Camilla Capasso
La storia della prima multinazionale moderna (oggi Chiquita), è una storia di potere, sopraffazione e avidità. Dietro alla banane che consumiamo ogni giorno, ci sono il sangue di molti lavoratori, il crollo di governi democratici e un diffuso senso di ingiustizia che è ancora tristemente vivo.
Dovevano essere trascorse diverse ore dal massacro, perchè i cadaveri avevano la stessa temperatura del gesso in autunno, e la sua stessa consistenza di schiuma pietrificata, e coloro che li avevano messi nel vagone avevano avuto il tempo di stivarli nell’ordine e nel senso con cui si trasportano i caschi di banane.
Gabriel García Márquez , Cent’anni di solitudine
Quando Gabriel García Márquez pubblicò Cent’anni di solitudine, nel 1967, erano passati poco meno di quarant’anni dal giorno in cui l’esercito colombiano aveva sparato ai coltivatori di banane della United Fruit Company in sciopero a Ciénaga, uccidendoli. Eppure, già allora, quel massacro aveva tutte le caratteristiche di un ricordo dai contorni poco definiti, lontano nel tempo, evanescente. A onor del vero, il Massacro delle Banane del 1928 – come lo si chiamò in seguito – non fece mai in tempo ad assumere contorni netti, tanto fu lo zelo con cui il governo colombiano insabbiò l’accaduto. Ancora oggi, quasi un secolo dopo, l’entità del massacro rimane inafferrabile, le vittime un numero incalcolabile tra 47 e 2.000, e dimenticato.
Ci sono molti avvenimenti nella storia della United Fruit Company, oggi Chiquita Brands International, che presentano caratteristiche simili. Nonostante sia stata raccontata più e più volte, quella della più potente multinazionale del Ventesimo secolo è una storia che non si è mai davvero sedimentata nel dibattito pubblico. Forse perché riportare alla luce quella memoria significherebbe confrontarsi non con uno, ma con molteplici massacri. E non solo: anche con lo sfruttamento di migliaia di lavoratori nelle piantagioni torride del Centro America, con intrighi e macchinazioni politiche che hanno spodestato i governi di nazioni sovrane, addirittura con un genocidio. Tutto in nome delle banane, ma soprattutto del potere.
“Nonostante sia stata raccontata più e più volte, quella della più potente multinazionale del Ventesimo secolo è una storia che non si è mai davvero sedimentata nel dibattito pubblico”.
Un’altra ragione, forse, di questo oblio è che quello che la United Fruit Company riuscì a creare, con il benestare degli Stati Uniti, è un modello di multinazionale che esiste ancora oggi e che continua ad agire con modalità spaventosamente simili a quelle di un secolo fa. Significherebbe ammettere che oggi, come allora, la nostra memoria è labile o molto selettiva. È per questo, per la sua profonda attualità, che la vicenda di Chiquita (e della sua antenata United Fruit Company) merita ancora di essere raccontata.
Tutto inizia non con le banane, ma con la costruzione – nel 1871 – della ferrovia tra San José, capitale della Costa Rica, e il porto di Limón, a opera dell’imprenditore americano Henry Meiggs. I frutti arrivarono solo anni dopo quando, alla morte di Meiggs, il nipote Minor Keith decise di piantare banani lungo il tracciato dei binari per nutrire a basso costo gli operai che lavoravano alla ferrovia. Tra loro, anche duemila operai piemontesi che Keith aveva assunto perchè insoddisfatto della manodopera locale, ma che, provati dalle misere condizioni di lavoro, finirono invece per organizzare quello che fu – con ogni probabilità – il primo sciopero della storia della Costa Rica, prima di darsi alla fuga.
Per arrotondare, mentre la ferrovia era ancora in costruzione, Keith cominciò a importare le banane, allora ancora completamente sconosciute, negli Stati Uniti ottenendo in poco tempo un discreto successo. Quando finalmente la ferrovia venne completata, nel 1890, si rivelò però un’opera pressoché inutile per il trasporto passeggeri, perché l’effettivo numero di viaggiatori tra San José e Limón non giustificava un regolare traffico ferroviario. Ma a quel punto poco importava: Keith aveva le banane – piantagioni intere di banane – un treno che poteva trasportarle verso uno dei più grandi porti della regione e un nascente mercato negli Stati Uniti pronto a riceverle. Quando, poco tempo dopo, Keith sposò la figlia dell’allora Presidente della Costa Rica, il Paese divenne di fatto suo. Nel 1899 nacque la United Fruit Company.
Nei primi decenni del Ventesimo secolo, la United Fruit Company crebbe velocemente, accaparrandosi avidamente terreni del Centro e Sud America: Costa Rica, Colombia, Guatemala, Honduras, Cuba, Panama. Nel 1930, l’azienda possedeva 1,5 milioni di ettari di terreno in tutta l’America Latina e controllava circa 15 mila chilometri di ferrovie, molte delle quali costruite e pagate dai Paesi stessi.
Il giornalista Peter Chapman, nel suo libro Bananas!, descrive la United Fruit Company come “il primo modello capitalista della multinazionale moderna”. I segnali, in effetti, c’erano tutti. Già a inizio secolo, in Guatemala, la United Fruit Company controllava il sistema postale, la radio e la società telegrafica, oltre a essere anche il maggiore proprietario terriero del Paese. A San Josè, in Costa Rica, aveva realizzato le linee del tram e installato il primo sistema di illuminazione elettrica stradale. I suoi ospedali, costruiti per assistere i dirigenti statunitensi in visita alle piantagioni (non certo i lavoratori), arriveranno a costituire il più grande sistema sanitario privato del mondo.
Foto di Carlos Gasparotto
E poi c’era la Great White Fleet (La Grande Flotta Bianca), così chiamata perché le sue navi, dipinte di bianco, riflettevano il sole mantenendo fresco il prezioso carico di banane destinate agli Stati Uniti. Prima utilizzate solo a scopo commerciale, intorno al 1930 le navi della Grande Flotta Bianca cominciarono a essere impiegate anche per organizzare sfavillanti crociere caraibiche, trasportando gruppi di turisti desiderosi di visitare i paesi esotici da cui proveniva quel frutto dolcissimo.
Quando, qualche anno più tardi, due di quelle stesse navi sbarcarono a Cuba, lo fecero però per ragioni molto diverse. Era il 17 aprile 1961, e gli Stati Uniti si stavano preparando a invadere l’isola nel tentativo di rovesciare il governo di Fidel Castro. Quel giorno, alla Baia dei Porci, mentre il mondo pareva vicino all’olocausto nucleare, c’era anche la United Fruit Company con le sue navi, disposta a tutto pur di non lasciare che la rivoluzione castrista ne intaccasse l’egemonia.
Non era la prima volta, e non sarebbe stata l’ultima, che la United Fruit Company ricorreva a misure estreme e violente per difendere i propri interessi. D’altra parte, aveva da sempre goduto di una certa immunità, se non formale, sicuramente di fatto. Anche quando gli Stati Uniti iniziarono a regolamentare le attività aziendali, fu presto chiaro che le regole imposte su territorio americano non sarebbero valse per le operazioni oltre confine.
Già nel 1928, quando i coltivatori di banane della United Fruit Company erano stati massacrati dall’esercito colombiano per aver osato chiedere contratti di lavoro più dignitosi, non c’erano state conseguenze. Al contrario: qualche giorno dopo il massacro, l’ambasciata statunitense aveva inviato un telegramma elogiando la rapidità con cui l’esercito aveva affrontato i “pericolosi” scioperanti.
Nel 1932, in Costa Rica, quando 100.000 lavoratori si erano organizzati per chiedere riforme contrattuali e condizioni di lavoro migliori, era stato mandato l’esercito a reprimere violentemente gli scioperi. Alla fine degli scontri, la United Fruit Company aveva accettato solo parzialmente le richieste dei lavoratori, stabilendo un salario minimo e fornendo loro alloggi adeguati e kit di pronto soccorso. Anche se lo sciopero contribuirà poi a consolidare il movimento sindacale in Costa Rica, nessuno ha mai pagato veramente per le violenze che i lavoratori avevano subìto.
“Già nel 1928, quando i coltivatori di banane della United Fruit Company erano stati massacrati dall’esercito colombiano per aver osato chiedere contratti di lavoro più dignitosi, non c’erano state conseguenze”.
Washington, però, non si limitava solo a chiudere un occhio: più spesso, la United Fruit Company poteva contare sulla complicità del governo americano e della CIA per il controllo politico ed economico della regione. Il termine Repubblica delle banane – coniato proprio in quegli anni – descrive, di fatto, il risultato di questa alleanza e dello strapotere esercitato dalla United Fruit Company in America Latina: Stati politicamente deboli e corrotti, proni agli interessi economici di multinazionali straniere.
Nel frattempo, negli Stati Uniti, sulle note caraibiche del jingle Chiquita, una delle più famose trovate commerciali della United Fruit Company, le banane facevano bella mostra sulle tavole di tutti gli americani. Nel 1950 il consumo di banane negli Stati Uniti aveva superato quello di qualsiasi altro frutto.
In Guatemala, intanto, qualcuno cercava di ristabilire gli equilibri democratici per la prima volta da quando la United Fruit Company aveva messo le mani sulla maggior parte dei terreni del Paese. Dopo anni di incertezza politica, in Guatemala era salito al potere un presidente democraticamente eletto, Jacobo Arbenz, che attuò da subito una serie di riforme sociali con l’obiettivo di rafforzare i sindacati e concedere maggiori diritti ai lavoratori.
Nel tentativo di ottenere indipendenza economica dagli Stati Uniti, Arbenz avviò una riforma agraria per espropriare le terre non coltivate della United Fruit Company, offrendo in cambio all’azienda 1,2 milioni di dollari. Fin dall’inizio delle attività in Guatemala, la United Fruit Company aveva deciso di coltivare solo una parte relativamente piccola dei terreni di sua proprietà; il resto serviva principalmente ad impedire che potessero appartenere ad altri eventuali concorrenti, che fino ad allora non c’erano comunque mai stati. Temendo di perdere i propri privilegi nel Paese, però, la United Fruit Company, con l’aiuto della CIA, cercò di convincere l’amministrazione statunitense che Arbenz fosse un simpatizzante comunista, e quindi una minaccia per il Paese. Erano gli anni del maccartismo e della caccia alle streghe: le accuse trovarono terreno fertile.
Nel giugno del 1954, il governo statunitense autorizzò la CIA a finanziare un colpo di stato con l’intento di rovesciare il governo guatemalteco. Tutto ciò che ne seguì – la fuga di Arbenz in Messico, l’istituzione di una dittatura favorevole al controllo economico statunitense, la guerra civile, lo sterminio del popolo Maya che cercò, suo malgrado, di resistere alla dittatura – avvenne perché la United Fruit Company non voleva rischiare di perdere il proprio potere economico. Morirono 200.000 persone, più dell’80% delle quali appartenenti al popolo indigeno Maya. La guerra civile durerà 36 anni.
Foto di Carlos Gasparotto
Non fu il primo colpo di stato a cui partecipò la United Fruit Company (c’era stato l’Honduras anni prima) e non sarà l’ultimo (ci sarà Cuba poco dopo). Ma il golpe in Guatemala è uno dei momenti nella storia della United Fruit Company la cui portata è talmente grande che forse è ancora oggi difficile da comprendere appieno.
Nei decenni che seguirono, la United Fruit Company dovrà affrontare grossi cambiamenti che ne metteranno in crisi le attività. Ammaccata, ridimensionata, riuscirà infine a riemergere dalle proprie ceneri e, seppur senza raggiungere più le vette di potere di cui aveva goduto nella prima metà del Ventesimo secolo, cambierà forma e nome ma continuerà ad esistere, non meno determinata e pericolosa di prima.
Nel frattempo, gli anni Sessanta erano iniziati non senza problemi. A Cuba, dopo il fallimento del colpo di stato americano, Castro aveva nazionalizzato i possedimenti della United Fruit Company, stabilendo un precedente pericoloso. Poco dopo, la Costa Rica aveva approvato una legge che obbligava la United Fruit Company ad aumentare notevolmente i salari. Qualche anno prima, un’epidemia aveva quasi azzerato la produzione commerciale di banane qualità Gros Michel, infliggendo alla multinazionale danni economici enormi e costringendola a passare ad altre qualità, più resistenti alla malattia. Nacque così la qualità Cavendish che oggi costituisce il 95% della produzione mondiale.
Il danno maggiore, però, venne inflitto dagli stessi Stati Uniti, con l’approvazione di un pacchetto di leggi che dava al governo americano il potere di controllare le attività delle imprese statunitensi all’estero. In questo modo, gli Stati Uniti potevano perseguire le azioni illegali di un’azienda, anche se tali azioni erano legali nel paese in cui l’azienda operava. Nel 1975, sotto la guida del nuovo CEO Eli Black, la United Fruit Company venne accusata di aver corrotto il presidente honduregno, pagandolo 2,3 milioni di dollari per ridurre le tasse sull’esportazione delle banane. Questa volta il caso esplose davvero. Il 3 febbraio di quell’anno, Eli Black morì dopo essersi gettato dal 44° piano del suo ufficio. L’azienda si trovò senza un leader e con grossi problemi legali da affrontare. Le tangenti erano state versate anche ad altri Paesi, sia in America Latina che in Europa, ma questo verrà alla luce in un secondo momento.
Sembrava che la fine del secolo dovesse coincidere con il tramonto della United Fruit Company. Non fu così. Dieci anni dopo la morte di Black, il miliardario Carl Lindner assunse le redini dell’azienda e ne cambiò il nome da United Fruit Company a Chiquita Brands International, come il famosissimo jingle che aveva contribuito a renderla immortale negli anni Quaranta.
In un secolo di storia, iniziata lungo i binari di una ferrovia inutile tra San José e Limón, le banane, da frutti esotici e misconosciuti quali erano, sono diventate il frutto più consumato al mondo. Chiquita continua a trainare il mercato globale, che ora condivide con altre multinazionali tra cui Dole e Del Monte.
Tutto è cambiato e molto è rimasto uguale: i lavoratori nelle piantagioni di banane sono tra i più esposti agli effetti nocivi dei pesticidi e al rischio, altissimo, di contrarre tumori, problemi al fegato, infertilità e danni al sistema nervoso. Sono anche quelli che, in media, continuano a guadagnarci di meno, tra il 5-9% del valore totale delle banane, mentre i rivenditori riescono ad accaparrarsi tra il 36-43%. Le violenze nei confronti di lavoratori e sindacalisti, poi, non sono mai davvero cessate: quello che accadeva nel secolo scorso, continua ad accadere oggi, in modo pressoché identico.
A Panama, l’8 luglio 2010, l’allora presidente Ricardo Martinelli ordinò la repressione violenta degli scioperi indetti dai sindacati del settore bananiero, che si battevano per ottenere stipendi più alti e contro la cosiddetta ley chorizo, una legge che avrebbe limitato il diritto di sciopero. Due lavoratori del sindacato, Antonio Smith e Virgilio Castillo, vennero uccisi negli scontri e oltre 700 braccianti rimasero feriti, molti dei quali in maniera permanente: alcuni sono rimasti completamente ciechi, altri, più fortunati, hanno riportato solo gravi lesioni agli occhi. Le immagini e le storie di Changuinola – quelle che accompagnano questo articolo – sono state raccolte in un libro firmato dal fotografo italo-argentino Carlos Gasparotto e intitolato Banana. È un progetto artistico che racconta efficacemente, senza didascalie, una città che due anni dopo i fatti cerca ancora di riprendersi da una delle più violente repressioni sindacali che avesse mai conosciuto. La trama di quella vicenda suona familiare: piantagioni di banane, lavoratori in sciopero, un governo che difende gli interessi di Chiquita, repressioni violente.
Foto di Carlos Gasparotto
A giugno del 2024, un tribunale federale statunitense ha emanato una sentenza storica nei confronti di Chiquita, a cui è stato imposto di risarcire le famiglie di otto uomini uccisi da un gruppo paramilitare colombiano che l’azienda aveva finanziato tra il 1997 e il 2004. Ė un tassello importante di questa storia, ma non ancora quello che ne sancirà la fine. Di certo, è un piccolo elemento di speranza in una storia di ingiustizie, sopraffazione e avidità.
Le foto presenti in questo articolo sono tratte dal libro Banana di Carlos Gasparotto e MEDUSA
Camilla Capasso
Camilla Capasso scrive di cambiamenti climatici, accesso alla terra e sicurezza alimentare per organizzazioni internazionali, ONG e agenzie delle Nazioni Unite.
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