Gender Tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne - Lucy
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Gender Tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne
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Letto, visto, ascoltato

Elena Sbordoni

Gender Tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne

Possono le tecnologie essere "di genere"? In "Gender Tech", Laura Tripaldi parla di oggetti ordinari, come pillola, ecografia, period tracking, che dietro l'apparenza innocua ed emancipatoria celano aspetti di sorveglianza e controllo.

Gender Tech è il secondo libro di Laura Tripaldi, scrittrice e scienziata classe 1993. Edito da Laterza nella collana Tempi Nuovi, il saggio esplora gli effetti dello sviluppo tecnologico sul controllo del corpo femminile nel suo valore biologico. 

Tripaldi analizza e racconta, cioè, tutte quelle tecnologie materiali che per il loro funzionamento sono profondamente legate al corpo delle donne. E che sono anche oggetti ordinari: pillola contraccettiva, speculum, ecografia, tecnologie digitali come il period tracking, dispositivi talmente presenti nella nostra quotidianità che non siamo abituate a considerarli come quello che sono: tecnologie portatrici di una complessità biochimica, storica, sociale e politica. Con una scrittura articolata e chiara, Gender Tech ripercorre la storia di questi dispositivi indagando ambiguità e lati oscuri. Sono tecnologie potenzialmente emancipative, ma anche strumenti di sorveglianza e controllo che, dietro la loro promessa liberatoria celano spesso una pervasiva “pulsione scopica totalitaria del corpo della donna”.

Il capitolo dedicato alla pillola è quello che colpisce di più chi, come me, ha poco più di vent’anni. Oltre alla protezione da possibili gravidanze, ho sempre cercato di vedere solo i supposti benefici collaterali di questo farmaco contraccettivo – come rimedio a gonfiore, ad esempio –, sperando di non rientrare in quella percentuale di donne che ne subisce pesantemente gli effetti avversi. Angosciante e inaspettato è il legame tra pillola e depressione, verificato da diversi studi di importanti istituti di ricerca. Nel saggio si cita, ad esempio, un report danese che evidenza una correlazione tra l’uso di farmaci anticoncezionali e l’assunzione di antidepressivi.

Ancora: “È difficile”, scrive Tripaldi “non riconoscere nella pillola un dispositivo di controllo politico che, dietro a un volto di emancipazione, non ha fatto che intensificare e rafforzare la disciplina a cui i corpi delle donne erano già sottoposti”. Cospirazionismo? Si è tentati di pensarlo, ma è difficile non lasciarsi persuadere dalla ricostruzione esposta nel libro: come spiegare altrimenti lo sviluppo e il successo del farmaco, che si impone causando l’abbandono dei test su terapie farmacologiche simili? O La Operación, la sterilizzazione di massa operata ai danni della popolazione portoricana tra gli anni Cinquanta e Sessanta? Sempre a Porto Rico, tra il 1956 e il 1959, avvenne la prima sperimentazione umana di massa della pillola. Una sua prima versione venne distribuita per limitare l’aumento della popolazione indigena e somministrata a donne spesso povere e non consapevoli della natura sperimentale del farmaco e dei possibili effetti negativi.

Poi, da metodo contraccettivo la pillola è diventata negli anni una lifestyle drug, cioè un farmaco destinato o utilizzato per un problema che rientra nella zona di confine tra desideri di stile di vita ed effettivi bisogni di salute, come le pillole per dimagrire. E questo ha reso tutto ancora più confuso e complicato visto che l’accessibilità di queste lifestyle drugs e la leggerezza con cui a volte vengono prescritte possono trasformare un desiderio in un bisogno, intrappolando le persone in un circolo vizioso in cui gli interessi delle industrie farmaceutiche hanno un ruolo fondamentale.

Come sottolinea Tripaldi, la questione della pillola rimane complessa perché i vantaggi che offre la sua assunzione non possono essere soppesati facilmente con la storia delle sperimentazioni o l’evidenza di alcuni effetti collaterali. Rimangono però le perplessità rispetto ai tentativi di rassicurazione da parte delle aziende farmaceutiche sulla supposta (e paradossale) “naturalità” degli ormoni sintetici contenuti nella pillola e sugli effetti collaterali spacciati per rassicuranti benefici, come la loro cosiddetta “funzione regolatrice dell’umore”. Qui Tripaldi fa un passo in avanti: il sesso naturale, scrive, può essere considerato un prodotto di laboratorio e “forse la vera risoluzione introdotta dalla pillola non è tanto la liberazione delle donne dalla tirannia della loro natura, quanto la sua capacità di dimostrare che la natura della donna non è mai stata niente più che un artefatto”.

Un altro degli esempi di tecnologia di genere riportati nel libro è l’utilizzo del mezzo fotografico nel campo dello studio dell’isteria. Le foto di Jean-Martin Charcot, medico della clinica Salpêtrière e accanito teorico dell’isteria, raccolte nel volume Iconographie Photographique de la Salpêtrière, sono uno dei primi casi di rappresentazione iconografica della malattia. L’ambizione di Charcot era quella di creare un manuale in grado di illustrare le forme in cui l’isteria si manifestava nelle pazienti, testimoniando la presenza della patologia in modo inequivocabile. Le immagini ritraggono donne rinchiuse in manicomio, i loro corpi deformati e massacrati da pratiche curative violente come elettroshock o isterectomia. Di fatto Charcot si serve dell’oggettività delle fotografie per legittimare l’invenzione di una malattia, a suo parere, legata alla repressione del desiderio sessuale: l’epilessia, la depressione, la mania diventano sintomi da curare a qualsiasi costo. 

Tripaldi analizza poi un’altra “tecnologia della visione”: l’ecografia. Un sistema di indagine diagnostica pensato per ampliare lo sguardo all’interno del corpo, nato dalla trasposizione e dall’impiego del SONAR, un dispositivo bellico nato per estendere artificialmente la vista sotto il livello del mare.

Gender Tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne - Untitled (Your body is a battleground), Barbara Kruger (1989)

Untitled (Your body is a battleground), Barbara Kruger (1989)

Con l’utilizzo di tecnologie di genere come l’ecografia, il corpo della donna è esaminato nello stesso modo in cui si valuta un campo di battaglia. È difficile non pensare a una delle stampe più celebri dell’artista Barbara Kruger, realizzata nel 1989 come espressione di dissenso verso una nuova ondata di leggi antiabortiste negli Stati Uniti: il volto di una donna è impresso in bianco e nero, diviso in due metà, una in positivo, l’altra in negativo. Lo slogan Your body is a battleground appare in orizzontale sul volto della donna.

Dalla realizzazione delle prime ecografie emerge una nuova realtà iconografica da analizzare: il “paradosso dell’icona del feto”, per cui sono i cadaveri dei feti a essere diventati simbolo della vita nelle campagne prolife. Tripaldi fa notare come in questo processo il bambino sia innaturalmente autonomo rispetto all’ambiente in cui è immerso, ossia il grembo materno, e somiglia a un astronauta che galleggia nell’oscurità. E così, le immagini che raffigurano i feti e che tutti noi abbiamo visto affisse lungo le strade o stampate su volantini prolife sono in realtà macabre messe in scena: da una dimensione biopolitica, ovvero dal coinvolgimento della dimensione politica nella dimensione della vita biologica degli individui, si passa a una più realistica dimensione necropolitica, dove la morte diventa il simbolo della vita. 

Mentre il feto assume una propria autonomia, il corpo della donna si fa pressoché invisibile. L’ecografia viene strumentalizzata dagli antiabortisti per rivendicare il feto come individuo da tutelare indipendentemente dalla madre. Eppure questa indipendenza del bambino è possibile solo in relazione, di nuovo, a una continua sorveglianza medica della madre, tramite ecografie morfologiche, ecografie della crescita, analisi del sangue. 

Il canone di normalità stabilito da una società patriarcale, racconta Tripaldi, ha sempre imposto al corpo delle donne una disciplina innaturale, dettata da standard astratti raggiungibili solo con la manipolazione della natura stessa del corpo femminile secondo la convinzione comune che la natura del corpo rischi di essere squilibrata e le tecnologie siano necessarie per equilibrarla. Nel saggio, Tripaldi fa spesso riferimento al termine disciplina, derivante da un retaggio militare, per evidenziare come sia diventato proprio della definizione di natura.

Ma se le tecnologie sono sempre impregnate dell’ideologia di chi le ha prodotte, è possibile pensare a una liberazione della tecnologia stessa? Questo saggio cerca di raccontare come la natura, o meglio quello che chiamiamo natura, sia spesso una realtà filtrata dallo sguardo umano. Iniziare a considerare ogni dispositivo come portatore di una propria storia, all’interno della sua specificità materiale e del suo uso sociale, senza demonizzarlo ma essendo consapevoli della sua non neutralità, è fondamentale per trasformarci da oggetti della tecnologia, a soggetti consapevoli del suo impatto e del suo utilizzo.

Elena Sbordoni

Elena Sbordoni è tirocinante e collaboratrice di Lucy.

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