La Shoah attraverso le foto di chi l'ha vissuta - Lucy
articolo

Vanessa Roghi

La Shoah attraverso le foto di chi l’ha vissuta

La storica Laura Fontana mette a punto uno studio straordinario sulle fotografie della Shoah, chiedendosi chi le ha scattate, in che condizioni, dove sono state ritrovate e come sono state interpretate nel corso della Storia.

Capita di usare o di sentir usare l’espressione: una fotografia del paese reale. Di dire di qualcuno che ha una memoria fotografica come sinonimo di dettagliato, esatto, incontrovertibile.

Retaggio di una fiducia antica nella capacità della fotografia di riprodurre la realtà, che ha informato di sé il senso comune per gran parte del Novecento, fin quando la consapevolezza della possibilità di manipolare le immagini ha ottenuto l’effetto opposto: da vedere per credere siamo passati a vedere per dubitare. Una parabola, questa, ben conosciuta da chi studia il rapporto fra fotografia (ma anche cinema) e verità storica. In questa prospettiva, paradigmatico risulta essere lo studio delle immagini della Shoah e il loro impatto sull’immaginario storico contemporaneo. Un immaginario sempre più ricco di immagini del passato e sempre meno in grado di decifrarle.

Per questo risulta prezioso lo studio di Laura Fontana: Fotografare la Shoah. Comprendere le immagini della distruzione degli ebrei (Einaudi, 2025), un libro nel quale la storica ha deciso di accogliere la sfida metodologica e storiografica che si cela dietro questo tipo di fonti. Fontana si è chiesta innanzitutto cosa stiamo vedendo quando guardiamo una di queste foto. E ancora: chi ha scattato le foto dello sterminio degli ebrei, in quali condizioni di legittimità o pericolo, come, a partire anche dalle condizioni dello scatto, sono state diffuse, ritrovate, e quale è il valore che è loro attribuito nel lungo dopoguerra che ha fatto della Shoah una delle pietre angolari della memoria storica dell’Occidente.

“Nonostante perduri l’idea che la Soluzione finale sia stato un crimine commesso nel segreto assoluto, in luoghi remoti e impenetrabili dell’Europa dell’Est, e tenuto nascosto dai suoi perpetratori affinché rimanesse una pagina bianca senza immagini”, scrive Laura Fontana, “in realtà la Shoah è stato uno degli eventi piú documentati della storia del Novecento”.

La Shoah attraverso le foto di chi l’ha vissuta - Dall’Album Niemann. Johann Niemann, primo da destra, posa col comandante Franz Reichleitner, primo sinistra, con Erich Bauer, responsabile delle camere a gas, al centro con il braccio attorno al collo di una donna polacca in servizio come lavoratrice civile nel campo, ed Erich Schulze, responsabile, tra altri compiti, dello Strafkommando («squadra di punizione»). La fotografia e scattata sul patio della sala da pranzo delle SS (SS Kasino) a Sobibór, nell’estate 1943. <br />
Washington, United States Holocaust Memorial Museum. (Foto courtesy del Museo).<br />

Dall’Album Niemann. Johann Niemann, primo da destra, posa col comandante Franz Reichleitner, primo sinistra, con Erich Bauer, responsabile delle camere a gas, al centro con il braccio attorno al collo di una donna polacca in servizio come lavoratrice civile nel campo, ed Erich Schulze, responsabile, tra altri compiti, dello Strafkommando («squadra di punizione»). La fotografia e scattata sul patio della sala da pranzo delle SS (SS Kasino) a Sobibór, nell’estate 1943.
Washington, United States Holocaust Memorial Museum. (Foto courtesy del Museo).

Milioni di fotografie, realizzate dai nazisti in primo luogo, ma anch’essi con finalità diverse: amministrative, pornografiche, perché di pornografia del dolore si tratta, ma anche familiari là dove le SS hanno ritratto la loro vita quotidiana, spesso con la famiglia, ai margini dei campi.

E ancora: scatti di ebrei incaricati nei ghetti di documentare la vita quotidiana, o di eroici internati nei lager che sono riusciti a lasciarci, a rischio della loro stessa vita, le immagini più vicine al momento finale, quello delle camere a gas. Tutte fanno parte di un patrimonio documentale che, incrociato con fonti diverse, contribuisce a rendere la storia dell’evento Shoah più comprensibile e, per questo, ancora più atroce. Ma su questo punto tornerò più avanti.

Prima occorre descrivere per sommi capi quali sono i nuclei fotografici che Fontana ci racconta nel suo saggio. Con una doverosa premessa: molte delle foto che la studiosa analizza in questo volume non rientrano nell’iconografia classica della Shoah, quella per intendersi dei cumuli di cadaveri e di scarpe e di capelli, o degli uomini e donne scheletrici dietro un filo spinato.

La Shoah attraverso le foto di chi l’ha vissuta - Werner «Fritz» Fürstenberg riprende la sua fidanzata Käthe Smoszewski e il cane accanto al cartello che all’ingresso della città di Lubecca indica: «Gli ebrei qui non sono i benvenuti». Fotografia realizzata durante l’estate 1935.  <br />
Berlino, Museo ebraico, collezione della famiglia Fürstenberg. (Foto courtesy del Museo).

Werner «Fritz» Fürstenberg riprende la sua fidanzata Käthe Smoszewski e il cane accanto al cartello che all’ingresso della città di Lubecca indica: «Gli ebrei qui non sono i benvenuti». Fotografia realizzata durante l’estate 1935.
Berlino, Museo ebraico, collezione della famiglia Fürstenberg. (Foto courtesy del Museo).

Perché quella è sola la fine della storia, una storia che inizia molto prima, al momento dell’approvazione delle leggi razziali che rendono alcuni cittadini, cittadini di serie B, e in quanto tali, predisposti a subire angherie, reclusione, deportazione, morte.

Per questo prima delle immagini della morte ci sono quelle degli “orsi dello zoo di Treblinka dell’album del comandante Kurt Franz, il figlioletto di Karl Otto Koch, sadico comandante di Buchenwald, che gioca teneramente nella neve coi genitori, il ritratto di un anonimo fotografo ebreo che riprende al sole sei giovanissime ragazze ebree in costume da bagno nel ghetto di Varsavia, pochi giorni prima della deportazione per Treblinka”.

Le foto scattate dai nazisti. La mole più consistente di fotografie che ritraggono lo sterminio degli ebrei d’Europa è ovviamente prodotta dai perpetratori stessi. Una banalità che però è sfuggita a lungo a chi queste immagini le ha usate non solo per illustrare testi scolastici, ma anche produrre documentari per la televisione: questo è accaduto e continua ad accadere anche con le immagini prodotte dall’Istituto Luce durante il fascismo, per esempio. A maggior ragione le fotografie delle violenze o quelle che ritraggono l’esito delle violenze stesse, che colgono quindi il soggetto in un momento di estrema sofferenza, fragilità e morte devono essere raccontate, come fa Fontana in questo libro, a partire da una precisa contestualizzazione che porta con sé una domanda: “Perché per raccontare la storia delle vittime e dei crimini commessi dobbiamo limitarci a osservare i fatti attraverso la prospettiva dei perpetratori e la loro visione distorta dell’umanità?”.

La Shoah attraverso le foto di chi l’ha vissuta - Hans Biebow posa per Walter Genewein nel ghetto di Łodź, con in primo piano uno degli internati e sullo sfondo un gruppetto di poliziotti ebrei. <br />
Francoforte, Museo ebraico. (Foto courtesy del Museo).<br />

Hans Biebow posa per Walter Genewein nel ghetto di Łodź, con in primo piano uno degli internati e sullo sfondo un gruppetto di poliziotti ebrei.
Francoforte, Museo ebraico. (Foto courtesy del Museo).

Questo è avvenuto e continua ad avvenire innanzitutto per la loro iconicità semplificata: in queste fotografie il male è rappresentato con grande chiarezza e senza mezzi termini. Incalcolabile è il numero esatto di fotografie ritrovate dopo la guerra, anche in anni recenti, “di ebrei ripresi mentre vengono offesi, picchiati, costretti a guardare diritto verso l’obiettivo mentre attendono il colpo di grazia, o giacciono moribondi per la crudeltà del trattamento ricevuto dall’occupante nazista. Custodite con cura e fierezza come souvenir o trofei di guerra, duplicate e scambiate nei mercatini dei militari tedeschi, inviate a casa alla famiglia accompagnate da bigliettini affettuosi o racconti emozionanti, sono immagini che rivelano la personalità dei perpetratori e che indagano le loro motivazioni per agire, partecipare e riprendere la violenza”.

Ma è moralmente accettabile e storicamente corretto continuare ad affidare soltanto a queste immagini la costruzione della memoria pubblica dell’evento?

Anche se conoscessimo una sola immagine proveniente da una fonte alternativa, insiste Fontana, è dovere dello storico studiarla, metterla in relazione con l’iconografia esistente e farla conoscere.

Le foto scattate dagli ebrei, fuori e dentro i lager. Le altre fotografie esistono, del resto. Le immagini prodotte dalle vittime ci sono, rare, ma anche per questo assai più preziose, come i quattro scatti realizzati nell’estate 1944 da un piccolo gruppo di prigionieri ebrei del Sonderkommando di Auschwitz. Foto prese di nascosto, in movimento, dall’interno di una baracca, fissano sulla pellicola un frammento delle operazioni di sterminio che avrebbe dovuto rimanere un segreto. “Un’azione che oltrepassa il risultato di ciò che la macchina riesce a catturare. Concentrarsi su cosa manca o cosa è sfocato, lamentando l’imperfezione della ripresa e i difetti di inquadratura, ci impedisce di comprendere che una fotografia non è mai soltanto quello che mostra, ma è soprattutto quello che le ruota attorno ed è nascosto alla vista”. 

La Shoah attraverso le foto di chi l’ha vissuta - Fotografia scattata dal Sonderkommando nell’estate 1944 a Birkenau. Oświęcim, Museo Auschwitz-Birkenau. (Foto © The Archive of The State Museum Auschwitz-Birkenau).<br />

Fotografia scattata dal Sonderkommando nell’estate 1944 a Birkenau. Oświęcim, Museo Auschwitz-Birkenau. (Foto © The Archive of The State Museum Auschwitz-Birkenau).

Poi ci sono gli scatti di due fotografi ebrei Henryk Ross e Mendel Grossman, presi nel ghetto di Lodz, in Polonia. Entrambi al servizio del Consiglio ebraico che gestisce la vita nel Ghetto per conto delle autorità naziste, Ross e Grossman sono stati gli unici ebrei a poter circolare dentro il Ghetto con la macchina fotografica. Le loro fotografie si affiancano a quelle di Walter Genewein, contabile nazista che documenta con migliaia di scatti l’organizzazione del lavoro ma anche la vita quotidiana di chi, come lui, si sta arricchendo grazie al lavoro in schiavitù di migliaia di esseri umani. Perché la macchina dello sterminio ha avuto anche questo di aspetto, quello del lavoro forzato, come parte integrante e non secondaria di un sistema concentrazionario che non ha esitato un attimo a mandare alle camere a gas migliaia di bambini di Lodz quando, a guerra inoltrata, la loro sopravvivenza avrebbe rappresentato solo un problema di risorse alimentari.

La Shoah attraverso le foto di chi l’ha vissuta - Bambini destinati a essere deportati sono rinchiusi nella prigione centrale del ghetto di Łódź, nel settembre 1942, mentre i famigliari dicono loro addio. Fotografia realizzata da Henryk Ross. <br />
Toronto, Art Gallery of Ontario. (Foto courtesy del Museo).<br />

Bambini destinati a essere deportati sono rinchiusi nella prigione centrale del ghetto di Łódź, nel settembre 1942, mentre i famigliari dicono loro addio. Fotografia realizzata da Henryk Ross.
Toronto, Art Gallery of Ontario. (Foto courtesy del Museo).

Non esiste contraddizione fra questo sterminio programmato e il fatto che per Genewein le fotografie servono per “per legittimare agli occhi di Himmler – che mirò sempre come finalità allo sterminio – la necessità di tenere in vita alcuni ghetti al fine dello sfruttamento del lavoro che ne potevano trarre”. Per Ross e Grossman, invece, da un lato c’è l’esigenza di rappresentarsi fuori dallo sterotipo antisemita di manifesti e pubblicazioni di regime, dall’altro di fingere che quello che si sta vivendo sia transitorio e che finirà e che quindi, le fotografie scattate alle scene private delle famiglie ebree nel ghetto, diventeranno una testimonianza di nascite, fidanzamenti, feste, matrimoni, in tempi difficili. 

Poi ci sono le fotografie (e i filmati) prodotte dagli Alleati sovietici e anglo-americani al loro ingresso nei campi di concentramento. Majdanek, Auschwitz, Dachau, Buchenwald o Bergen-Belsen, sono stati ampiamente fotografati al momento della loro liberazione da reporter professionisti al seguito degli eserciti liberatori.

La Shoah attraverso le foto di chi l’ha vissuta - Prigioniero affetto da dissenteria, moribondo a Buchenwald, in una fotografia di Éric Schwab di aprile 1945. <br />
Parigi, Mémorial de la Shoah (Foto courtesy del Mémorial).<br />

Prigioniero affetto da dissenteria, moribondo a Buchenwald, in una fotografia di Éric Schwab di aprile 1945.
Parigi, Mémorial de la Shoah (Foto courtesy del Mémorial).

Usate come prove nei processi contro i nazisti, a partire dal più noto, quello di Norimberga, sono quelle che conosciamo meglio, che anche oggi vedrete nei telegiornali, nei programmi di storia, in rete. Sono le immagini prova di ciò che è accaduto, ma anch’esse vanno maneggiate con cura: i cumuli di cadaveri di Buchenwald sono quelli di morti di tutti tipi, politici e ebrei, ridotti alla fame, e lasciati morire nei campi di lavoro. Quello che resta a Auschwitz è solo cenere.

La Shoah attraverso le foto di chi l’ha vissuta - L’ingresso di Auschwitz-Birkenau, nel febbraio/marzo 1945, in una fotografia di Stanisław Mucha.<br />
L’inquadratura è dall'interno verso l’esterno.<br />
Oświęcim, Museo Auschwitz-Birkenau. (Foto © The Archive of The State Museum Auschwitz-Birkenau).

L’ingresso di Auschwitz-Birkenau, nel febbraio/marzo 1945, in una fotografia di Stanisław Mucha.
L’inquadratura è dall’interno verso l’esterno.
Oświęcim, Museo Auschwitz-Birkenau. (Foto © The Archive of The State Museum Auschwitz-Birkenau).

Scrivevo all’inizio che la conoscenza, lo studio di queste fotografie rende la Shoah più comprensibile e quindi ancora più atroce. Isolare l’atrocità in una foto iconica ci rende più semplice concepire la macchina dello sterminio che possiamo circoscrivere in un momento specifico e non immaginare come parte di una complessa organizzazione che coinvolge tutti, anche coloro che vi assistono.

Scrive Fontana: “Fino a tre anni fa, della deportazione dal Reich di piú di 200000 ebrei tedeschi si conoscevano solo poche centinaia di fotografie, scattate dalla polizia e dalle autorità locali e per lo piú in piccole città della Germania. Inspiegabilmente, nonostante la documentazione sulla persecuzione antisemita di provenienza nazista sia molto abbondante e meticolosa, un capitolo cosí importante della storia della Shoah risultava quasi una pagina sfocata dal punto di vista iconografico”. Solamente nell’ottobre 2021, un progetto internazionale intitolato #LastSeen che potremmo tradurre con “visti per l’ultima volta” ha portato alla luce una serie di fotografie della deportazione che ci mostrano fra le altre cose, una: il fatto che le deportazioni vengono fatte alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, che assistono curiosi alla privazione di ogni diritto al vicino di casa, il compagno di scuola, il collega di lavoro.

Sterminare un popolo non lo si può fare in segreto, la fotografia della Shoah rende visibile quanta indifferenza, complicità, o coinvolgimento da parte dei civili c’è voluto per ottenere il risultato di sterminare 6 milioni di ebrei, questo, più di ogni altra cosa non dobbiamo dimenticarlo mai.

La Shoah attraverso le foto di chi l’ha vissuta - Due bambini ebrei giocano a «caccia all’ebreo» nel ghetto di Łódź, in una fotografia di Henryk Ross, realizzata tra il settembre 1942 e il 1944. <br />
Toronto, Art Gallery of Ontario. (Foto courtesy del Museo). <br />

Due bambini ebrei giocano a «caccia all’ebreo» nel ghetto di Łódź, in una fotografia di Henryk Ross, realizzata tra il settembre 1942 e il 1944.
Toronto, Art Gallery of Ontario. (Foto courtesy del Museo).


Vanessa Roghi

Vanessa Roghi è storica, saggista, autrice e ricercatrice indipendente. Il suo ultimo libro è Un libro d’oro e d’argento. Intorno alla «Grammatica della fantasia» di Gianni Rodari (Sellerio, 2024).

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