Oppenheimer parte come la sigla di un programma di Real Time che potrebbe chiamarsi Io e il mio trauma. Il protagonista Cillian Murphy, ripreso in primissimo piano, ha lo sguardo sconvolto, perso in allucinazioni ipnagogiche del tipo PTSD, con atomi, fuoco e fiamme. Una frase tratta dal Bhagavadgītā, che ritornerà poi spesso (e pronunciata dal vero Oppenheimer) mette fine al suo angoscioso delirio e dà inizio al film: “Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi”.
Si anticipa quindi quello che vorrebbe essere uno dei temi principali del biopic di Robert J. Oppenheimer scritto e diretto da Christopher Nolan, tratto dal libro American Prometheus, di Kai Bird e Martin J. Sherwin: il conflitto morale sotteso alla creazione della bomba atomica nel corso del Progetto Manhattan. Nel mezzo: le conquiste scientifiche, le simpatie comuniste, le persecuzioni di cui è vittima in pieno maccartismo, la passione per le donne.
A differenza di Oppenheimer però, programmi come Io e la mia ossessione e Vite al limite, pur con tutti i loro difetti, hanno il merito di coinvolgere lo spettatore, invogliandolo a continuare la visione fino alla fine, complice anche una durata decisamente più rispettosa delle sue esigenze e del suo tempo libero – e difatti l’intervallo, che arriva dopo due ore, viene accolto con sospiri di sollievo e ci si affretta, ricorrendo a bassezze persino nei confronti dei più anziani, per arrivare per primi al bagno. Greed di Eric Von Stronheim sarebbe dovuto durare nove ore ed è grazie a Irving Thalberg, che ha preteso sette ore circa di tagli, se è ricordato come uno dei più grandi film muti di sempre. Forse i produttori di oggi non sono più così assertivi?
Una cosa in comune però, Oppenheimer e i format di Real Time ce l’hanno: eventuali disattenzioni dello spettatore non vanno a discapito della comprensione generale.
Oppenheimer è infatti il trailer più lungo mai realizzato, tre ore di scene quasi autoconclusive, colme di pathos e frasi a effetto.
La formula perfetta per valorizzare l’istrionismo degli attori – ci sono, tra gli altri Robert Downey Jr., Benny Safdie e Matt Damon – che recitano ogni scena come se fosse la più importante del film, pronunciando battute che sembrano scritte per lo stesso personaggio, un tipo brillante, acuto e molto tormentato.
Perché in Oppenheimer non c’è molto spazio per la caratterizzazione psicologica: tutto è sacrificato all’enfasi data al conflitto etico del protagonista e al complotto politico di cui è vittima.
La scrittura ne risente, ingabbiata in questa funzione strumentale.
I personaggi femminili, soprattutto, sembrano scritti da un uomo che non ha mai conosciuto una donna, ma ha orecchiato le conversazioni di due anziani vedovi al bar.
La moglie di Oppenheimer, interpretata da Emily Blunt, è un’alcolizzata iraconda e rancorosa che, scagliando istericamente bicchieri contro il muro, spinge il marito a ”fare l’uomo” e a rimettersi in sesto; l’amante di Oppenheimer è un’attivista comunista sciocchina, confusa e depressa e del suo rapporto con il protagonista non si capisce granché, se non che non lo si augurerebbe a nessuno. Entrambe, poi, esistono solo per accrescere o alleviare i tormenti del protagonista.
Per dire quanto il film manchi di sottigliezza, si metta a confronto la prima scena con quella di Apocalypse Now: se la seconda illustra perfettamente per immagini la natura del trauma, la prima è traumatica solo per lo spettatore.
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