MANIAC - Lucy
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MANIAC
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Letto, visto, ascoltato

Elena Sbordoni

MANIAC

La scienza è un romanzo, pieno di intrighi, di dubbi, di rivalità, di rimorsi, di eccessi. Partendo dalla figura del matematico von Neumann, l'ultimo libro di Benjamín Labatut esplora lo spirito tormentato di un'epoca.

10 Dicembre 2023

János Lajos Neumann, americanizzato in John von Neumann, è il grande protagonista di MANIAC, l’ultimo romanzo dello scrittore cileno Benjamín Labatut edito in Italia da Adelphi. Nonostante tutta la parte centrale del romanzo ruoti intorno alla sua figura, von Neumann è un personaggio assente, restituito al lettore attraverso le testimonianze – romanzate da Labatut – di chi ha trascorso parte della vita al suo fianco.

Von Neumann è stato uno dei matematici e fisici più brillanti del Novecento, al punto da venire ribattezzato “l’alieno” per le sue capacità di calcolo sovrumane. Appartiene a quella parte della storia della scienza a cui difficilmente si arriva al liceo, a meno che nel proprio percorso di studi non si trovi un professore tanto illuminato da scegliere di avventurarsi in quell’intrigo di leggi, formule e problemi che è la fisica moderna.

Insieme a Edward Teller, Eugene Wigner e Leó Szilárd, fa parte del clan degli ungheresi, gruppo di scienziati fuggiti negli Stati Uniti per scampare le persecuzioni naziste.

Teller, descritto dal collega Stanislaw M. Ulam come una sorta di diavolo zoppo – aveva infatti perduto una gamba in gioventù cadendo sotto un tram – “dalle sopracciglia cispose e dall’espressione intensa”, ha in parte ispirato il personaggio del dottor Stranamore e compare, assieme a Szilard, in Oppenheimer di Christopher Nolan, film nel quale non trova invece posto von Neumann.

L’odio che von Neumann prova nei confronti dei nazisti e la fascinazione per la tecnologia, lo spingono a partecipare al Progetto Manhattan, collocandosi nell’area interventista, la stessa che mai si pentirà di aver creato uno strumento di distruzione così potente.

Dopo l’entusiasmo iniziale, per il progetto da parte di tutti gli scienziati coinvolti, la consapevolezza della potenza distruttiva del dispositivo che stavano creando e la possibilità dell’innesco di una reazione nucleare a catena spinge molti di loro a una riflessione etica. Nel 1945 Leó Szilárd, uno dei primi a incalzare Roosevelt per l’avvio del programma nucleare nel 1939, redige una petizione per il presidente Truman opponendosi all’utilizzo delle bombe atomiche per questioni morali. La lettera viene firmata da sessantotto tra gli scienziati che hanno contribuito al Progetto Manhattan – tra questi non c’è von Neumann.

Un anno dopo Szilárd, insieme ad Albert Einstein, fonda l’Emergency Committee of Atomic Scientists per mettere in guardia riguardo i rischi legati all’uso delle armi nucleari. Von Neumann non sconfesserà mai le sue azioni, così come farà il fisico italiano Enrico Fermi, e anzi, si occupa di calcolare l’altezza ottimale da cui la bomba deve essere sganciata per procurare il maggior numero di danni. Negli anni successivi, a Los Alamos, il matematico incentiva gli Stati Uniti a dotarsi di armamenti nucleari sempre più potenti per controbilanciare la potenza sovietica e, insieme al suo connazionale Teller, prosegue con fervore il Progetto, cooperando alla creazione della bomba H. La sua spregiudicatezza e la sua apparente alienazione verso qualsiasi sentimento di umanità gli fanno nel frattempo guadagnare il soprannome di “genio del male”.

Il romanzo di Labatut è diviso in tre parti, in cui si alternano la prima e la terza persona: dalla crisi dei fondamenti della fisica moderna si passa a un racconto corale del personaggio di von Neumann, fino al momento in cui la macchina si impone sull’uomo. Se nella prima e nella terza parte sono direttamente i protagonisti delle vicende a narrarci la propria storia, nella seconda un coro di personaggi si occupa di ricostruire, con osservazioni personali, quella di un personaggio così indecifrabile da essere estraneo anche a chi ha condiviso la propria vita con lui.

Il primo capitolo si apre con una scena drammatica e cinematografica: un momento di smarrimento terribile per alcuni scienziati nei primi anni Trenta.

“La mattina del 25 settembre 1933 il fisico austriaco Paul Ehrenfest entrò nell’istituto pedagogico per bambini infermi del professor Jan Waterink, ad Amsterdam, sparò in testa al figlio quindicenne Vasilij, poi rivolse la pistola contro se stesso”.

Il turbamento di un secolo, catturato nella storia di Paul, lascia presto spazio, dopo appena una ventina di pagine, alla parte più corposa del romanzo: un intreccio di testimonianze che nel loro insieme restituiscono  un personaggio complesso come John von Neumann.

La struttura narrativa che Labatut mette in piedi in MANIAC pone in primo piano la storia di un uomo raccontata da un alternarsi di voci (quasi) caotico. Nonostante la pluralità di punti di vista permetta al lettore di ricostruire la propria interpretazione di von Neumann, l’affollarsi di personaggi che raccontano ciascuno una piccola porzione della sua storia e della sua personalità rende complesso capire chi davvero stia parlando. Si incorre anche, alle volte, in stereotipi del tipo: la seconda moglie che odia la prima, il matematico rivale che odia von Neumann per la sua esuberanza. Labatut si scherma da subito, come a dire: quella che sto raccontando è solo una storia, non la Storia. 

MANIAC non è un romanzo di trama, ma di sensazioni, di mood quasi. La narrazione cerca di restituire l’atmosfera del tempo e lo fa percorrendo quel labirinto di storie che hanno animato i laboratori della scienza moderna.

Al von Neumann “genio del male”, Labatut si avvicina per gradi: una delle testimonianze più belle, nel dedalo di racconti, è quella del fratello Nicholas Augustus. 

“Tutto ebbe inizio con un telaio meccanico, e devo dire che si trattava di un apparecchio mostruoso.”

Nicholas ripercorre l’infanzia di John, racconta dell’amore per la madre e della casa piena di arazzi intessuti con fili dorati in cui vivevano a Budapest. La mente del fratello spicca tra i compagni già dai primi anni di scuola e la sua genialità sembra presagire, sin dall’inizio, le cose terribili per cui sarà impiegata. 

“‘MANIAC’ non è un romanzo di trama, ma di sensazioni, di mood quasi. La narrazione cerca di restituire l’atmosfera del tempo e lo fa percorrendo quel labirinto di storie che hanno animato i laboratori della scienza moderna”.

Dopo Los Alamos, moltissimi scienziati si rifiutano di proseguire con i progetti bellici, perseguitati da dubbi e rimorsi incalcolabili. Richard Feynman, premio Nobel per la fisica che prese parte al Progetto Manhattan, è un’altra delle voci di MANIAC. Feynman dopo la guerra riprende a insegnare alla Cornell University, allontanandosi da von Neumann, ma rimanendo turbato dagli sviluppi dei progetti statunitensi.

[…] all’inizio pensavo che non avessimo scampo, soprattutto dopo aver scoperto che quei bastardi stavano usando il MANIAC per costruire una bomba all’idrogeno. Ne ero ossessionato. Perché, vedete, non era solo una bomba più grossa, ma un vero orrore, una cosa che non poteva essere giustificata in alcun modo, un male assoluto, un’arma così lontana dalla ragionevolezza e dalla razionalità che era come se ci fossimo spinti volontariamente negli anfratti più tenebrosi dell’inferno.

La mente geniale di von Neumann dà avvio all’informatica e sviluppa un calcolatore, il MANIAC (Mathematical Analyzer, Numerical Integrator And Computer), fondamentale per i successivi progressi della scienza.

Le armi termonucleari sarebbero state quasi impossibili da realizzare se non fosse stato per il parto della mente di von Neumann. Il destino della sua macchina era legato a quelle armi fin dal suo concepimento, perché la corsa per costruire la bomba fu accelerata dal desiderio di John di costruire il suo calcolatore.

Il rapporto tra il MANIAC e von Neumann è così simbiotico che, alla sua morte, il calcolatore viene spento definitivamente. L’uomo è la linfa della macchina che senza di lui si riduce a un inutile spreco di cavi ed energia.

Nell’ultima parte del romanzo, Labatut proietta in avanti la storia della macchina, narrando nuovamente in prima persona la storia di Lee Sedol, maestro nono dan di Go, battuto nel marzo del 2016 dal calcolatore AlphaGo. La narrazione delle partite di Go dal punto di vista di Lee è in grado di appassionare anche chi, come me, del gioco non conosce assolutamente nulla. La macchina appare spietata, incapace di provare emozioni, inclemente di fronte ai tormenti di Lee. Non ha più bisogno dell’uomo per operare ed è capace di prendere decisioni autonomamente.

Raccontare la complessità di personalità geniali come von Neumann non è facile. Si rischia di cadere nella rappresentazione macchiettistica del Genio infallibile, quasi estraneo a questo mondo, eliminando gli aspetti sfaccettati del carattere.

Labatut, immergendosi nel coro di chi l’ha conosciuto, riesce a renderci von Neumann molto più intimo, avvicinandoci alle sue imperfezioni. Non più alieno, ma imperfetto, pieno di difetti, quindi umano. L’avvicendarsi di voci, storia e aneddoti ci conducono attraverso le vite di uomini eccezionali, certo, che però hanno una paura che è quella di tutti noi: essere dimenticati.

Elena Sbordoni

Elena Sbordoni è tirocinante e collaboratrice di Lucy.

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