Quando lo scorso anno ho saputo che Geoff Dyer stava scrivendo un libro sul ritiro di Federer, ho desiderato di leggerlo all’istante. Da sempre devoto al suo culto, ho pensato che la “scrittura bianca” dello scrittore, per dirla con la formula di Roland Barthes, si addicesse ai “gesti bianchi” del tennista, che la luminosità della sua prosa, cioè, aderisse perfettamente al racconto di “una creatura dal corpo che è insieme di carne e, in qualche modo, di luce”, secondo le pagine ormai classiche di Foster Wallace.
Quello che però non avevo previsto è che la mira di Dyer fosse molto più ambiziosa di così. Leggendo qualche tempo fa un articolo di Leo Spitzer su Proust sono rimasto colpito da un’ipotesi che il critico riporta en passant, senza percorrerla. Secondo alcuni studiosi alla base degli avvolgenti periodi della Recherche ci sarebbe una ragione psicologica: la paura di arrivare alla fine. È attorno a questo aspetto che Dyer costruisce un libro commovente e digressivo in cui affronta, con tutta l’intelligenza di cui è dotato, il modo in cui artisti, poeti, pittori, sportivi si sono approssimati all’idea della fine – un saggio sulla finitudine come “esperienza di elevazione”.
Dyer scrive della perdita della vista che affiora nel bianco accecante dei quadri di Turner, dell’impazzimento di Nietzsche a Torino, della gloria fragile di Kerouac, degli ultimi giorni tristi di Larkin o, ancora, dei falcidianti infortuni di Andy Murray, mettendoli in relazione, tramite scatti analogici, con la propria difficoltà nel portare a termine certi libri, e con gli acciacchi di un corpo che invecchia. La struttura stessa del libro, che si sviluppa per note e nessi continui (spesso inattesi), sembra voler rimandare la fine.
Naturale che in un saggio del genere serpeggi la presenza della morte, che Dyer tratta però col brio di un filosofo del Settecento: “non sarebbe meraviglioso se fosse possibile essere uno scrittore serio senza prendersi sul serio?”. Non so se questo sia per Dyer il finale di partita, spero di no, di poterne leggere ancora. Se così non fosse, ad ogni modo, si potrà adattare alla sua carriera ciò che scrive di quella di Becker: “magnifica, a prescindere da tutte le sciocchezze che verranno dopo”.
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