, potrà muoversi tra spazi privati e pubblici ma facendo attenzione a non rompere il velo della rispettabilità, a non innamorarsi di qualche prostituta o, peggio, a non provocare scandali che coinvolgono altri uomini. I figli vivranno in piani diversi da madri e padri e si incontreranno a pranzo e a cena, momenti in cui sono richiesti incessanti cambi d’abito e in cui i vestiti prendono il nome dal momento della giornata in cui devono essere indossati: morning coat, evening gown.

Tutto questo eccesso di regole (che qualcuno poi chiamerà perbenismo) ci segue ancora oggi, solo che la maggior parte delle persone ha dimenticato le sue origini e lo scambia per un valore in sé. L’eleganza e la classe vengono considerate abilità innate, come se la natura, nel costruire il patrimonio genetico, si fosse occupata anche di codificare quali tipi di colori sono preferibili per un set di lenzuola. 

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Ma la natura se ne frega di come vengono strutturate le nostre società, e non esprime giudizi più favorevoli verso l’Occidente rispetto a una tribù dell’Africa equatoriale: manderà terremoti e inondazioni a entrambi. Pensare che l’eleganza venga concessa a chi ha comportamenti moralmente alti è liberatorio e fa sopravvivere in pace di fronte alla minaccia di disintegrazione di una società senza regole. Così si crede sia possibile dividere il mondo in belli e brutti, ricchi e poveri, buoni e cattivi, usando l’arma tagliente del gusto che, a seconda delle situazioni, diventa universale o personale, oggettivo o soggettivo, basta che tenga tutto insieme. 

“Io mi metto solo quello che mi piace” è una delle frasi più sciocche che una persona possa pronunciare. Gli uomini si vestono ancora come nell’Ottocento e, più o meno, occupano le stesse posizioni all’interno di una società in cui il patriarcato è ancora la forma più diffusa di strutturazione del nucleo familiare.

Fuori dell’area controllata dal buon gusto, in posti che culturalmente e geograficamente sono lontani dalla certezza di un tubino nero e un filo di perle, a Siracusa come a Saint Louis, a Siviglia come a Istanbul, a Roma come a Los Angeles, la bramosia per tutto ciò che è appariscente, che è d’oro, d’argento e sbrilluccica, che strizza le curve in abiti sgargianti, è ancora vivissima. Quella che per un composto milanese sarebbe un’orribile mescolanza di corpi sovrappeso, colori contrastanti, gioielli che appesantiscono e stampe che accecano, per i diretti discendenti del cattolicesimo romano e dell’Islam è gioia di vivere, desiderio di essere guardati. Anche le comunità afro americane, che non dimenticano la schiavitù impostagli dai protestanti, rifiutano il glaciale bon ton da Upstate New York, in favore di uno sconquasso di stili che dagli gli anni Ottanta sta mettendo in pericolo l’ideologia del buon gusto. Gli antagonisti dell’eleganza provengono da lontano, ma sono molto vicini.

In difesa del cattivo gusto -
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In Italia si trovano sicuramente da Roma in giù e rispettano la spaccatura di uno stato da sempre poco omogeneo da un punto di vista culturale, o che, per citare Metternich “è soltanto un’espressione geografica”. Le regge dei Boss delle cerimonie e i loro avventori, diventati fenomeni televisivi di successo come le Casalinghe di Beverly Hill o le Kardashian, non rappresentano l’inesorabile perdita dei valori dell’Occidente, non sono la deriva trash di un mondo che si è sfaldato. Ognuno di loro racconta una prospettiva culturale diversa e opposta a quella del nord produttivo, ma non per questo meno profonda, e che meriterebbe di essere esplorata.

L’estate scorsa, passando davanti ad una chiesa di Taormina da cui usciva un allegro gruppo di partecipanti a un matrimonio, sono rimasto estasiato dal profluvio di pizzi, ricami, stampe di rose, margherite e peonie, rasi dai colori sgargianti e cascate di gioielli. Ero rapito da quell’estetica chiassosa, accesa, liberatoria e per niente compiaciuta. Sotto il sole siciliano immaginavo che quella deflagrazione di decori, distribuita equamente tra uomini e donne, sarebbe piaciuta a Gianni Versace, calabrese di nascita e massimo maestro dei luccichii pericolosi, che all’inizio della sua carriera venne tenuto fuori dai circoli buoni milanesi perché ritenuto di cattivo gusto, ma che accolse tra le sue braccia di artista migliaia di donne stanche della seriosità lombarda.

In centro a Milano c’è un piccolo negozio di abbigliamento in cui una non più giovane signora insegna alle sue clienti, anche loro non più giovani, come vestirsi per sentirsi ancora belle e desiderabili, per trovare compagnia. Carla, con i suoi capelli bianchi e le mani piene di gioielli, estrae sicura da armadi in apparente disordine caftani ricamati, abiti di paillettes, stole di visone, cappellini coloratissimi. Le sue clienti li indossano, riparate dall’anonimato del posto, e poi li infilano in capienti borse di carta senza scritte. Escono più felici, salve dall’abitudinarietà dei loro guardaroba, sentendo di aver fatto un salto dentro la regione vietata del cattivo gusto. L’unica regione ancora capace di dare loro piacere.

Tutte le foto sono di Giada Arena.

Andrea Batilla

Andrea Batilla è autore e consulente strategico per marchi del lusso e critico di moda. Collabora con «Domani». Il suo ultimo libro è Come ti vesti. Cosa si nasconde dietro gli abiti che indossi (Mondadori, 2022).

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