Bram Stoker
31 Ottobre 2024
Per studiare senza distrazioni Malcom Malcomson decide di ritirarsi in una vecchia casa disabitata, appartenuta a un giudice spietato. Sarà una lenta discesa verso la follia. Un racconto da "Il Creatore delle Ombre" (Feltrinelli), per scoprire Bram Stoker oltre "Dracula".
La casa del giudice
Approssimandosi la data dell’esame, Malcolm Malcolmson decise di andarsene da qualche parte a studiare in santa pace. Temeva le attrattive delle località balneari, ma anche il totale isolamento agreste perché da anni ne conosceva il fascino, pertanto decise di scovare un anonimo paesello di poche pretese dove non ci fosse nulla in grado di distrarlo. Evitò di chiedere consigli agli amici, immaginando che ognuno avrebbe raccomandato un paese di propria conoscenza dove disponeva già di qualche aggancio. Dato che Malcolmson puntava a scansare frequentazioni di qualsiasi genere, voleva evitare assolutamente l’impiccio delle attenzioni degli amici di amici, perciò alla fine decise di cercarsi un rifugio per conto proprio. Così stipò in un baule gli abiti e tutti i libri di cui necessitava, e infine acquistò un biglietto per il primo nome dell’orario ferroviario locale che gli riuscisse ignoto.
Alla fine di una trasferta di ben tre giorni sbarcò a Benchurch, soddisfatto di aver fin lì cancellato le proprie tracce abbastanza da essere certo di godere della pacifica occasione di proseguire indisturbato i propri studi. Andò dritto filato nell’unica locanda attiva in quel sonnolento posticino e si preparò a passarvi la notte. Benchurch era una cittadina che ospitava un mercato, e infatti ogni tre settimane per un giorno era sovraffollata, ma per la parte restante dei ventun giorni risultava attraente quanto un deserto. Malcolmson dedicò la giornata successiva al proprio arrivo alla ricerca di un alloggio più isolato persino della già tranquilla locanda del Buon Viandante. Scovò un solo posto che faceva al caso suo, e sicuramente soddisfaceva anche le più folli esigenze in tema di quiete. In realtà “quiete” non è la parola più appropriata, l’unico sostantivo che potrebbe veicolare un’idea valida del suo isolamento è “desolazione”. Si trattava di un’enorme vecchia casa dalle grosse mura in stile giacobita, con voluminosi abbaini e finestre insolitamente piccole, piazzate più in alto di quanto sia solito in un’abitazione del genere, circondata da un alto muraglione massiccio. A essere sinceri, a un attento esame sembrava più una fortezza che un’abitazione normale. Ma tutto ciò risultava gradito a Malcolmson, il quale pensava: “È proprio il posto che cercavo, e se avrò la possibilità di abitarci sarò contento come pochi”. Contentezza acuita quando capì oltre ogni possibile dubbio che al momento non era abitata.
Ottenne all’ufficio postale il nome dell’agente immobiliare, il quale rimase assai sorpreso per la richiesta di affittare anche solo una parte della vecchia villa. Il signor Carnford, avvocato locale oltre che agente immobiliare, era un simpatico vecchio signore che confessò francamente la propria felicità nel vedere che qualcuno fosse disposto ad alloggiare in quella magione.
“Se devo essere sincero, sarei davvero lieto di fare in modo, puramente a vantaggio dei proprietari, che la casa venga affittata a titolo gratuito anche per anni, non foss’altro che per abituare la gente a vederla abitata. È rimasta vuota tanto a lungo che è sorta una specie di assurdo pregiudizio, il quale potrà essere smentito solo vedendola occupata,” spiegò. Aggiungendo poi con un’occhiatina in tralice a Malcolmson: “Anche se soltanto da uno studioso come lei, che vuole un po’ di quiete per un periodo”.
Malcolmson ritenne inutile chiedere all’agente quale fosse l’“assurdo pregiudizio”. Sapeva di poter ottenere maggiori informazioni in proposito, se necessario, presso altre fonti. Pagò tre mesi di affitto, ottenne la ricevuta e il nome di un’anziana signora che probabilmente poteva “spicciare casa” per lui, e uscì dall’ufficio con le chiavi in tasca. Quindi si recò dalla proprietaria della locanda, persona garrula e gentilissima, e le chiese consiglio sugli acquisti necessari per la permanenza. La donna levò le mani al cielo per lo stupore quando lo studente le comunicò dove si sarebbe sistemato.
“Non sarà mica la Casa del giudice!” esclamò, impallidendo di colpo. Lui le spiegò dove si trovava la villa, aggiungendo che non sapeva come si chiamasse.
Alla fine la locandiera confermò: “Ah, certo, certo, è quella! È proprio la Casa del giudice”.
Al che Malcolmson le chiese di parlargli del posto, come mai lo chiamavano così e che cos’aveva che non andava. La locandiera gli spiegò allora che in zona la chiamavano così perché tanti anni prima – non sapeva dire quanti dato che anche lei proveniva da un’altra parte di quella regione rurale, ma riteneva che fosse passato un secolo e anche più – era stata l’abitazione di un giudice che incuteva un generalizzato terrore a causa delle sue dure sentenze e per l’ostilità dimostrata nei confronti degli imputati alla Corte d’assise. Ma non sapeva spiegare che cos’avesse la casa in sé che non andava. Aveva chiesto più volte informazioni, ma nessuno s’era degnato di dargliele, comunque c’era la sensazione comune che là ci fosse qualcosa, e per quel che la riguardava non le sarebbero bastati tutti i quattrini depositati presso la Drinkwater’s Bank a convincerla a passare anche un’ora soltanto da sola in quella casa. Alla fine si scusò con Malcolmson per quelle sue ciance inquietanti.
“È un vero peccato, signore, che lei, tra l’altro un giovane gentiluomo, se mi permette di dirlo, vada a starsene là tutto solo. Se fosse figlio mio, mi scusi se mi permetto di dirlo, non andrebbe a dormire da solo là dentro una notte, pure se dovessi andare là di persona e suonare la grossa campana d’allarme che c’è sul tetto!” La brava donna era così evidentemente sincera, e le sue intenzioni sembravano tanto premurose che Malcolmson, più che divertito, ne fu commosso. Così le disse quanto era grato del suo interessamento, e aggiunse: “Però, cara signora Witham, non deve stare tanto in ansia per me! Uno che studia per laurearsi in matematica a Cambridge ha già troppi grilli per la testa per essere turbato da uno di quei misteriosi ‘qualcosa’, la sua materia di studio è troppo esatta e prosaica da consentirgli di avere un angolino del cervello sgombro per i misteri di qualsiasi genere e specie. Progressione armonica, permutazioni e combinazioni e funzioni ellittiche sono già un mistero bastante per me!”. La signora Witham si impegnò cortesemente a provvedere alle commissioni dell’ospite, il quale andò di persona a cercare la vecchia che gli era stata raccomandata. Quando, dopo un paio d’ore, tornò con lei alla Casa del giudice, trovò appunto la signora Witham che lo aspettava assieme a vari uomini più o meno giovani recanti pacchi, più un tappezziere che aveva un letto sul carro, perché, a sentir lei, i tavoli e le sedie potevano anche andar bene, ma un letto che non veniva arieggiato da forse una cinquantina d’anni non era adatto al riposo delle giovani ossa. Sembrava chiaramente interessata a vedere l’interno della magione, e così, pur manifestamente spaventata dai “qualcosa” tanto da aggrapparsi a Malcolmson al minimo rumoretto, e senza staccarsi da lui per un attimo, visitò tutta la villa.
“Approssimandosi la data dell’esame, Malcolm Malcolmson decise di andarsene da qualche parte a studiare in santa pace”.
Dopo un’ispezione della casa, Malcolmson decise di piantare le tende nella grande sala da pranzo, abbastanza ampia da soddisfare tutte le sue esigenze, così la signora Witham, con l’aiuto della donna delle pulizie, la signora Dempster, iniziò a sistemarla. Furono portati all’interno e aperti i cesti e i pacchi, e Malcolmson notò che con lodevole premura la donna aveva fatto arrivare dalla sua cucina sufficienti provviste da bastare per qualche giorno. Prima di congedarsi, la signora Witham rivolse allo studente tutta una serie di auguri, poi, arrivata alla porta, si voltò e aggiunse: “Forse, caro signore, dato che la sala è grande e piena di spifferi, ci vorrebbe uno di quei grandi paraventi da piazzare attorno al letto di notte, anche se, a dirla tutta, io ci morirei se dovessi stare chiusa lì dentro con ogni genere di… di ‘cose’ che fanno capolino da ogni lato e dall’alto, e mi guardano!”. L’immagine che aveva appena evocato si rivelò eccessiva per i suoi poveri nervi, pertanto se la batté di gran carriera.
La signora Dempster sbuffò con aria di superiorità appena vide sparire la locandiera, quindi precisò che da parte sua non aveva paura di tutti i babau del regno.
“Le spiego io che roba è, signore,” disse. “Gli spiriti e i babau sono di tutte le fatte… tranne che spiriti! Ratti e topi e scarafaggi, e porte che cigolano e tegole che ballano e finestre rotte e maniglie di un cassetto che rimangono inamovibili quando le afferri e poi ricascano nel cuore della notte. Guardi solo i pannelli della stanza! Sono vecchi, vecchi di centinaia d’anni! Cosa crede, che non ci siano ratti e scarafaggi lì dietro? E prevede di non vederli, signore? I topi sono i babau, le garantisco, e i babau sono topi. E non vada a pensare ad altro!”
“Signora Dempster, lei ne sa più di un cattedratico!” disse serissimo Malcolmson, omaggiandola con un cortese inchino. “E mi permetta di aggiungere che, in segno di stima per la sua indubitabile saldezza di testa e cuore, quando me ne sarò andato le lascerò il possesso di questa magione, così potrà rimanersene qui tranquilla per gli ultimi due mesi del mio affitto, tanto a me basteranno quattro settimane.”
“La ringrazio tanto, signore, ma non potrei dormire fuori da casa mia una sola notte. Sto all’ospizio di Greenhow, e se passo la notte fuori dalla mia stanza perdo il diritto di vivere lì. Le regole sono molto severe e sono troppi quelli che puntano a un posto libero perché io mi metta a correre rischi. Non fosse per questo, signore, sarei molto contenta di venire qui e l’aiuterò volentieri in tutto e per tutto durante la sua permanenza.”
“Brava donna, sono venuto qui con un solo scopo, trovare la solitudine,” replicò subito Malcolmson. “Mi creda, sono grato al fu signor Greenhow per aver organizzato il suo ammirevole ospizio, di qualunque cosa si tratti, in modo da obbligarmi a non cedere a questa forma di tentazione! Lo stesso sant’Antonio non potrebbe essere più rigoroso in proposito!”
L’anziana donna si concesse una risataccia. “Mio giovane signore, vedo che non ha paura di nulla, e credo che troverà tutta la solitudine che cerca.” Dopodiché iniziò a fare le pulizie, e così al tramonto, quando Malcolmson rientrò dalla passeggiata, effettuata come sempre in compagnia di uno dei suoi libri di testo, trovò la stanza spazzata e rassettata, il fuoco che ardeva nel vecchio caminetto, la lampada accesa e la tavola apparecchiata per la cena con le eccellenti pietanze della signora Witham. “Che comodità,” commentò, soffregandosi le mani.
Dopo cena, spostato il vassoio all’altro capo del vecchio tavolone di quercia, prese di nuovo in mano i suoi libri di testo, piazzò altri ciocchi nel fuoco, sistemò la lampada e si accinse a studiare intensamente. Non si concesse una pausa fino a circa le undici, quando si fermò per sistemare il camino e la lampada e prepararsi una tazza di tè. Era sempre stato un gran bevitore di tè, e durante gli anni al college era solito lavorare fino a tardi davanti a una tazza fumante. Ogni attimo di riposo era per lui un gran lusso che si gustava con letizia e voluttà. Il fuoco riattizzato guizzava e sprizzava scintille e gettava ombre strane nel vecchio salone, e così, mentre beveva il tè, Malcolmson si crogiolò nella piacevole sensazione di essere isolato dal prossimo. Fu in quel momento che iniziò a notare per la prima volta il rumore prodotto dai topi.
“Non possono certo aver fatto tanto baccano per tutto il tempo che stavo studiando,” pensò. “Altrimenti me ne sarei accorto!” Poco dopo, quando il rumore aumentò, si tranquillizzò dicendosi che era davvero un fenomeno nuovo. Evidentemente all’inizio i ratti erano intimoriti dalla presenza di un estraneo e dalla luce del camino e della lampada, ma con il passare del tempo s’erano fatti coraggio e adesso scorrazzavano a piacimento.
E quanto ci davano sotto! E che strani rumori! Su e giù dietro i pannelli e lungo il soffitto e sotto il piancito, come correvano e rosicchiavano e grattavano! Malcolmson sorrise tra sé e sé ripensando alle parole della signora Dempster, “i topi sono i babau e i babau sono topi”!
Il tè cominciava a fare effetto come stimolante intellettuale e nervoso. Pregustò lieto altre lunghe ore di lavoro prima dell’alba, e nella tranquillità di spirito che provava si concesse il lusso di dare un’occhiata in giro per la stanza. Con la lampada in mano, esaminò ogni angolino, perplesso perché non capiva come mai una casa così bella e antica fosse rimasta abbandonata tanto a lungo. Gli intagli nei pannelli di quercia che rivestivano le pareti erano finissimi e di grande valore. Ai muri erano appesi quadri antichi, ma talmente incrostati di polvere e sporcizia da non riuscire più a distinguerne i dettagli pur levando più alta che poteva la lampada sopra la testa. Qua e là scorse alcune crepe e numerosi buchi tappati per un istante dal muso di un topaccio i cui occhi scintillavano alla luce prima che sparisse in un lampo, accompagnato dallo scalpiccio delle zampette. Tuttavia la cosa che lo colpì maggiormente fu il cordone della grande campana d’allarme collocata sul tetto, che penzolava in un angolo della stanza, a destra del camino. Malcolmson accostò al focolare una grande seggiola di quercia dall’alto schienale e vi si sedette con l’ultima tazza di tè. Finito di berla, ravvivò il fuoco e tornò a dedicarsi allo studio, seduto a un angolo del tavolo, con il camino alla propria sinistra. Per qualche minuto i ratti lo disturbarono con il loro incessante zampettio, ma alla fine si abituò al rumore, come succede di solito con il ticchettio di un orologio o con il fragore di un torrente. Si immerse a tal punto nel lavoro che il mondo circostante si allontanò fino a sparire, a parte il problema che stava cercando di risolvere.
D’un tratto sollevò il capo, anche se il problema era ancora insoluto. Aleggiava l’atmosfera dell’ora che precede l’alba, così lugubre per le anime poco salde. I roditori avevano smesso di fare rumore. Gli sembrava che fosse appena successo, e fosse stato appunto questo silenzio improvviso a disturbarlo. Il fuoco stava languendo ma ancora emanava un bagliore rosso scuro. Mentre si guardava attorno, lo studente trasalì nonostante il suo sang froid.
Sulla pesante sedia di quercia intagliata dall’alto schienale a destra del camino era acquattato un ratto enorme che lo fissava con occhi malevoli. Lo studente abbozzò un gesto come per cacciarlo, ma quello non si mosse. Poi finse di tirargli contro qualcosa. Ancora nulla, però l’animale sfoderò i grandi denti bianchi in una smorfia di rabbia, e gli occhi crudeli brillarono alla luce della lampada con aumentata animosità.
Malcolmson, sbigottito, afferrò l’attizzatoio del camino e si avventò in avanti per ammazzare la bestia. Ma prima che riuscisse a colpirlo, il ratto, con uno squittio che sembrava un concentrato d’odio, balzò a terra e si arrampicò lungo il cordone della campana, scomparendo nelle tenebre oltre il raggio della lampada dal paralume verde. In quel momento stesso, stranamente, ripartì il rumoroso scalpiccio dei ratti dietro il rivestimento delle pareti.
Ormai Malcolmson s’era staccato mentalmente dal problema insoluto, perciò, quando lo stridulo canto del gallo gli annunciò l’arrivo del giorno, andò a letto.
Dormì talmente sodo che non lo svegliò nemmeno la signora Dempster, entrata per rassettare la sua stanza. Soltanto quando la donna ebbe finito di pulire e preparare la colazione ed ebbe bussato sul paravento attorno al letto, Malcolmson si svegliò, ancora un tantino stanco dopo la nottata di duro lavoro, ma immediatamente rinfrancato da una tazza di tè forte. Poi afferrò il libro e uscì per la passeggiata del mattino, portandosi dietro alcuni tramezzini per non essere costretto a rientrare fino all’ora di cena. Trovò ai margini del paese un tranquillo vialetto di olmi svettanti, nel quale passò la maggior parte della giornata studiando Laplace. Sulla via del ritorno, andò a cercare la signora Witham per ringraziarla della gentilezza. Quando la donna lo vide dal bovindo del suo sancta sanctorum, uscì e gli andò incontro e lo invitò a entrare, scrutandolo attenta, poi disse scuotendo la testa: “Non deve esagerare, signore. Stamattina è più pallido del normale. Troppe nottate e troppo lavoro con il cervello non giovano a nessuno! Ma mi dica, come ha passato la notte? Bene, spero. Però, caro signore, sono stata proprio contenta quando stamane la signora Dempster m’ha detto che quando è entrata stava bene e dormiva sodo”.
“Oh, va tutto bene,” rispose lui sorridente. “I ‘qualcosa’ non m’hanno ancora infastidito. Soltanto i ratti, e hanno fatto un vero can-can dappertutto, garantito. C’era un vecchio demonio dall’aria minacciosa che s’è seduto sulla mia seggiola accanto al fuoco, e non se n’è voluto andare fino a quando ho brandito l’attizzatoio, allora è corso su per il cordone della campana per infilarsi in un nascondiglio imprecisato nel muro o nel soffitto. Non ho visto dove, tanto era buio.”
“Signore, abbi pietà di noi,” disse la signora Witham. “Un vecchio demonio seduto sopra una seggiola accanto al focolare! Stia attento, signore! Stia molto attento! Ci sono tante verità anche quando si parla per celia.”
“Che cosa intende? Parola mia, non capisco proprio.”
“Un vecchio demonio! Quel vecchio demonio, forse. Oh, signore, non si metta a ridere!” disse la donna perché Malcolmson era scoppiato a sghignazzare di cuore e fragorosamente. “Voi giovani fate presto a ridere per le cose che fanno rabbrividire i più vecchi. Non importa, signore, lasciamo perdere! Se Dio vorrà, alla fine riderà da sganasciarsi. Glielo auguro anch’io!” Detto questo, la brava donna accantonò le paure per un attimo e si concesse un sorrisone soddisfatto per la reazione allegra del giovane.
“Le chiedo scusa!” si affrettò a dire Malcolmson. “Non mi prenda per un maleducato, però l’idea è troppo per me. L’idea che il vecchio Satana fosse acquattato bello comodo su quella seggiola ieri notte!” E a ripensarci rise di nuovo, quindi si incamminò verso casa per la cena.
Quella sera il trambusto dei topi iniziò prima, anzi, era già in corso al suo rientro, cessando solo quando i roditori furono disturbati dal suo arrivo. Dopo cena Malcolmson si sedette per un po’ accanto al camino a fumare, quindi, liberata la tavola, iniziò a lavorare come la sera precedente. Quella sera i ratti lo disturbarono di più. Come trottavano sopra e sotto, a destra e a manca! E squittivano e grattavano e rosicchiavano! Inoltre, fattisi poco per volta più arditi, arrivavano all’imboccatura della loro tana e nelle crepe e fessure dei pannelli fin quando i loro occhietti scintillavano come piccole lampade ai guizzi delle fiamme del focolare. Eppure per Malcolmson, senza dubbio ormai abituato, quegli sguardi non erano affatto malevoli, lo colpiva maggiormente la loro giocosità. Talvolta i più coraggiosi azzardavano un’incursione sul pavimento o lungo le modanature dei pannelli. Quando poi lo disturbavano, Malcolmson produceva un suono per spaventarli, dava per esempio una manata sul tavolo o sibilava un aggressivo “ssst, ssst” per farli fuggire dritti filati nelle loro tane.
Così passò il grosso della nottata, con Malcolmson sempre più immerso nello studio nonostante i rumori.
Ma a un certo punto si bloccò di colpo come la notte precedente, angustiato dal silenzio repentino. Non percepiva più il minimo rumoretto di esseri che rosicchiavano o graffiavano o squittivano. Solo un silenzio di tomba. Gli tornò in mente la strana visione della notte prima, e d’istinto si girò a controllare la sedia vicina al caminetto. E fu pervaso da una stranissima sensazione che lo fece fremere.
Sulla grande vecchia seggiola di quercia dall’alto schienale accanto al fuoco era acquattato il medesimo ratto enorme che lo stava fissando ostile.
D’istinto Malcolmson afferrò la prima cosa che trovò a portata di mano, un manuale di logaritmi, e la scagliò. Purtroppo la mira fece cilecca e pertanto il ratto non mosse un muscolo, dopodiché fu replicato l’attacco con l’attizzatoio della notte precedente, e ancora una volta il ratto, vedendo la minaccia in arrivo, se la batté lungo il cordone della campana d’allarme. Stranamente la fuga del roditore fu di nuovo immediatamente seguita dalla ripresa del baccano prodotto dall’intera comunità dei roditori. In questo caso, come nella precedente occasione, Malcolmson non riuscì a vedere in quale punto della stanza fosse sparito il topaccio perché il paralume verde della lampada lasciava al buio la parte superiore della sala, e il fuoco ormai languiva.
Guardando l’orologio, scoprì che era quasi mezzanotte. Niente affatto turbato dal divertissement, riattizzò il fuoco e si preparò il tè notturno. Aveva svolto una notevole mole di lavoro, pertanto decise che si meritava una sigaretta; così si sedette sulla grande seggiola di quercia davanti al fuoco e se la gustò da cima a fondo. Mentre fumava, iniziò a dirsi che non gli sarebbe dispiaciuto scoprire dove andava a rintanarsi il ratto, formulando nel frattempo qualche programmino per l’indomani non troppo estraneo a una trappola per topi. Accese allora un’altra lampada, piazzandola in modo da illuminare a dovere l’angolo della parete a destra del caminetto, quindi recuperò tutti i volumi che aveva e li accumulò a portata di mano per tirarli contro la bestiaccia. Alla fine sollevò il capo del cordone della campana e lo posò in fondo al tavolo, bloccato sotto la lampada. Mentre eseguiva questa operazione, non poté fare a meno di notare quanto fosse morbido e flessibile, soprattutto per essere una fune tanto robusta e poco usata. “Ci si potrebbe impiccare una persona,” pensò. Completati i preparativi, si guardò attorno e disse soddisfatto: “Eccoci qua, amico mio. Mi sa che stavolta imparerò più cose su di te!”.
Ritornò ai libri di studio e, pur essendo come prima un tantino disturbato all’inizio dai rumori dei roditori, presto sprofondò nei suoi problemi ed espressioni.
Fu richiamato di colpo alla realtà circostante. Questa volta non poteva essere stato solo l’improvviso silenzio ad attirare la sua attenzione. La corda dondolava lievemente, e la lampada si stava spostando. Senza muovere un muscolo, Malcolmson controllò che il mucchio di libri fosse alla sua portata, quindi fece scivolare lo sguardo lungo il cordone. E vide il grosso ratto balzare dalla fune sulla sedia di quercia e acquattarsi lì sopra a guardarlo in cagnesco. Lo studente afferrò un volume con la mano destra e prese attentamente la mira, poi lo scagliò contro il ratto. Il quale con un movimento repentino di lato scansò il missile. Lo studente afferrò un altro libro e un terzo, scagliandoli in sequenza contro il ratto, ogni volta senza successo. Alla fine si alzò in piedi con un libro pronto da lanciare quando il ratto squittì, e diede l’impressione di essere terrorizzato. Il che rese Malcolmson ancora più desideroso di colpirlo. Il libro partì e andò a centrare il roditore con un tonfo sonoro. Il ratto emise uno squittio terrorizzato e lanciò al suo aguzzino un’occhiata di una malignità senza limiti, quindi scalò lo schienale della sedia e spiccò un gran balzo fino alla corda, lungo la quale si arrampicò veloce quanto un fulmine. La lampada oscillò a causa del subitaneo strattone, ma essendo pesante non si ribaltò. Nel frattempo Malcolmson non perse di vista il topaccio, e vide alla luce della seconda lampada che il nemico balzava sul profilo di un pannello e spariva entro un buco di uno dei grandi quadri appesi alla parete, un passaggio nascosto e quasi invisibile sotto la patina di polvere e sporco.
“Domattina darò un’occhiata al domicilio del mio amico,” si disse lo studente mentre andava a raccogliere i libri. “Il terzo quadro dal camino, non me lo dimentico di sicuro.” Raccolse uno per uno i volumi, commentando via via che li afferrava: “Sezioni coniche non gli interessa, né i Principia o Quarternioni o Termodinamica. E ora vediamo qual è il libro che l’ha beccato!”. Lo raccolse e lo controllò. E trasalì mentre impallidiva di colpo. Si guardò attorno inquieto, percorso da un lieve brivido, e mormorò tra sé e sé: “La Bibbia che m’ha dato mia madre! Che strana coincidenza”.
Tornò a sedersi per riprendere il lavoro, e i ratti dietro i pannelli ricominciarono a scorrazzare. Tuttavia non lo disturbarono, stranamente adesso la loro presenza gli faceva compagnia. Purtroppo non riuscì a concentrarsi, e così, dopo essersi sforzato di comprendere l’argomento con cui era alle prese, si arrese per la disperazione e andò a dormire mentre la prima striscia luminosa dell’alba filtrava dalla finestra di levante.
Dormì profondamente ma d’un sonno agitato, e sognò parecchio, e quando la signora Dempster lo svegliò sul finire della mattinata parve disorientato e per qualche minuto sembrò non capire esattamente dove si trovava. La sua prima richiesta lasciò a bocca aperta la donna delle pulizie.
“Signora Dempster, oggi mentre sono fuori vorrei che lei prendesse la scaletta per spolverare o lavare quei quadri, soprattutto il terzo dal camino. Voglio vedere che cosa raffigura.”
Nel tardo pomeriggio fu impegnato con i suoi testi lungo il viale ombroso, e ritrovò l’ottimismo del giorno prima con il passare delle ore, anche perché si rendeva conto che lo studio stava procedendo bene. Era arrivato a una soddisfacente soluzione di tutti i problemi che fino a quel momento l’avevano tormentato, ed era perciò di ottimo umore quando andò a far visita alla signora Witham al Buon Viandante. Trovò nel comodo salottino uno sconosciuto che la padrona di casa gli presentò come il dottor Thornhill. La locandiera non sembrava del tutto a suo agio e questo dettaglio, unito alla sfilza di domande del dottore, fece capire a Malcolmson che la presenza del medico non era casuale, pertanto disse senza girare attorno alla questione: “Dottor Thornhill, risponderò con piacere a tutte le domande che mi vorrà porre se prima risponderà lei a una mia domanda”.
Il medico parve colto di sorpresa, ma poi sorrise e rispose immediatamente: “Certo! Che cosa vuole sapere?”.
“La signora Witham le ha chiesto di venire qui a incontrarmi per darmi qualche consiglio?”
Thornhill rimase sconcertato per un attimo, e nel frattempo la signora Witham diventò tutta rossa e si girò dall’altra parte. Tuttavia il medico era una persona sveglia e schietta, perciò rispose subito e senza remore.
“Sì, però non voleva che lei se ne accorgesse. Presumo che sia stata la mia goffa fretta a insospettirla. La signora m’ha spiegato di essere poco contenta del fatto che lei alloggi in quella casa tutto solo, e per giunta ritiene che lei beva troppo tè forte. In pratica, vuole che io le consigli di lasciar perdere il tè e le ore piccole, se possibile. Ai miei tempi sono stato anch’io uno studente scrupoloso, e immagino di potermi prendere la libertà, senza offesa, di darle un consiglio in quanto suo ex collega.”
Malcolmson gli offrì la mano con un bel sorriso. “Qua la zampa, come dicono in America! Devo ringraziare lei e anche la signora Witham per la gentilezza, una cortesia che intendo ricambiare. Prometto che non berrò più tè forte, anzi, niente tè finché non me lo consentirà lei, e che stasera andrò a letto all’una di notte al massimo. Va bene?”
“Fantastico,” rispose il dottore. “Ora ci riferisca tutto quello che ha visto nella vecchia casa.”
E così Malcolmson raccontò seduta stante nei minimi dettagli tutto quanto era successo nelle ultime due notti, interrotto ogni tanto dalle esclamazioni della signora Witham. Quando poi concluse con il lancio della Bibbia, il turbamento della brava donna trovò sfogo in un vero e proprio strillo. La locandiera si riprese soltanto dopo essersi scolata un bel bicchiere di brandy con acqua. Il dottor Thornhill era rimasto in ascolto con un’espressione di crescente serietà sul volto, e quando il resoconto fu completo e la signora si fu ripresa domandò: “Il ratto è sempre salito lungo la corda della campana d’allarme?”.
“Sempre.”
“Immagino sappia di quale tipo di fune si tratta,” fece il dottore dopo una pausa.
“No!”
“È la stessa che usava il boia per tutte le vittime della furia giustizialista del giudice!” disse scandendo attentamente le parole Thornhill, interrotto da un altro strillo della signora Witham, una nuova crisi di nervi che costrinse i due uomini a prodigarsi per farle riprendere i sensi. Malcolmson controllò l’orologio, scoprendo che era quasi ora di cena, pertanto rincasò ancor prima che la locandiera si fosse del tutto ripresa.
Quando la signora Witham fu tornata completamente in sé, tempestò il dottore con una serie di domande rabbiose per capire che cosa gli fosse saltato in mente di ficcare quelle idee orribili nella testa del povero giovane. “Ne ha già più che a sufficienza per uscire fuori dai gangheri,” concluse.
Il dottor Thornhill rispose: “Mia cara signora, avevo uno scopo ben preciso! Volevo attirare la sua attenzione sulla corda della campana, in modo che vi rimanesse fissata. Sarà anche molto esaurito, forse ha studiato troppo, sebbene debba ammettere che sembra il giovanotto più sano e robusto, di mente e di corpo, che abbia mai visto… però quei topi… e la faccenda di quell’essere demoniaco”. Il medico scosse il capo prima di proseguire. “Mi sarei anche offerto di andare a passare la prossima notte con lui, ma ero certo che si sarebbe inalberato. È possibile che di notte gli prenda qualche strano terrore o allucinazione, e se succede voglio che tiri quella corda. Essendo tutto solo ci lancerà di sicuro un allarme, e forse lo raggiungeremo in tempo per essergli utili. Io stanotte rimarrò alzato fino a tardi e terrò le orecchie ben aperte. Non si allarmi se Benchurch avrà una sorpresa prima che sia mattina.”
“Oh, dottore, che cosa intende? Che intende?”
“Intendo questo: è possibile… no, anzi, probabile, che stanotte sentiremo suonare la grande campana d’allarme sul tetto della Casa del giudice.” Dopodiché il dottore fece l’uscita di scena più teatrale che si possa immaginare.
Quando Malcolmson arrivò a casa trovò che era un po’ più tardi del solito, e infatti la signora Dempster se n’era già andata. Alle regole dell’ospizio Greenhow non si transigeva. Fu lieto di vedere che la casa era luminosa e linda, con un bel fuoco allegro e una lampada ben rifornita. Era una serata più fredda di quanto ci si sarebbe aspettati in aprile, e soffiava un vento sostenuto di forza sempre crescente, con tutte le premesse di un temporale durante la notte. I rumori prodotti dai topi erano cessati per qualche minuto dopo il suo ingresso, ma ripresero appena i roditori si furono abituati alla sua presenza. Fu lieto di sentirli perché ancora una volta gli sembrava di avere un po’ di compagnia grazie a quel loro rumore, e tornò con la mente allo strano fenomeno di quelle creature che cessavano di manifestarsi soltanto quando entrava in scena l’altro essere, il grosso ratto dagli occhi malevoli. In quel momento era accesa solo la lampada da lettura sul tavolo, e il suo paralume verde lasciava in ombra il soffitto e la parte superiore della stanza, in modo da rendere più calda e rasserenante l’allegra luce del focolare che si spandeva sul pavimento e si rifletteva sulla candida tovaglia a capo del tavolo. Malcolmson si sedette a cenare di buon appetito e con il morale alle stelle. Dopo aver mangiato ed essersi fumato una sigaretta si tuffò nel lavoro a testa bassa, deciso a non permettere che alcunché lo disturbasse, perché ricordava la promessa fatta al medico ed era deciso a sfruttare nel migliore dei modi il tempo che aveva a disposizione.
“Malcolmson, sbigottito, afferrò l’attizzatoio del camino e si avventò in avanti per ammazzare la bestia. Ma prima che riuscisse a colpirlo, il ratto, con uno squittio che sembrava un concentrato d’odio, balzò a terra”.
Lavorò come si si era augurato per circa un’ora, poi la sua mente cominciò a vagare lontano dai libri, soffermandosi sulle circostanze recenti, sugli appelli a una sua reazione fisica, sul proprio nervosismo. A quel punto le folate di vento erano diventate una vera tormenta, e la tormenta tempesta. La vecchia casa, per quanto solida, sembrava scossa sin dalle fondamenta, e la bufera rombava e infuriava attraverso i numerosi camini e gli antichi e bizzarri abbaini, invadendo con suoni strani, innaturali, le stanze deserte e i corridoi. Persino la grande campana d’allarme sul tetto doveva risentire della forza del vento perché la corda saliva e scendeva un po’, come se la campana si muovesse di tanto in tanto, facendo piombare la corda floscia sul piancito di quercia con un tonfo forte e sordo. Sentendo questo rumore, Malcolmson ripensò alle parole del dottore, “è la stessa che usava il boia per tutte le vittime della furia giustizialista del giudice”, perciò si spostò accanto al camino per prenderla in mano e studiarla. Quell’oggetto sembrava possedere una sorta di fascino letale, e mentre lo studente gli stava accanto si perse per qualche secondo a fantasticare su chi fossero quelle vittime e anche sulla truce scelta del giudice di avere sempre sotto gli occhi quella macabra reliquia. In quel mentre la corda fu di nuovo smossa dal dondolio della campana sul tetto, e trasmise una nuova sensazione, una sorta di tremolio lungo il cordone, come se qualcosa si stesse muovendo lungo la fune.
Malcolmson guardò istintivamente verso l’alto, e vide l’enorme topaccio che scendeva adagio verso di lui, fissandolo minaccioso senza mai distogliere lo sguardo. Lasciò allora cadere la corda e balzò all’indietro con una bestemmia soffocata. In seguito a ciò, il ratto si girò per risalire la fune e sparire di nuovo. In quello stesso istante, Malcolmson si rese conto che il baccano dei roditori, cessato per un po’, era ripartito.
Questo gli diede da pensare, e così gli venne in mente che non aveva ancora cercato la tana del ratto né controllato i quadri come s’era ripromesso. Accese l’altra lampada priva di paralume e, tenendola sollevata, andò ad appostarsi di fronte al terzo dipinto a destra del camino, dove aveva visto sparire il ratto la notte precedente.
Già alla prima occhiata spiccò un altro balzo all’indietro talmente brusco da lasciar quasi cadere la lampada al suolo, mentre il suo viso diventava mortalmente pallido. Le ginocchia stentavano a reggerlo, la fronte era costellata di grosse gocce di sudore, e tremava in ogni fibra del corpo. Però era giovane e impavido, perciò si fece coraggio e dopo qualche secondo tornò davanti al quadro, sollevò la lampada e studiò il dipinto che era stato spolverato e lavato e quindi era adesso perfettamente leggibile.
Raffigurava un giudice in toga scarlatta bordata di ermellino. Il suo volto era forte e spietato, maligno, astuto e vendicativo, con una bocca sensuale, un naso aquilino e rubizzo, adunco come il becco di un uccello predatore. Il resto del viso era di un incarnato cadaverico. Gli occhi emanavano uno strano scintillio, una luce tremendamente maligna. Mentre li osservava, Malcolmson si sentì raggelare perché vi leggeva l’esatto contraltare degli occhi del grande ratto. A momenti la lampada gli cadde di mano quando vide che il topaccio dallo sguardo ostile stava sbirciando dal buco nell’angolo del dipinto, e notò anche che il baccano degli altri topi era cessato all’improvviso. Ugualmente riuscì a tornare lucido e a proseguire l’esame della tela.
Il giudice era seduto sopra una grande seggiola di quercia intagliata dall’alto schienale, alla destra di un enorme focolare di pietra presso il quale, in un angolo, penzolava dal soffitto una corda. Pervaso da una sensazione simile all’orrore, Malcolmson riconobbe la stanza così com’era, e si guardò attorno sbigottito, come se si aspettasse di trovarsi una qualche arcana presenza alle spalle. Poi osservò l’angolo del camino… e allora sì che lasciò cadere la lampada, lanciando un grido assordante.
Sulla sedia del giudice, con la corda che penzolava subito dietro, era acquattato il ratto dagli occhi malevoli del magistrato, adesso ancor più malevoli, le fauci atteggiate a un ghigno diabolico. C’era solo silenzio nella stanza, a parte l’ululare della tormenta.
Il fragore della lampada sfuggita di mano riportò Malcolmson alla realtà. Fortunatamente era un oggetto metallico, pertanto l’olio non s’era versato tutto attorno. La necessità pratica di risistemarla servì a distendere i nervi prossimi alla rottura. Una volta spento il lume, il giovane si asciugò la fronte e rifletté.
“Non va per niente bene,” si disse. “Se continuo così impazzisco. Devo fermare questa storia! Ho promesso al dottore che non avrei più bevuto tè. Davvero, aveva ragione! Mi sa che ho i nervi a pezzi. Strano che non me ne sia accorto prima. Non m’ero mai sentito meglio in vita mia. Comunque adesso è deciso, non sarò più tanto sciocco.”
Dopodiché si preparò un bel bicchierone di brandy allungato e tornò ai suoi libri di studio.
Era passata quasi un’ora quando sollevò il capo dal volume, distratto dal silenzio improvviso. All’esterno, il vento ululava e ruggiva più forte che mai, e la pioggia batteva implacabile contro i vetri, simile a grandine. Invece all’interno della casa nemmeno un suono a parte l’eco del vento che rombava nel grande focolare, e talvolta, durante una pausa nella tormenta, il sibilo di qualche goccia di pioggia penetrata nel camino. Il fuoco era basso: non più tante lingue di fiamma, soltanto un rosso bagliore. Malcolmson ascoltò attento, e poco dopo udì un fine squittio, molto debole. Arrivava dall’angolo della stanza in cui penzolava la corda, e pensò che fosse il fruscio della fune che sfregava contro il piancito, smossa dal dondolio della campana. Però guardando in su vide alla luce fioca il grande ratto che rosicchiava il cordone, tenendovisi aggrappato. La corda era già quasi del tutto sfrangiata, si notava il colore più chiaro dei fili portati allo scoperto. L’operazione fu portata a termine sotto i suoi occhi, e così il cordone tranciato crollò con un colpo secco sul parquet di quercia. Per un istante il grande topaccio rimase aggrappato simile a un grottesco fiocco all’estremità della sezione di corda ancora appesa, che ora cominciava a oscillare a destra e a manca.
Malcolmson provò un’altra fugace fitta di terrore al pensiero che ormai la possibilità di far intervenire qualcuno da fuori a dargli man forte era annullata, terrore subito sostituito da una crisi di rabbia, così afferrò il volume che stava leggendo e lo scagliò contro la bestia. Era un tiro centrato, ma prima che il missile potesse raggiungerlo il ratto si lasciò cadere sul pavimento con un tonfo soffocato. Lo studente corse immediatamente sul posto, ma l’animale sfrecciò via eclissandosi nelle ombre scure della stanza. Malcolmson capì che per quella nottata aveva finito di studiare, pertanto decise di punto in bianco di movimentare la monotonia della serata con una caccia al ratto. Per prima cosa tolse il paralume verde dalla lampada per favorire la più ampia diffusione della luce. Conclusa questa operazione, le tenebre nella parte superiore della sala si dissiparono, e in questa nuova ondata di luce, accecante se raffrontata all’oscurità precedente, i quadri alle pareti divennero chiaramente distinguibili. Dal punto in cui stava, Malcolmson aveva dritto di fronte a sé il terzo dipinto a destra del focolare. Per prima cosa si massaggiò sbalordito gli occhi, poi si sentì pervadere da un terrore insostenibile.
Al centro del dipinto spiccava una grande chiazza irregolare di tela marrone, fresca come quando era stata inchiodata al telaio. Lo sfondo era rimasto uguale, seggiola e camino e corda, ma era scomparsa la figura del giudice.
Malcolmson girò lentamente su sé stesso, rabbrividendo da capo a piedi per l’orrore paralizzante, quindi iniziò a sussultare come se fosse in preda a una crisi epilettica. Aveva la sensazione di essere stato privato di ogni energia ed era ormai incapace di qualsiasi azione o movimento, addirittura di pensare. Poteva soltanto guardare e ascoltare.
Lì, sulla grande sedia di quercia lavorata dall’alto schienale, era assiso il giudice nella sua toga scarlatta bordata di ermellino, gli occhi maligni che dardeggiavano ostili, con un sorriso di trionfo a curvare la bocca risoluta e crudele mentre teneva in mano un cappuccio nero. Lo studente ebbe l’impressione che il cuore gli si svuotasse di tutto il sangue, come succede nei momenti di prolungata tensione. Sentiva una specie di musica nelle orecchie e là fuori il boato e l’ululare della tormenta, lacerati dai rintocchi di mezzanotte delle grandi campane nella piazza del mercato, portati dalla tempesta. Per un lasso di tempo che gli parve infinito rimase immobile come una statua, gli occhi sbarrati per l’orrore, il respiro sospeso. Via via che l’orologio batteva le ore, il sorriso di trionfo sulla faccia del giudice si rafforzò, finché al dodicesimo battito il magistrato si piazzò il tocco nero sulla testa.
Con voluta lentezza, il giudice si alzò dalla sedia e raccolse il frammento di corda della campana d’allarme che giaceva al suolo, lo fece scivolare tra le dita come se ne gustasse il contatto e iniziò adagio ad annodarne un capo in modo da formare un cappio. Alla fine lo strinse e lo saggiò favorire la più ampia diffusione della luce. Conclusa questa operazione, le tenebre nella parte superiore della sala si dissiparono, e in questa nuova ondata di luce, accecante se raffrontata all’oscurità precedente, i quadri alle pareti divennero chiaramente distinguibili. Dal punto in cui stava, Malcolmson aveva dritto di fronte a sé il terzo dipinto a destra del focolare. Per prima cosa si massaggiò sbalordito gli occhi, poi si sentì pervadere da un terrore insostenibile.
Al centro del dipinto spiccava una grande chiazza irregolare di tela marrone, fresca come quando era stata inchiodata al telaio. Lo sfondo era rimasto uguale, seggiola e camino e corda, ma era scomparsa la figura del giudice.
Malcolmson girò lentamente su sé stesso, rabbrividendo da capo a piedi per l’orrore paralizzante, quindi iniziò a sussultare come se fosse in preda a una crisi epilettica. Aveva la sensazione di essere stato privato di ogni energia ed era ormai incapace di qualsiasi azione o movimento, addirittura di pensare. Poteva soltanto guardare e ascoltare.
Lì, sulla grande sedia di quercia lavorata dall’alto schienale, era assiso il giudice nella sua toga scarlatta bordata di ermellino, gli occhi maligni che dardeggiavano ostili, con un sorriso di trionfo a curvare la bocca risoluta e crudele mentre teneva in mano un cappuccio nero. Lo studente ebbe l’impressione che il cuore gli si svuotasse di tutto il sangue, come succede nei momenti di prolungata tensione. Sentiva una specie di musica nelle orecchie e là fuori il boato e l’ululare della tormenta, lacerati dai rintocchi di mezzanotte delle grandi campane nella piazza del mercato, portati dalla tempesta. Per un lasso di tempo che gli parve infinito rimase immobile come una statua, gli occhi sbarrati per l’orrore, il respiro sospeso. Via via che l’orologio batteva le ore, il sorriso di trionfo sulla faccia del giudice si rafforzò, finché al dodicesimo battito il magistrato si piazzò il tocco nero sulla testa.
Con voluta lentezza, il giudice si alzò dalla sedia e raccolse il frammento di corda della campana d’allarme che giaceva al suolo, lo fece scivolare tra le dita come se ne gustasse il contatto e iniziò adagio ad annodarne un capo in modo da formare un cappio. Alla fine lo strinse e lo saggiò facendo un rumore che parve scuotere i muri della casa. Un tremendo rombo di tuono esplose in cielo quando sollevò di nuovo il cappio. Intanto i topi continuavano a correre su e giù lungo il cordone come se si sentissero a corto di tempo. Questa volta, invece di scagliare il lazo, il giudice si avvicinò alla vittima, tenendo il cappio ben aperto. A mano a mano che si accostava, sembrava che ci fosse qualcosa di paralizzante nella sua stessa presenza, e infatti Malcolmson rimase immobile, rigido come una salma. Sentì le dita gelide del giudice sfiorargli la gola mentre aggiustava la corda. Il cappio si strinse… sempre di più. Poi il giudice, tenendo in braccio il corpo irrigidito dello studente, lo collocò in piedi sulla sedia di quercia, quindi gli salì accanto, sollevò un braccio e afferrò il capo oscillante della corda della campana. I ratti scapparono squittendo lontano dalla mano levata e sparirono nel buco nel soffitto. Il giudice afferrò il capo della corda attorno al collo di Malcolmson e lo annodò al cordone sospeso, poi scese e scostò la sedia.
Quando la campana d’allarme della Casa del giudice iniziò a suonare, si radunò immediatamente una folla. Spuntarono luci e torce di tutte le fatte, e poco dopo un corteo silenzioso si avviò trafelato verso la dimora. Bussarono forte al portone, ma nessuno rispose. Allora lo sfondarono e si riversarono nella grande sala da pranzo, preceduti dal dottore.
E lì, appeso al cordone della grande campana di soccorso, penzolava il corpo dello studente. Sulla faccia del giudice immortalato nel quadro spiccava un sorriso malevolo.
Questo racconto è estratto da Il creatore delle ombre e altri racconti macabri di Bram Stoker. Ringraziamo © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano per la gentile concessione.
Bram Stoker
Bram Stoker (Dublino 1847 – Londra 1912) scrittore irlandese. Autore di vari romanzi e novelle, deve la sua fama al romanzo Dracula (1897), considerato uno dei grandi classici dell’orrore.
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