L'incanto della figlia della foresta - Lucy
articolo

Paolo Pecere

L’incanto della figlia della foresta

L'incanto della foresta si rinnova ogni giorno in Amazzonia. Sta nell'accogliere il viaggiatore stanco con i suoi tronchi, nei suoi riti ancestrali o nelle sue piante curative e in grado di indurre "visioni e conoscenza".

L’aereo plana sulla pista polverosa, tocca terra in silenzio. Il passeggero col volto rosso raccoglie le sue buste e se ne va, restano solo alcune casse: non c’è nessuno ad aspettarmi. Jordão, uno dei luoghi più poveri del Brasile, è una fila di palafitte circondata dall’onda della foresta. Trascino il borsone per il rettilineo deserto di sabbia abbagliante. Ecco una casa verniciata di rosa e blu. La confronto con la foto che ho sul cellulare e salgo la rampa. Busso. Mi apre un ragazzino. Oltre la porta c’è il fratello grande con la ragazza che suona la chitarra, e sull’amaca sta sdraiato Ibã, lo sciamano, che alza gli occhi dal cellulare: “Ti aspettavo domani!” 

Lo sguardo che mi esamina è grave e vivace, incredulo e gioioso. Salta in piedi e mi stringe la mano con la sua, grossa e dipinta, e mi fa accomodare. Ibã indossa un paio di pantaloni rossi da cui sporge la pancia nuda. Torna a sdraiarsi abbassando lo sguardo sul cellulare, impassibile. Sembra avermi già dimenticato. 

Sono reduce da giorni di viaggio estenuante e ora, seduto su una poltrona rosa in questa capanna al confine col Perù, ho fame, sete, non so che dire e mi chiedo cosa esattamente sono venuto a cercare, se ho fatto bene a spingermi fin qui. I due ragazzi prendono una specie di pipetta nodosa: lui se la caccia nella narice, lei soffia forte dall’altra parte. Poi si rimettono alla chitarra e una voce luminosa di contralto intona un canto spensierato.

Il bacino amazzonico, per chi viene dalla metropoli, appare come un luogo di pace. Ma è anche il campo di una guerra globale, in cui ne va del futuro comune. “Sto facendo una ricerca sulle piante”, così ho scritto a Tereza Arapium, rappresentante indigena che fa politica a Rio de Janeiro ed è impegnata nella campagna del candidato presidente Lula. Mi ha risposto che potevo andare nella sua aldeia, una comunità indigena sul Rio Arapiuns. “Là è tutto natura, ci puoi restare quanto vuoi”. Così sono andato a Santarém, porto fluviale su un tratto sconfinato del Rio delle Amazzoni, ad aspettare una chiamata del fratello di Tereza. La città è uno dei centri di raccolta e stoccaggio della Cargill, azienda che esporta soia in Europa per gli allevamenti di carne. L’impatto di questa attività è devastante. Qui la fioritura della foresta convive con la desolazione di spianate e capannoni industriali.

Per qualche giorno vado in un paese vicino, Alter do Chão. Cammino nei dintorni, per sentieri che costeggiano il fiume e il Lago verde ed entro in un’intensa biofonia animale. Vado in canoa circondato dagli alberi allagati di quella che chiamano la “foresta incantata”, e tra le quinte di rami un tronco lontano sembra un occhio. Salgo su un monte da cui si vede l’immenso tappeto verde della foresta. Di sera mi affaccio in piazza e su un murales leggo che “nel maggio 2022 sono stati distrutti 2800 chilometri quadrati di foresta nativa, il ritmo più alto degli ultimi vent’anni”. 

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Proseguo a sud lungo il fiume Tapajos, dove si trovano le rovine di Fordlândia, la città che Ford fece costruire per produrre i suoi pneumatici, nutrendo i lavoratori indigeni di hamburger. Ancora un’ora di barca e posso osservare i samauma, gli alberi più grandi dell’Amazzonia. Luiz, una guida indigena, mi illustra gli usi delle piante, fonte di gran parte dei nostri farmaci. Ci cospargiamo la pelle di formiche per scacciare le zanzare, e poi ha inizio un cammino botanico: le foglie per fare i tetti, i tronchi per fare le canoe, la foglia per avvolgere il pesce in cottura, e piante curative per micosi, mal di pancia, polmonite; alberi con i pigmenti per dipingere e altri dal legno adatto a scolpire. Con le piante si fa tutto, e la simbiosi è tanto stretta che provo uno strano disagio quando, sedendomi sulle radici dell’albero gigante, quello resta inerte e silenzioso.

Quando torno dalla foresta si fa vivo Carlinho, il fratello di Tereza, e prendo il battello per l’aldeia. Passo ore tra gente che gioca a domino o dorme nelle amache stese sul ponte. Ecco la spiaggia: getto il borsone sulla sabbia, dove mi aspettano i figli di Carlinho. Rimango alcuni giorni a districarmi tra i sentieri poco battuti. Una signora che vive in una capanna molto isolata m’invita a bere caffè e a ripararmi dal caldo opprimente. Vengo a sapere che il riconoscimento di comunità indigena è un titolo ambito, che procura benefici e solleva qualche malcontento tra i pescatori che non vantano genealogie documentate come gli Arapiuns. La verità è che qui da secoli c’è mescolanza con i bianchi e non esiste più una lingua locale. Si tratta soprattutto di difendere uno stile di vita diverso, affiancando la pesca con l’accoglienza di qualche turista.

Julia, la figlia sedicenne di Carlinho, ogni mattina va a scuola in barca e parla un portoghese migliore dei genitori. Una sera a cena le chiedo che ne pensa della protezione della natura. “La natura è parte di noi e distruggendola distruggiamo una parte di noi”. È un rovesciamento del rapporto parte-tutto che mi spiazza; alla fine del mio viaggio ne capirò meglio il senso. 

Dopo cena faccio un bagno nel fiume illuminato dalla luna, cerco di evitare le formiche che pungono sul sentiero verso casa e mi metto a dormire sull’amaca. “Il silenzio della foresta è sonoro”, scrive il poeta amazzonico Thiago de Mello, riferendosi alle “canzoni degli uccelli notturni”, ma quella notte mi sveglia un boato. Sembra un vento fortissimo, eppure l’aria calda è immobile. Mi sveglio, e capisco che è il ruggito delle scimmie urlatrici. Prima dell’alba proclamano la propria presenza.

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Sono già stato in Amazzonia, ma il mio obiettivo stavolta è una ricerca sulla cultura delle piante che inducono visioni e conoscenza. Quando ne ho scritto a Tereza, mi ha risposto inviandomi la foto di un secchio di plastica con un liquido color caramello. “Per questo devi andare nello stato di Acre, dagli Huni Kuin”, ha commentato, e mi ha girato il numero del cacicco di una comunità, Ibã Sales. Gli Huni Kuin sono meno di diecimila e vivono sparsi in una zona molto remota alla frontiera tra Brasile e Perù. Ho inviato un messaggio in portoghese su whatsapp. Non ricevo risposta e cerco intanto altre vie da seguire. Neanche gli antropologi brasiliani rispondono. 

Mi sembrano una lobby che protegge gelosamente il proprio terreno d’indagine dall’intrusione di uno straniero curioso, oltretutto professore di filosofia. Le circostanze politiche complicano le cose: Bolsonaro ha neutralizzato la FUNAI, l’ente dell’indigeno, e dato il via libera a minatori e tagliaboschi illegali. Due mesi fa il giornalista Dom Philipps e l’avvocato Bruno Pereira sono stati assassinati sul Rio Javarí mentre facevano ricerche sulla protezione della foresta, e questo fatto rende difficile e pericoloso ottenere permessi per le terre indigene. 

È questa la ragione, probabilmente, per cui neanche le ONG mi rispondono. Penso di andare in Roraima dagli Yanomami, il popolo che per decenni è stato simbolo della lotta indigena per la foresta, e che ha trovato nello sciamano Davi Kopenawa un portavoce eccezionale. La sua eloquenza, ispirata dalle visioni degli spiriti xapiri indotte dalla pianta yakoana, si è propagata in tutto il mondo grazie al libro La caduta del cielo, col suo messaggio al tempo stesso poetico, politico ed ecologico. Ma Tereza taglia corto: è molto complicato avere i permessi, e non può aiutarmi. Invio messaggi dalla foresta e non so come muovermi. 

“La natura è parte di noi e distruggendola distruggiamo una parte di noi”.

Da San Paolo mi risponde Fernando, un dottorando in antropologia che lavora sul Santo Daime, la chiesa cristiana che ha introdotto il consumo dell’ayahuasca nelle sue cerimonie e che in Brasile è molto popolare. Dice che esistono viaggi organizzati in Acre, mi gira delle brochure che ricordano i pellegrinaggi religiosi nei santuari cristiani europei: due giorni di bus, pranzo in barca e cerimonia nella foresta. L’idea non mi entusiasma. Ma quando in un messaggio gli nomino Ibã, Fernando replica: “lui è un’autorità”. 

L’uso dell’ayahuasca, in effetti, è stato insegnato proprio in quelle zone ai fondatori del Santo Daime, che lavoravano la gomma. Alcuni giorni dopo, approfittando di uno spiraglio di linea telefonica, ricevo finalmente un messaggio dal cacicco. C’è la foto di una capanna in costruzione con una ventina di persone che salutano. “Buongiorno amico. Sono il cacicco Ibã Sales Huni Kuin dell’aldeia Chico Curumin”. Continuiamo a scambiarci vocali. Mi dice che sono benvenuto, ma “non è facile arrivare”. 

Due giorni dopo sono a Rio Branco, capitale dello stato di Acre, una regione famosa perché è stata l’epicentro di una delle prime lotte indigene per la tutela della foresta. La storia è narrata in musei e siti storici sparsi tra la città e i dintorni. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, l’industria della gomma portò qui emigrati dal nordest brasiliano e dall’Europa a estrarre il caucciù dall’albero della gomma (in portoghese: seringueira). I seringueiros si trasferirono qui, occupando territori che da secoli offrivano rifugio a popolazioni come gli Huni Kuin, scappate dallo sterminio coloniale, che furono ricacciate in aree ancora più isolate e ristrette della foresta. Quando l’estrazione del caucciù perse attrattiva, verso la metà del Novecento, coltivatori e allevatori cominciarono a disboscare, e cacciare gli stessi seringueiros. Allora il sindacalista Chico Mendes organizzò un’epocale resistenza di lavoratori e indigeni. 

A ripensarci in prospettiva storica globale, Mendes riuscì a unire due vie molto diverse che dal Settecento in poi hanno guidato la protezione delle foreste: l’idea della foresta come santuario del vivente, dotato di intrinseci valori estetici e spirituali, che portò naturalisti e letterati a promuovere l’idea di conservazione; e l’idea della risorsa, che è servita a invocare la buona amministrazione delle foreste rispetto allo sfruttamento sconsiderato. Mendes propose di salvaguardare la foresta per l’estrazione del caucciù, e al tempo stesso raccolse il sostegno delle popolazioni indigene, per le quali quel vantaggio economico era un dono supplementare della natura, e l’occasione buona per rivendicare finalmente un diritto all’amministrazione delle terre in cui avevano vissuto per secoli. 

Il conflitto – allora come oggi – fu violento. Nel 1988, Mendes fu assassinato sulla porta di casa a Xapuri. Al funerale un giovane Inácio Lula da Silva – che mentre viaggio è impegnato nella campagna presidenziale contro Bolsonaro – pronunciò un infiammato discorso in cui citava le parole di Mendes sulla necessità di continuare la lotta ecosocialista dopo la sua morte. Poco tempo dopo, la “riserva estrattivista” di Acre divenne uno dei modelli del territorio protetto brasiliano: non un parco nazionale, ma un’area dove lo sfruttamento sia regolato per tutelare insieme la foresta e i suoi abitanti.

Come si vede sia camminando nei dintorni, sia poi dall’aereo a elica che mi porta verso la frontiera, ancora oggi il territorio di Acre è una scacchiera di alberi e radure disboscate, una terra contesa. La vegetazione s’infittisce quando dal cielo compare Jordão, dove le strade ancora non arrivano e c’è appena una tacca di traffico telefonico. Da queste parti l’industria del legname e della gomma è minima o assente, ma è custodita l’arte di contemplare una “foresta incantata”. 

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Perciò sono arrivato a casa del cacicco Ibã, che in un messaggio vocale inviato a migliaia di chilometri di distanza ha promesso di portarmi in barca fino alla sua aldeia a quattro ore dal paesino, e mi conferma, “domani andiamo”, mentre impaziente sto a guardarlo che mangia piatti di riso e pollo e traffica col cellulare. Devo aspettare ancora un po’. “Con calma”, sorride, e torna a sdraiarsi nel pomeriggio infinito.

Ibã mi mostra la foto del padre: Romão Sales. Lavorava come siringueiro per i bianchi, ma era anche payé, sciamano. Come scoprirò, in tutte le comunità di Huni Kuin c’è qualcuno che si occupa di somministrare le medicine alla comunità e si presenta, agli occasionali visitatori, come payé.  “Ma gli sciamani veri non ci sono più”, mi dice Ibã, intendendo che il ruolo si trasforma insieme alla società.

Suo padre sapeva appena l’alfabeto, lui ha imparato a leggere, scrivere e contare con delle insegnanti bianche, e nel 1983 è partito per studiare a Rio Branco e diventare insegnante indigeno. È andato anche a studiare in un altro stato, a Minas Gerais. Ha approfondito musica e pittura e ha fondato Mahku, una comunità di artisti. Questa attività è diventata più importante del sapere medicinale. Ha esposto i suoi dipinti perfino alla Fondazione Cartier a Parigi. 

La piccola barca a motore risale il rio Jordão quasi secco. A tratti dobbiamo spingere, correndo sulla sabbia. Al nostro arrivo siamo accolti dall’intera comunità, meno di cinquanta persone, tra cui molti bambini. Il villaggio è pieno di pitture su legno e su carta, che raffigurano pesci, uccelli, serpenti, piante. “È la miraçao, la visione ottenuta con la medicina”, spiega un artista, “e a ogni figura corrisponde un canto”.  Ibã punta il dito su un enorme acrilico appeso al muro e inizia una cantilena. Segue il dipinto come una partitura. La sera mi mostra un fascicolo di fogli rilegati. Contiene la sua biografia di cantore e riporta i testi di questo canzoniere sinestetico della foresta, in cui ogni essere vivente ha il suo canto. 

“La medicina è quello che in quechua chiamano ayahuasca?”, gli domando. 

“Noi diciamo Nixi Pae. Pae è forza, incanto. Nixi è la figlia della foresta”. 

L’incanto della figlia della foresta.

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Dietro quel nome c’è un mito, che è narrato e illustrato in un altro libro scritto da Ibã. Un giovane indio vede una donna bellissima che esce dall’acqua di un lago e fa l’amore con un tapiro. Il giorno dopo va sulla riva del lago, lancia della frutta in acqua per far comparire la donna serpente, la quale esce e lo abbraccia. I due fanno l’amore e decidono di restare insieme. La donna versa una medicina nell’occhio dell’indio, che poi la segue sotto il lago, dove c’è un altro mondo. 

Restano a vivere qui, fanno tre figli, che sono mezzi uomo e mezzi serpente. Un giorno l’uomo vede la moglie che prepara un decotto e lo beve insieme ai genitori. Ne vorrebbe anche lui, ma la donna serpente dice che a lui non è permesso. Allora l’uomo osserva i familiari che cantano, assorti in una “visione molto forte”, si sente escluso e prova nostalgia per la sua casa. Così fa ritorno al suo mondo, ma la famiglia abbandonata lo cerca finché un giorno uno dei figli lo trova e comincia a divorarlo. La sua gente tenta di salvarlo, ma l’indio è gravemente ferito. Prima di morire lascia istruzioni: dalla terra della sua sepoltura sarebbe cresciuta una liana (cipó), che avrebbero dovuto bollire insieme a una foglia (kava), per poi cantare e bere il decotto. Allora lui, rimasto dentro la pianta, avrebbe svelato il passato, il presente e il futuro. “È questa la nostra storia”, così finisce il libro.

In molti miti sudamericani, rivalutati dagli etnologi in chiave ecologica, con la natura animata e antropomorfa si negozia e si trova un accordo. Rispetto a queste storie, qui mi colpisce il conflitto: l’indio, respinto dal divieto di partecipare alla visione torna dagli umani, poi viene ucciso dai figli della sua unione con la natura, e finisce col rivelare il segreto della pianta. È un Prometeo amazzonico, che però non conquista qualcosa di utile, bensì il principio di una visione. Un particolare mi sembra decisivo: gli esseri incantati dal decotto stanno immobili nel loro stato di estasi contemplativa, e l’indio con la sua rivelazione perde la vita e si trasforma in altro: diventa una pianta. Gli umani e gli animali insomma diventano simili alle piante, esseri capaci di nutrirsi di luce, e così possono vedere oltre il proprio presente

L’aldeia Chico Curumin è un isolotto magico tra i letti di due fiumi, dove cammino per giorni esplorando la foresta e visitando le case. La gente è mite e ospitale, i bambini che giocano nel fiume sono un’immagine di felicità, e la sera i ragazzi con i volti dipinti si mettono a suonare la chitarra vicino al fiume. Di solito li incontro davanti a casa del fratello di Ibã, un omino dagli spiccati lineamenti asiatici che non parla quasi portoghese e non riveste alcun ruolo di prestigio. Di sera le ragazze si mettono a giocare a calcio lungo il fiume. Poco dopo è il turno dei maschi. Poi tutti ci facciamo il bagno mentre fa buio.

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Rispetto ad altre comunità che ho visitato in Amazzonia, la pratica di musica e arte caratterizza gli Huni Kuin: la scuola, le case, gli stessi alberi, sono dipinti. Visito la farmacia, una capanna vuota dove un vecchio quaderno riporta i risultati di un approccio integrato: i nomi dei pazienti sono incolonnati accanto al rimedio assunto – piante locali, o farmaci da banco in arrivo da Jordão – e il decorso dei sintomi. 

L’artigianato è una fonte di ricchezza – i quadri-visione sono venduti anche a ricchi collezionisti europei – ma non basta. Inoltrandomi nella foresta scopro l’entità del disboscamento. Ogni nuova famiglia costruisce una casa a decine di metri dalle altre, e queste case sono segnalate da ampie radure coperte di tronchi tagliati e orti. Una delle leggi della terra indigena è che non si può vendere il legname, ma ho il sospetto che parte del legname non serva a costruire le case. 

In ogni caso, è chiaro che gli Huni Kuin, che un tempo erano cacciatori, si stanno convertendo all’agricoltura. Così hanno tuberi e frutta fresca, che ogni sera finiscono nei piatti durante le cene sul pavimento delle palafitte. Al tempo stesso, la foresta è più rada e silenziosa: le piante e gli animali sono tenuti lontani dallo spazio domestico, dall’altra parte del fiume. Un pomeriggio ci vado con un ragazzo, che apre la via con il machete su sentieri inghiottiti dalla vegetazione, tra i tronchi di alberi giganti. Il ragazzo si ferma sotto uno di questi e mi indica dei segni incisi sulla corteccia: i tratti stilizzati di un volto umano. Si volta, tiene le mani con i palmi sollevati e inizia un canto.

“Gli umani e gli animali insomma diventano simili alle piante, esseri capaci di nutrirsi di luce, e così possono vedere oltre il proprio presente”.

Un giorno seguo il fratello di Ibã mentre s’inoltra scalzo tra i rami e va a pescare con una retina. Mi fa cenno che tornerà camminando nel fiume, a me tocca rientrare a piedi. Giunto a una radura di tronchi carbonizzati mi perdo. Passo un’ora sotto il sole ardente, a fare movimenti ridottissimi in equilibrio su tronchi anneriti e sprofondi di rami, in cerca di un varco. Mentre nella foresta fitta trovo molti sentieri, più o meno agevoli e ombreggiati, la decisione di tagliare gli alberi annulla la mia capacità animale, il movimento, e rende il luogo una trappola e una fornace. Quando ritrovo la via mi sento salvo. Sospeso a un ramo mi osserva un serpente verdissimo.

Il giorno dopo torno dal mio amico pescatore che si mette e strimpellare alla chitarra una canzone sulla “medicina che cura”, e proprio in quel momento qualcuno accende una sega elettrica. La foresta fa il suo scherzo: un enorme fusto crolla sullo sfondo mentre la voce continua allegramente a cantare.

Al termine della fila principale di case c’è un boschetto con un albero dipinto e il cespuglio di kava, la foglia psicoattiva, che si mescola con la liana per fare il decotto. Domando a Ibã quando si svolgono le cerimonie, mi risponde “sabato”. Ma poi non ne parla più, è tutto preso dalla costruzione di una nuova casa a due piani, dove si trasferirà. Insieme a lui lavorano alcuni operai, che dormono con noi sotto lo stesso tetto. Si svegliano col buio e cominciano a parlare di lavoro, soldi e medicine per curare varie malattie. Accendono il fuoco, vanno a lavorare all’alba, e pranzano due volte prima di mezzogiorno. Offro loro della cachaça che ho portato con me. Mezz’ora dopo dormono profondamente.

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Guardo la pancia prominente di Ibã che russa sul pavimento. È un’altra persona quando, quella sera, lo trovo che benedice tutti durante una cerimonia in casa di sua madre. La donna indossa un copricapo coronato di penne, e mentre un altro figlio asperge di fumi i presenti, Ibã, ieratico e severo, vaporizza un alcolico dalla bocca, in gesto di benedizione.

Qualcosa mi porta a dubitare dell’autorità e dell’autorevolezza di quest’uomo, che comanda il villaggio in stile patriarcale, che ha diversi figli e una nuova moglie bianca che vive a Minas Gerais, e quando parliamo davanti alla comunità si vanta di essere un mio collega “antropologo”. S’infastidisce se regalo cibo o altro alla sua gente, vuole che tutto passi per le sue mani. In più occasioni noto i suoi occhi maliziosi che s’illuminano quando estraggo banconote dal portafoglio, chiedendomi se tutto questo ostacoli la nostra amicizia.

Mi chiedo sempre se i sedicenti sciamani non siano in fondo ciarlatani. Ma in questi pensieri, con cui faccio i conti da tempo, c’è un pregiudizio coloniale. Si sa che gli antropologi hanno sempre saputo badare al proprio tornaconto mentre raccoglievano documenti sui “primitivi”, e talvolta hanno approfittato della propria posizione per godere di benefici vari, oltre al prestigio e al capitale di conoscenze sul campo di cui incassano i ricavi in città. L’idea che uno sciamano indigeno non possa essere altrettanto attento ai beni materiali e alla posizione sociale è fondamentalmente razzista. 

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È tanto meno plausibile pensare, dopo cinque secoli di colonialismo, che un uomo nato in una piantagione di caucciù, che ha visto cacciare i propri nonni a fucilate, e che conosce il costo di un viaggio per venire dall’Europa fino a qui, resti indifferente al valore di scambio delle proprie conoscenze. Il denaro che attrae Ibã è la misura della ricchezza introdotta dai bianchi. Tutto questo non vuol dire che le sue credenze siano inautentiche, ridotte a merce, ma spiega perché il suo orgoglio per la tradizione, dopo decenni di discriminazioni, si prolunghi nel desiderio di condividere anche il benessere materiale. Dopo tanti incontri straordinari con sapienti di varia origine, sempre accompagnati da un sottotesto economico e da un gioco di sguardi in cui ciascuno desidera qualcosa che l’altro sembra possedere, sono giunto alla conclusione che quasi mai la linea divisoria tra autentico e inautentico separa le persone tra di loro – come se uno fosse senz’altro il ciarlatano, l’altro il puro  –, piuttosto le taglia a metà. 

Ibã è per un verso il portatore di una tradizione esoterica e preziosa, che indaga i limiti dell’umano, dall’altra un vanitoso che desidera godersi la vita, ed è ovviamente interessato a novità tecnologiche come smartphone e pannelli solari, e al denaro che serve a comprarle. Io mi specchio in lui: una parte di me desidera conoscere la sua sapienza e farla propria per colmare le lacune di una civiltà intristita, un’altra conta i soldi che spendo per l’impresa, cerca di farsi rivelare tutto col minimo sforzo e pensa a cosa potrà fare di tutto questo quando tornerà in città – se solo lui vorrà iniziarmi all’incanto.

L’ultimo giorno chiedo a Ibã di visitare l’aldeia Bom Jesus, che è ancora più in alto sul corso del fiume, e lui mi ci accompagna. Scendiamo dalla barca, saliamo l’argine fangoso e arriviamo in un quadrato di palafitte piantate intorno a uno sterrato, al cui centro campeggia un crocifisso. La cacicca è una donna anziana, alta e magra, con lunghi capelli neri, che non parla portoghese ma irradia carisma e intelligenza. Mi siedo accanto a lei e comunichiamo soprattutto col silenzio e lo sguardo. Il suo, triste e gentile – da poco ha perso un figlio – non potrò dimenticarlo. 

“L’idea che uno sciamano indigeno non possa essere altrettanto attento ai beni materiali e alla posizione sociale è fondamentalmente razzista”.

Gli uomini mi spiegano che vogliono organizzare un festival ad aprile. L’idea sarebbe di attrarre turisti fin qui e sperano che io li aiuti parlandone in giro. Mi fanno vedere le prove dello spettacolo, che coinvolgono ragazzi e bambini. Finisco a fare il tiro alla fune e altri giochi in una mischia gioiosa. La sera mi mostrano la piccola radura dove cresce la liana e si tengono le cerimonie. Alcuni di loro si presentano e mi parlano del loro ruolo nella comunità, con rispettosa formalità. Mi dipingono braccia e volto. Sono passate poche ore ma già sento una confidenza, scherzo, distinguo i più timidi e i più tenebrosi, lancio occhiate d’intesa ai bambini più dispettosi. Di fronte al villaggio riunito faccio un discorso alla comunità, che Ibã traduce. Spiego la mia ricerca, annuncio la mia intenzione di far conoscere la loro cultura, di aiutarli ad acquistare dei pannelli solari – e naturalmente parlerò del loro festival. Lascio del denaro, e vedo che Ibã ne tiene gran parte sfilandolo al fratello meno scaltro. Vado via col rimorso per una fratellanza solo sfiorata, e la promessa di tornare.

Tiriamo in secca la barca quando già tramonta, e devo preparare il borsone. Ibã sparisce. Nel buio della palafitta penso che ripartirò con la nostalgia per il soggiorno troppo breve con quella gente meravigliosa, e fantasie mitiche sulla foresta incantata. Cerco di richiamare alla mente i volti, le conversazioni. Poi mi accorgo di diverse persone che si allineano al buio intorno a un falò. Stanno arrivando tutti gli abitanti della comunità, adulti e bambini. Rivedo anche quelli dell’aldeia Bom Jesus, come amici ritrovati. Ma non sono come li ho visti di giorno. I volti sono dipinti a colori più accesi, i copricapi più abbondanti di penne. Ci sono molte giovani donne che non avevo visto, avvolte in abiti caldi per la notte. Al centro delle panche noto un tavolino con la bottiglia e una tazzina di ceramica. Ibã è seduto nella penombra, accanto al fratello, e indossa una fascia colorata sulla fronte. Mi fa cenno di sedermi là vicino. Anche stavolta nessuno mi ha chiamato, l’appuntamento era tra loro, non con me. 

Le fiamme si alzano e lui comincia a parlare, poi a cantare. Dopo un po’ si tira su e, come in un’eucarestia, tutti vengono a bere il liquido nella tazzina che lui riempie. Tutti i bambini che di giorno ho visto giocare bevono il decotto e si allontanano, forse vanno a casa dai genitori. Arriva il mio turno: bevo e torno a sedermi. Ibã continua a cantare per mezz’ora, mentre non sento nulla, neanche la nausea che il decotto invariabilmente provoca. Ogni tanto qualcuno lascia la panchina e scompare nel buio, gli altri restano immobili. Passa altro tempo, mi alzo e chiedo di prenderne ancora. Un indio con la testa coperta di penne rosse me ne versa un dito. 

Torno a sedermi, aspetto: niente. Qualcuno inizia a suonare la chitarra, sempre i soliti accordi. La mia sfiducia cronica mi spazientisce, a un certo punto penso che tutto sia una messinscena. Chiamo da parte Ibã, e lui con una voce calma e profonda dice che posso prendere un altro po’ di bevanda, se serve. “Prima di vedere, devi pulirti”. Si alza e riempie la tazzina con solennità. Appena mando giù il mio corpo inizia a tremare, mi allontano a passi rapidi, scosso da un violento conato di vomito. Ecco la pulizia. La musica diventa subito policroma e impossibile da sopportare, troppo intensa, incoercibile. Mi allontano nell’oscurità, tra gli alberi, tremando come una foglia. Mi appoggio a un tronco e chiudo gli occhi. Inizia la visione, da cui sono sopraffatto, mentre sento Ibã che mi sta accanto. Gli stringo il braccio. “È la foresta”, dice.

L’incanto della figlia della foresta -

Il poeta e etnobotanico Dale Pendell descrive i viaggi indotti dalle piante psicoattive come incontri con spiriti complici ma imprevedibili, conversazioni silenziose che possono avere svolte vertiginose, ma su cui si può avere un qualche controllo. A questo scopo, nella letteratura sugli psichedelici si raccomanda spesso di fissare un tema prima dei viaggi, e anche i curanderos americani invitano a chiedere qualcosa alla pianta. Il resoconto di molte esperienze – come ricorda Michael Pollan in Come cambiare la tua mente – suona al tempo stesso ingenuo ed efficace: “L’amore è tutto”. 

Proprio per questo si ride e si piange, la vita mette a nudo la sua essenza e il suo rovescio, la morte. Per molti questa esplorazione psichica equivale a un’epifania, per altri a un anno di terapia. Sapendo queste cose, quella notte – forse perché ho passato tanto tempo nel verde a osservare l’apparente inerzia delle piante – ho scelto di chiedere alla foresta di mostrarmi, piuttosto che l’amore, la sua forza. Quel che m’investe mi fa desiderare di scusarmi per aver provocato. Dal cielo una fontana di luce zampilla in flutti colorati, che sono rami velocissimi, e sono pesci, e sono suoni che mi riempiono, e poi continuano ad espandersi tracimando, trapassando il vaso che li accoglie, che ero io. Se apro gli occhi la cascata si attenua, appena li richiudo prende a generare forme serpeggianti. 

Mi siedo su un tronco a respirare. Accanto a me compaiono due uomini che ricordo di aver già visto. Uno mi fissa, con gli occhi luminosi nella fascia di pittura rossa. “È forte”, dice, con quella voce morbida e serena, poi resta là in silenzio e chiude gli occhi. Il mio respiro è il suo respiro, ed è la pulsazione di una pelle che è fatta di piume, che è fatta di foglie. Sento che qualcuno è ovunque e sta significando qualcosa. Vengo portato in alto e vedo steli e radici che si avvolgono nella terra, finché non incappano in qualcosa di metallico, che stride. Si aggrappano al metallo, si adattano a qualcosa di scomodo e doloroso. Poi mi viene presentato un tramonto, a colori violacei e rosa. È il tramonto su un altro pianeta.

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Ritorno al falò, alle percussioni, agli accordi, come seguendo un sogno lucido che ora invita a riscoprire la gente, a riconoscerne la presenza nella foresta. Ragazzi e ragazze ballano intorno al fuoco, girando e volteggiando. Le voci cristalline delle donne, spinte al massimo, intonano canti robusti e ripetitivi. Ciascuno alterna momenti di danza e d’immobilità. Quando si alzano sorridono festosi, scattano foto con i cellulari, scambiano due parole, e vanno in fila intorno al fuoco finché il capo banda non dice “haux, haux”, sospirando si ferma, decretando la pausa. Si lanciano grida acute, per scaricare la tensione e celebrare il compimento del giro. Allora siedono e chiudono gli occhi. Vedo una ragazza in estasi, una menade col viso rosso pompeiano, che oscilla sensuale, avanti e indietro al ritmo dei tamburi. Altri stanno seduti in raccoglimento, concentrati sulla fioritura invisibile.

Osservo il profilo di un’india che è seduta accanto a me, seguo il profilo femminile archetipico della fronte e del naso, il taglio asiatico degli occhi, le labbra carnose. Si gira e mi sorride, poi torna assorta. Le percussioni tracciano scie nel cielo infinito. Qualcuno prende altra bevanda, siamo qui da ore ed è quasi l’alba. Mi accorgo che alcuni ragazzi si abbracciano. Qualcuno si apparta. Altri ridono. La cerimonia, certo, è anche il momento in cui si formano nuovi legami, e si concepiscono altre vite. 

“Il mio respiro è il suo respiro, ed è la pulsazione di una pelle che è fatta di piume, che è fatta di foglie. Sento che qualcuno è ovunque e sta significando qualcosa”.

Vado nei pressi dell’amaca a cercare la bottiglia d’acqua. La sollevo e verso l’acqua in gola, e quella sensazione di rifocillarmi ha una pienezza che non ricordo di aver mai sentito. È svanito l’alone di riflessioni, dubbi, scopi, che si accompagna ad ogni mio momento vigile. Ogni gesto ha in sé un senso fisiologico compiuto, è vita illuminata di certezza. 

Per qualche giorno conservo il ricordo della sensazione di perfezione, e di quell’impressione di dialogare. Dice qualcosa della pianta o modula solo la nostra coscienza? E davvero c’è qualche comunicazione, o il tutto è un sogno lucido che sviluppa temi radicati nell’inconscio? Già Darwin sosteneva che le piante mostrano un comportamento intelligente, e oggi molti botanici sviluppano questa tesi affermando che le piante in vari modi sentono e comunicano tra loro e con gli animali. Tra le esponenti di queste ricerche ci sono Suzanne Simard e Monica Gagliano, per le quali la visione indigena americana va presa alla lettera, ed è confermata empiricamente. Nelle piante ci sarebbe una “saggezza” che si può apprendere. Per Gagliano, l’evidenza scientifica rende possibile pensare a una comunicazione interiore con le piante mediata dagli psichedelici.

È questo che succede quando le piante psicoattive alterano i nostri stati coscienti? Non lo so. Considero implausibile l’attribuzione di una personalità alle piante, mi pare il modo in cui noi umani inevitabilmente ci rappresentiamo un’altra intelligenza con cui entriamo in relazione. Di certo c’è una trasformazione in noi, prodotta dall’assimilazione delle piante: cade via il nostro quotidiano assetto cognitivo che filtra le percezioni, categorizza, guida l’esperienza come un’ossatura indurita dal tempo; la condizione indotta dalla pianta ripristina una relazione immediata della nostra vita con il suo ambiente, oscura la riduzione del mondo agli scopi dell’io. In questo senso, poiché la pianta non sembra avere quel coordinamento unitario che caratterizza le umane personalità, direi che l’esperienza ci porta più vicini a uno stato vegetale, come se la mente s’ibridasse. È un particolare che ricorre nel mito della figlia della foresta, e ripenso alla figlia di Carlinho e alla sua frase: la natura è parte di noi.

L’incanto della figlia della foresta -

Questo ritorno a uno stato aurorale del nostro essere ha una componente estetica – la nitidezza del sentire, il godimento vivido dei bisogni basali –  che è certo una delle attrattive delle piante psichedeliche e ne motiva l’uso ricreativo. A questo si accompagnano le ipotesi sui molti benefici farmacologici che per decenni sono state oggetto di ricerca scientifica, prima che il divieto calasse sulle sostanze psicoattive negli anni Sessanta del secolo scorso. Questo precedente comporta che oggi si pensa ai consumatori di piante e funghi psichedelici come a fricchettoni stonati o tossici disadattati (confondendo peraltro gli psichedelici con sostanze che danno dipendenza), un paradosso in una società dove la dipendenza da alcol, fumo e farmaci – per non parlare del malessere individuale – è diffusissima, e a cui ripenso quando rivedo l’intera comunità Huni Kuin riunita con la pianta.

Ma più che il valore ricreativo o terapeutico delle piante – mentre ritorno in barca con un libro tra le mani e una profonda gratitudine – c’è un aspetto che m’interessa indagare, quello di cui parlava Ibã: la “conoscenza”. Prima di tutto, c’è un altro modo di considerare le piante. Per i botanici le piante mostrano di essere intelligenti perché si muovono e agiscono, ma l’evidenza di cui si tratta qui è lontana da quella della scienza naturale, somiglia piuttosto a idee formulate nella nostra antichità filosofica, molto prima che il soggetto umano individuale – com’è accaduto per qualche secolo – diventasse il punto di riferimento del discorso filosofico e scientifico. 

“Direi che l’esperienza ci porta più vicini a uno stato vegetale, come se la mente s’ibridasse”.

Per Platone, l’essenza delle piante include la “sensazione”, ma non il movimento spontaneo, che esse traggono dall’anima del mondo. In altre parole, la pianta contempla il tutto, ma non può pensare di esserne separata con le proprie azioni, così come invece accade all’uomo. Questo diventa un modello cosmico che Platone vuole estendere alla comunità, poiché ogni azione e passione di ciascuno “tende e guarda sempre al tutto […] ogni creazione avviene per quel fine, cioè affinché vi sia come fondamento nella vita dell’universo un’essenza di felicità, e non avviene per te, ma tu per quello”.

Questo nesso tra le funzioni vitali e l’ordine eterno si ritrova pure in Aristotele, per il quale è vero che l’anima razionale ha la capacità suprema di contemplare, ma quella vegetativa – che nelle piante si trova in forma esclusiva ed esemplare – permette di nutrirsi e riprodursi, che è “il modo in cui le piante e gli animali partecipano del divino e dell’eterno”. E il neoplatonico Plotino più radicalmente ancora dirà che ogni forma di vita, inclusi animali e piante, “è contemplazione”, perché ogni essere con la sua esistenza riproduce un modello eterno. 

L’incanto della figlia della foresta -

Queste visioni speculative non si accordano facilmente con la nostra visione scientifica, ma uno scienziato come Gustav Fechner – contemporaneo di Darwin – sostenne che le piante mostrano di avere istinti e di comunicare, per cui sarebbe strano negare che abbiano proprie sensazioni. Possiamo scegliere di vedere la natura come un luogo “scuro e freddo” dove solo noi umani siamo animati, oppure – è la “visione del giorno” – “aprire gli occhi allo spirito della sua fiamma interiore”.

Ma dove portano simili idee? Non solo verso conclusioni facili ed esaltanti. Il mondo vegetale è straniante, è composto di organismi modulari, esseri-colonia su cui è arduo proiettare l’immagine familiare della personalità. In ciò l’esperienza delle piante psicoattive è istruttiva: sfaldando il nostro io, ci avvicina a comprendere degli esseri molteplici e disuniti. Così si profila qualcosa di angoscioso: la morte dell’io. C’è poi un altro aspetto inquietante del senso di appartenenza al tutto in cui possono convergere psichedelia e filosofia: quel tutto, per Platone, delineava una comunità etica in cui ogni aspetto della vita individuale doveva essere disciplinato. 

Eppure, proprio tornando alla mia irrinunciabile individualità soggettiva e politica, quell’esperienza delle piante mi permette di sentire una coesistenza con gli altri esseri viventi che nessun ragionamento procura. La “foresta incantata” non è un’entità che esiste separatamente da noi, ma è una fioritura poetica che nasce dall’unione chimica tra animali e piante, è celebrazione di una simbiosi che, all’origine comune di natura e cultura, si trova in ogni nostro atto, reso possibile dall’assunzione di altre piante come grano, caffè, cacao, tabacco, e si ramifica nelle infinite forme bellissime della nostra vita individuale. Quest’agnizione, dopo secoli di distruzione della foresta con i suoi abitanti e sulla soglia del collasso climatico, è un dono di cui abbiamo bisogno, e di cui dobbiamo ringraziare piccole comunità come quella che ho visitato.

“L’esperienza delle piante psicoattive è istruttiva: sfaldando il nostro io, ci avvicina a comprendere degli esseri molteplici e disuniti”.

Quando ritorno a San Paolo ritrovo le luci notturne e i ristoranti, il traffico di auto e i senzatetto in pieno centro. L’incanto della figlia della foresta sembra già appartenere a un altro cosmo, come nel mito degli Huni Kuin. Sto per tornare in Italia, dove da qualche mese quell’esperienza è proibita per legge. Nel febbraio 2022, l’ayahuasca è stato inserito tra le piante illegali, perfino nei suoi usi rituali, e la ricerca scientifica in materia è quasi inesistente. Sono concesse e regolamentate le sostanze eccitanti, calmanti o inebrianti – il vino è un’eccellenza nazionale –, ma quelle che sciolgono e riplasmano la rigidità dell’io con le sue speranze e motivazioni risultano destabilizzanti e politicamente inaccettabili. 

Forse l’ordine civile che si vuole preservare, in cui il nostro rapporto con il mondo-ambiente è lacerato tra gli opposti estremi dello sfruttamento cieco e della nostalgia, ha invece bisogno di sentimenti come il legame con la natura che si può esperire con le piante. È certo un sentimento che si deve elaborare, e amministrare con cautela e razionalità. Eppure il tema appare ineludibile perché – come capì già uno dei filosofi più scettici e naturalisti della cosiddetta modernità, David Hume – il sentimento è più potente della ragione.

Paolo Pecere

Paolo Pecere è filosofo e scrittore. Insegna Storia della filosofia all’Università di Roma Tre. Il suo ultimo libro è Il dio che danza (Nottetempo, 2021).

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