L’intellettuale e la ragazza: storia di una manipolazione - Lucy
racconto

Irene Graziosi

L’intellettuale e la ragazza: storia di una manipolazione

20 Febbraio 2024

La manipolazione psicologica trascende i ruoli di genere e quelli professionali ed è spesso difficile da riconoscere. Prevale, in chi ne è vittima, una reticenza a raccontarla, a spiegarla razionalmente anche a se stessi: come ho fatto a cascarci? Tocca però provarci, per se stessi e per gli altri; perché, nella vita, quasi a tutti capita di incontrare chi sa come approfittarsi delle vulnerabilità altrui.

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L’intellettuale e la ragazza: storia di una manipolazione

L’intellettuale la aspetta accanto alla macchina a noleggio nera parcheggiata in doppia fila. La ragazza gli ha dato appuntamento lungo una strada ampia da cui è comodo prendere l’autostrada. L’intellettuale dondola avanti e indietro sul posto, in apprensione: teme che la ragazza non si presenti. Invece la ragazza si presenta con in mano due bottiglie di vino dorato, e mentre si avvicina all’intellettuale l’automobile le ricorda un insetto dal carapace lucido che scintilla cupo sotto il sole di luglio. Quando la nota, il volto dell’intellettuale si distende e il suo corpo si rilassa. Si muove con enfasi eccessiva verso di lei. Quando sono vicinissimi, lei vorrebbe liquidare il momento dei saluti, ma l’intellettuale la bacia sulle guance con trasporto, mentre la sua mano destra applica troppa pressione sul fianco di lei. Quando l’intellettuale si stacca, la ragazza scrolla le spalle senza cercare di nascondere il proprio fastidio. 

“Poggio le bottiglie dietro”. Senza aspettare risposta la ragazza apre la portiera posteriore e si pietrifica alla vista di un bambino di circa otto anni che sta giocando con un NintendoDS. 

“Ho portato mio figlio…”, dice lui con il tono di chi non aveva altra scelta. 

La ragazza chiede al bambino se può posare le bottiglie accanto a lui. Il bambino non risponde. In realtà la presenza del bambino non è un male, pensa lei. Non ci si può comportare come si vuole davanti a un bambino qualunque, figuriamoci poi se è tuo figlio. La ragazza davanti all’intellettuale non avverte il consueto obbligo sociale femminile di interagire con il bambino: non vuole piacere al padre in nessun modo, vorrebbe anzi essergli repellente, desiderio che in un modo perverso la fa sentire libera. 

*

L’intellettuale e la ragazza si sono conosciuti online qualche mese prima, durante la pandemia. Lei aveva trascorso la sua reclusione in un appartamento spoglio, e quando l’intellettuale le aveva scritto aveva appena lasciato per telefono un ragazzo gentile di cui non si era innamorata. Alla ragazza scrivevano tantissime persone, e di norma lei non rispondeva. Durante il dottorato in lettere il suo professore era morto, e con lui le sue possibilità di proseguire la carriera accademica. Aveva accettato il posto che le aveva offerto un’amica di sua madre nella redazione di un programma radiofonico sui libri, e così si era trovata a leggere i libri più disparati e a scrivere domande per il conduttore. Con il passare del tempo era anche diventata l’unica responsabile del blog del programma, in cui era libera di parlare estesamente dei libri citati, ma anche di libri che interessavano lei e basta. E ancora, qualche mese più tardi, essendo giovane e ragionevolmente carina, le avevano chiesto di occuparsi dei social del programma, e così aveva iniziato a mostrarsi su un account piuttosto seguito mentre raccontava di cosa si era parlato durante la settimana o mostrava i dietro le quinte di ciò che avveniva in studio.

A quel punto avevano iniziato a seguirla in parecchi, soprattutto uomini, ma anche qualche donna entusiasta, e sia gli uni che le altre le scrivevano, spesso mascherando proposte sessuali con consigli letterari. La sproporzione tra i messaggi ricevuti e le sue mancate risposte la faceva sentire al sicuro. Il bisogno e la sua assenza sono valute, e per la ragazza ogni comunicazione disattesa si andava ad accumulare alle altre, ai nomi di uomini e donne che avrebbero voluto un contatto con lei, effimero o profondo che fosse. Alla ragazza pareva che quel gruzzolo di persone rappresentasse una sorta di investimento: le loro richieste di attenzione sommate colmavano il bisogno di lei di cercarne sia ora sia nel futuro; e allora un giorno in cui magari si sarebbe sentita sola avrebbe potuto contare su coloro che in passato l’avevano pensata, nell’illusione che il desiderio altrui rimanesse immutato nel tempo, permettendole così di emanciparsi una volta per tutte dal ruolo di chi anela nel gioco umiliante della seduzione, di cui non era certa di conoscere le regole. 

“La ragazza si presenta con in mano due bottiglie di vino dorato, e mentre si avvicina all’intellettuale l’automobile le ricorda un insetto dal carapace lucido che scintilla cupo sotto il sole di luglio”.

L’intellettuale si era insinuato nei messaggi Instagram della ragazza rispondendo in modo acuto alla foto di una pagina di Puer Aeternus di James Hillman. Poi aveva commentato quanto fosse evocativo uno scorcio della città che la ragazza aveva fotografato. Poi le aveva mandato il video di un cucciolo di corgi che si guarda allo specchio per la prima volta in risposta alla foto del cane di una vicina che la ragazza aveva postato. Poi, quando la ragazza aveva fotografato un’altra pagina, questa volta scritta da Karen Blixen, l’intellettuale le aveva chiesto se avesse mai letto Martha Nussbaum. Lei non aveva neanche mai sentito nominare Martha Nussbaum. La ragazza a quel punto aveva chiesto a un amico chi fosse quell’uomo: “Un tizio che interpreta un intellettuale”. Risposta superflua. Se la ragazza avesse dovuto iniziare a frequentare solo persone aderenti a se stesse – qualunque cosa volesse dire – tanto sarebbe valso scegliere la via eremitica. Così la ragazza aveva deciso di rispondere all’intellettuale. L’intellettuale le aveva chiesto la mail per inviarle il pdf di Love’s Knowledge – essays on philosophy and literature di Martha Nussbaum. Il messaggio d’accompagnamento diceva solo: “Mi interessa sapere che ne pensi”. La firma in calce alla mail dell’intellettuale recitava i suoi ruoli accademici nelle università inglesi e americane più prestigiose. La ragazza non aveva trovato strano che l’intellettuale le avesse scritto dalla mail professionale, e aveva iniziato a leggere, trovando le premesse teoriche del libro – la dimostrazione che dal rapporto tra stile, forma e narrazione di un’opera letteraria emerga la filosofia etica dell’autore – vagamente scontate e sorprendendosi per l’assenza di ironia dell’autrice nell’analizzare l’opera di Beckett, constatazione che le aveva fatto interrompere la lettura.

Ma nella casa spoglia il tempo non passava mai; la ragazza leggeva che fuori dall’appartamento stavano morendo centinaia di migliaia di persone, eppure queste persone erano irreali: invisibili e astratte, esistevano solo come nomi, a differenza della dolcezza tangibile dei pallidi rami degli alberi fuori dalla sua finestra che erano già tempestati di gemme lucide e si protendevano verso il cielo celeste, e la ragazza guardandoli aveva la sensazione di essere naufraga dentro se stessa. “Lo sto trovando affascinante”, aveva risposto all’intellettuale dopo qualche giorno, “preferirei leggere qualcosa di tuo però”. L’intellettuale le aveva mandato il pdf del suo ultimo romanzo. Raccontava la storia di un accademico britannico piuttosto depresso che, prigioniero di una certa theory inglese che vaticinava l’imminente fine del mondo a causa del neoliberismo, riceveva una lettera da un suo vecchio compagno di studi che gli chiedeva di raggiungerlo in Brasile, e da lì il romanzo mostrava il suo impianto picaresco, dichiaratamente ispirato a Cervantes, dove il protagonista si trovava alle prese con sciamani amazzonici, relazioni di cura e piccoli spiriti luminosi che vivevano negli alberi e nei fiori e nei fiumi. 

Il romanzo aveva riscosso un successo mondiale ed HBO aveva comprato i diritti per la realizzazione di una serie, ragion per cui l’intellettuale, fino agli esordi della pandemia, aveva trascorso parecchio tempo sui set tra Brasile e Stati Uniti. Il successo del libro aveva violentemente espulso l’intellettuale dalla cerchia dei suoi colleghi inglesi, che ora lo reputavano poco rigoroso e guardavano con sospetto ai suoi interventi sui quotidiani e alle sue comparsate in televisione.

Allegato alla mail per la ragazza, oltre al romanzo, c’era un altro testo: si trattava di un discorso tenuto in una qualche occasione prestigiosa; nella mail l’intellettuale indicava anche il nome di chi glielo aveva commissionato: si trattava di uno degli artisti contemporanei più in voga del momento. 

Questo secondo testo era più intimo, scriveva l’intellettuale nella mail. La ragazza non aveva trovato strano che un testo intimo fosse stato letto di fronte a una platea. A differenza del libro, che non aveva suscitato la curiosità della ragazza, questo secondo file le era parso più interessante. Raccontava di come l’intellettuale avesse iniziato a interpretare la vita dopo il suicidio della madre. La ragazza era rimasta molto colpita dalla notizia, che l’aveva riscossa dal proprio languore. Coltivava la tacita convinzione che un dolore tale potesse sortire due effetti distinti sulla vita dell’individuo che avesse saputo cosa farsene: primo, avrebbe conferito all’individuo una saggezza e una sensibilità fuori dal comune; secondo, avrebbe reso l’individuo più intelligente, soprattutto se quest’ultimo avesse operato in campi diciamo umanistico-creativi. L’elaborazione di un evento così devastante avrebbe insomma necessariamente condotto all’ampliamento della vita psichica e intellettuale di chiunque non fosse un sasso. Sempre via mail, la ragazza aveva allora rivelato all’intellettuale del rapporto complicato con il proprio zio, che quando lei era bambina le era molto vicino, e che poi era diventato eroinomane anni prima, tentando il suicidio in due occasioni distinte.

L’intellettuale aveva risposto che si trattava di una coincidenza incredibile; una similarità tra situazioni scoperta così, per caso, e si era complimentato per il modo in cui la ragazza gli aveva raccontato della sua esperienza con i furti e la violenza attuata dallo zio nel corso del tempo per procurarsi la droga. “Scrivi benissimo, te lo devo dire, spero questo complimento non venga preso nel modo sbagliato, ma sono mesi che leggo tutto ciò che scrivi e ti trovo bravissima”. Qual era il modo sbagliato? La ragazza non avrebbe saputo dirlo, e aveva cercato di ignorare la sensazione lievemente vischiosa che quella frase le aveva lasciato. Invece, gli aveva chiesto cosa fosse successo esattamente alla madre. 

*

In macchina la ragazza mette la musica altissima per evitare di fare conversazione, ma l’intellettuale continua ad abbassare il volume facendo domande a caso, all’inizio con tono sottomesso e compiacente ma poi, davanti al rifiuto di lei di fare conversazione, sempre più intriso di odio. “Perché fai così?”, chiede infine sibilando per non farsi sentire dal figlio, che comunque preso com’è dal videogioco non avrebbe sentito un bel niente. Per la ragazza quella domanda corrisponde alla scena di un film comico o di un cartone animato, quando un personaggio goffo riordina superficialmente una casa sbattendo tutti gli oggetti alla rinfusa in uno sgabuzzino la cui porta palpita per la pressione della massa, rischiando di franare addosso al malcapitato che la dovesse aprire.

La ragazza alza di nuovo il volume e si mette a cantare assieme a Taylor Swift Blank Space, mentre l’intellettuale borbotta: “Musica da parrucchiera”. La ragazza lancia un’occhiata all’orologio sul cruscotto. La loro destinazione non è lontana. L’invito per il pranzo è arrivato a entrambi separatamente, nessuno sa della loro frequentazione. Gli ospiti sono persone ricche che, appena terminato il periodo di confinamento, hanno affittato una villa sulle colline per sfuggire alla città durante gli strascichi della pandemia. La ragazza ne conosce un paio superficialmente, l’intellettuale pure. Entrambi, per ragioni diverse, nutrono pregiudizialmente poca stima nei loro confronti. Mentre Taylor Swift canta ‘Cause we’re young, and we’re reckless / We’ll take this way too far / It’ll leave you breathless, mm / Or with a nasty scar la ragazza si gode l’insofferenza dell’intellettuale e guarda il nastro argentato degli alberi scorrere attorno all’auto. 

*

La madre dell’intellettuale era una matematica. Dai racconti dell’intellettuale si capisce che ci doveva essere stato un momento in cui era stata una donna gioiosa, capace di levigare il carattere del marito, un uomo tetro e tagliente che non era mai riuscito a evadere da se stesso. Quando l’intellettuale era bambino la sua vita era una festa. L’energia di lei compensava la modestia dei loro mezzi: era in grado di costruire fortezze formidabili e coloratissime fatte di sole lenzuola e manici di scopa, raccoglieva piccole sfere di gomma in un secchio che rovesciava sul pavimento della cucina assieme al figlio, godendosi la frenesia dei rimbalzi di quelle centinaia di palline che schizzavano in alto fino a toccare il soffitto, e poi si divertiva ancora di più a recuperarle una a una, e una volta terminata la ricerca sorrideva al bambino scarmigliata e con gli occhi lucidi, pronta per una nuova avventura. Per il compleanno del piccolo intellettuale legava assieme decine e decine di palloncini fino a ottenere la sagoma di una persona grande il doppio di un uomo normale, e poi invitava tutti i compagni del figlio a casa, gli bendava gli occhi, e chiedeva loro di far scoppiare un solo palloncino alla volta con uno spillone, e a ogni schiocco i bambini si sbellicavano e lanciavano gridolini acuti, e lei più di tutti loro. Poi prendeva la torta appena sfornata e distribuirla in giro, senza dimenticarsi del marito, che in quelle occasioni si guardava bene dall’uscire dal proprio studio. 

L’intellettuale e la ragazza: storia di una manipolazione -

Ma quell’energia, si sarebbe capito in seguito, non era che la scia di una fase ipomaniacale che, sbiadendo, avrebbe lasciato spazio a un episodio depressivo maggiore. Lo psichiatra che l’aveva avuta in cura nel reparto al pianterreno dell’ospedale durante il suo primo crollo dalle sfumature psicotiche –  la donna era convinta di riuscire a sentire la presenza di San Francesco accanto a sé, ma per qualche ragione il santo ce l’aveva a morte con lei e non faceva che rinfacciarle i suoi peccati – aveva convocato padre e figlio e aveva scandito bene queste espressioni: episodio depressivo, fase ipomaniacale, crollo psicotico. Il padre dell’intellettuale era un uomo impreparato a quel genere di cose. “In fondo gli pareva che mia madre stesse recitando quella parte per ragioni che gli erano incomprensibili, e così la trattava come se gli fosse stato possibile smascherarla approfittando della prima occasione utile”, le aveva raccontato. La voce dell’intellettuale è indimenticabile, aveva pensato la ragazza ascoltandolo. Punteggiata di esitazioni e inciampi come per addolcire una componente più feroce, sembrava fil di ferro avvolto nell’ovatta: lì dove il cotone si è usurato, punte metalliche squarciano la patina di timidezza tradendo un’assertività arrogante eppure stranamente disperata. 

Una mattina, la madre dell’intellettuale si era alzata dopo molti mesi lugubri animata da un’energia simile a quella che la abitava durante i compleanni del figlio, anche se più irrequieta. Era andata a svegliare il bambino bisbigliandogli in un orecchio che quel giorno non sarebbe andato a scuola. Dovevano solo aspettare che il padre uscisse e poi sarebbero andati a fare il primo bagno dell’anno. Il piccolo intellettuale aveva protestato debolmente – era pur sempre febbraio – ma in fondo era così felice che lei gli proponesse un’avventura che si era lasciato convincere. Una volta sulla spiaggia, la madre aveva estratto dalla borsa due lattine di coca cola – bevanda vietatissima a casa – e gliene aveva offerta una. Il bambino aveva solo finto di bere, non voleva sciupare l’euforia della madre, ma aveva freddo, la giornata era grigia, era mattina presto e lui non voleva nessuna coca cola. Senza farsi vedere l’aveva versata poco alla volta sulla spiaggia, guardando il liquido scuro rapprendersi nella sabbia mentre la madre correva, calciava le onde con la punta dei piedi, e poi tornava da lui con gli occhi di nuovo, finalmente, lucidi. Infine si era spogliata, aveva chiesto al bambino di fare lo stesso, e poi, sorda alle lamentele di lui, lo aveva preso in braccio stringendolo al petto e si era incamminata verso il mare. L’intellettuale ricordava ancora l’acqua verdastra, il vento sferzante, il corpo di sua madre caldo che lo stringeva a sé a contrasto con l’acqua gelida che gli lambiva i piedi, poi le cosce, il torace, il mento.

Lo avevano ritrovato sulla spiaggia, nudo, accanto a due lattine di coca cola. Dalle analisi sarebbe venuto fuori che la madre aveva corretto le bibite con un miscuglio di sonniferi e barbiturici. Erano stati i primi a farle perdere conoscenza e ad allentare la presa sul bambino, che era riuscito a nuotare fino a riva. I secondi non avevano neanche avuto modo di fare effetto: era annegata quasi subito, abbandonandosi al suo piano con così tanta devozione da rendere superflue ulteriori cautele. 

“Non riesco a immaginare una persona che si sveglia una mattina e decide di ammazzarsi”, aveva osservato la ragazza.

“A me invece sembra la cosa più naturale del mondo”, aveva risposto l’intellettuale, come se il suicidio fosse un gesto che gli si annidava dentro da sempre, un segreto che sua madre gli aveva rivelato, una scelta percorribile in ogni momento, anche ora, mentre parlava con lei.

“Quando l’intellettuale era bambino la sua vita era una festa. L’energia di lei compensava la modestia dei loro mezzi: era in grado di costruire fortezze formidabili e coloratissime fatte di sole lenzuola e manici di scopa”.

Doveva essere così che funzionava con alcuni suicidi, aveva pensato la ragazza: l’idea della tua morte è un ronzio che si fa via via più assordante mentre i giorni scorrono e tu lavi i piatti, fai la doccia, ceni con gli amici, vai al lavoro, e intanto il ronzio cresce di intensità, ma essendo simile a un rumore bianco riesci a coniugarlo a tutto il resto, finché una mattina ti svegli e il ronzio ha attutito tutti gli altri suoni che ora sono lontanissimi anche se vicini, come quando si è in aereo e dopo qualche ora non si sente più neanche quello che la hostess ti chiede a un centimetro di distanza: a quel punto non ti rimane che il ronzio. 

Il padre dell’intellettuale era una persona gretta. Non si interessava alla  cultura del figlio, anzi, nonostante le sue suppliche, lo aveva spedito a studiare in un Istituto Tecnico Agrario, con l’ordine di trovarsi un lavoro che avesse a che fare con la terra. L’intellettuale aveva frequentato la scuola come in apnea, correndo in biblioteca ogni volta che poteva. L’intellettuale le raccontava della biblioteca dalle pareti grigie, con pochi libri scompaginati, dove però aveva imparato il latino da solo leggendo Lucrezio, poi Seneca, e poi Sant’Agostino e tutti coloro che gli avevano parlato da luoghi e tempi remoti, senza che quelle distanze attutissero il suono squillante e libero delle loro voci, che a tratti si confondevano con quella della madre. La ragazza si era commossa a immaginarlo tra quei libri, e gli aveva raccontato che da poco aveva letto una biografia di Enrico Fermi, dove si raccontava che da ragazzino anche lui trascorreva il proprio tempo a leggere trattati di matematica in latino, spesso libri del Settecento che ancora si potevano trovare nelle bancarelle di Campo De’ Fiori, quando l’Italia era analfabeta e i libri avevano valore per pochissime persone, condizione che per ragioni opposte era curiosamente simile a quella attuale.

“Mi piacerebbe prendere un caffè o bere qualcosa quando tutto questo finisce”, gli aveva detto la ragazza. “Verrei io a Londra, ho degli amici lì da cui potrei stare”. “Mi renderebbe felice”, aveva balbettato lui. Così in un primo momento alla ragazza era piaciuto immaginarsi l’intellettuale nel suo appartamento sbilenco – lui l’aveva descritto così – al piano superiore di una villetta in mattoni grigi mentre cucinava, progettava e costruiva una libreria, studiava fino a notte fonda. Le pareva la vita piacevole di un uomo adulto, improntata a una solitudine che ne aveva plasmato la routine in un’atmosfera di serenità venata di malinconia che incoraggiava la riflessione e il pensiero. Anche il suo professore di dottorato era un uomo di quel tipo, e una volta le aveva mostrato casa sua invitandola a cena con la moglie, una donna colta (la traduttrice di Freud!) che dipingeva paesaggi pieni di ombre e parlava tantissime lingue. Quella era una bella vita, aveva pensato la ragazza. 

La ragazza aveva cercato tutti i video esistenti dell’intellettuale per studiarne l’aspetto fisico: l’intellettuale era brutto. Li aveva mandati a una sua amica che le aveva dato ragione: brutto. “Ma non c’è nulla di male”, aveva aggiunto l’amica. “Non mi pare un problema il fatto che lui sia più o meno brutto, il problema, semmai, è che tu lo trovi brutto”. La ragazza si era chiesta se questa percezione non potesse mutare nel tempo. In alcuni video le pareva meno brutto che in altri, e allora si sentiva sollevata, salvo poi incappare in qualche altra intervista che riconfermava la sua impressione iniziale. La ragazza si era chiesta se avrebbe dovuto cambiare atteggiamento nei confronti dell’intellettuale. Forse sarebbe stato meglio troncare di netto quell’amicizia che riecheggiava, almeno dal canto dell’intellettuale, sentimenti di una qualità affettiva diversa da quelli della ragazza. Ma poi si era detta che in fondo sia lei sia l’intellettuale, anzi, soprattutto l’intellettuale, erano adulti, e non ci sarebbe stato nulla di male nell’esplorare i limiti di un rapporto, consapevoli che, nella vita, la maggior parte dei sentieri intrapresi scompare nell’erba alta. Aveva però continuato a tenere traccia delle rappresentazioni dell’intellettuale su internet, nella sempre più esile speranza che il suo aspetto fisico potesse contare di meno al maturare della loro amicizia. Non succedeva mai.

Oltretutto l’intellettuale si conciava in modo assurdo, con abiti alla moda che forse sarebbero stati bene a un modello omosessuale di vent’anni, ma che sull’intellettuale pendevano come la carta regalo su un pacchetto confezionato da un bambino. E poi, l’intellettuale aveva un debole per il jet set luccicante attraversato da attrici, modelle, direttori creativi, artisti, e seminava complimenti vacui sui social, ricevendone di altrettanto futili. Spesso alla ragazza sembrava che molte di quelle persone, intellettuale compreso, non avessero amici, ovvero persone pronte a dir loro le verità importanti: quella giacca ti sta orribilmente, queste persone con cui ti fotografi non sono tue amiche. La ragazza aveva provato con delicatezza a indagare quell’aspetto della vita dell’intellettuale chiedendogli cosa ci trovasse in questo o quello stilista o in quella direttrice di magazine di moda, ma lui rispondeva enfaticamente cose del tipo: “In un momento di difficoltà l’ho incontrata a una cena di gala e abbiamo parlato di cose intime e ti assicuro è una persona piena di luce che aiuta chi la circonda anche solo con la sua presenza”. Quando parlava di quella gente spumosa, alla ragazza sembrava che l’intellettuale ne sposasse il piano di comunicazione senza porsi troppe domande, e che soprattutto scambiasse continuamente la confidenza con l’intimità, dove l’una è ingannevole quanto la lingua che la esprime, l’altra è reale perché comunica in assenza di parole.

Ma poi le sorgeva anche un altro dubbio, ovvero: chi era lei per sparare quei giudizi? In fondo l’intellettuale era l’intellettuale e gli stilisti erano gli stilisti, persone che erano riuscite a scalzare tutti i loro concorrenti su per la scala che conduce al successo e alla notorietà, mentre la ragazza era la redattrice di un programma radio, evidentemente non abbastanza ambiziosa né speciale da poter dire di aver raggiunto chissà quale traguardo. Magari oltre una certa soglia di successo professionale e artistico le relazioni mutano e diventano qualcos’altro, offrono un nuovo tipo di riconoscimento, non è più importante che la giacca ti stia male, è importante cosa simboleggia quella giacca: una rinascita, una nuova vita lontana dal passato condiviso con il resto della popolazione alla quale un tempo si somigliava.

La ragazza non voleva pretendere di saperla più lunga di quelle persone luminose. Poteva anche darsi che superata quella soglia la bellezza non contasse più. L’intellettuale le raccontava di liaison con attrici americane straordinariamente belle incontrate sul set della sua serie televisiva, e la ragazza non aveva ragioni per non credergli. Sua madre le aveva sempre detto che l’ossessione per l’estetica era una faccenda recente: quando era giovane lei, negli anni Settanta, le persone ci facevano meno caso e si innamoravano per altre ragioni. La ragazza credeva a sua madre e per questo una parte di lei era convinta che in fondo, con un po’ di buona volontà, ci si potesse innamorare a prescindere dall’aspetto fisico. E così continuava a cercare nuovi video, nella speranza che da una certa angolazione o con un abbigliamento più ortodosso, l’intellettuale le potesse risultare attraente. 

*

La villa sorge su una radura nascosta alla vista dalle siepi di carpini e roverelle dal fogliame verdissimo. Dopo averle oltrepassate, la ragazza e l’intellettuale sono colpiti dal colore caldo della pietra dell’abitazione a contrasto con il verde che la circonda, che, più si allontana verso l’orizzonte, più stinge in un azzurro e un giallo freddi. Dal cancello si giunge al retro della villa, dove tre gradini fiancheggiati da gerani fioriti conducono a una porticina che si apre su una cucina accogliente in legno scuro e marmo sbeccato dal tempo. La ragazza entra per mettere in frigo le bottiglie, seguita dall’intellettuale e il figlio. Le donne che affollano lo spazio hanno qualche anno più di lei, indossano il reggiseno sotto abiti meno scanzonati dei suoi e portano gioielli poco vistosi. Quando vedono il figlio dell’intellettuale si prodigano in salamelecchi e domande, mentre la ragazza si affretta a dire a tutte: “Non è mio”.

Le donne accompagnano i nuovi arrivati attraverso corridoi e stanze sonnacchiose fino alla veranda che dà sul giardino anteriore. La veranda è incantevole, occupata da scrittoi, poltrone e paralumi pieni di frange, riceve la luce del sole filtrata dalle vetrate rosa che danno all’atmosfera la tinta del ricordo. Una porta a vetri dà sul giardino, dove una fila di panche e tavoli di pietra bianca corre all’ombra di un frassino esausto mentre, qualche metro più in là, un drappello di uomini si agita attorno a un barbeque. Un uomo in camicia di lino azzurra con le maniche arrotolate fino ai gomiti porge alla ragazza e all’intellettuale due bruschette dorate su cui poggiano pomodori lucidi d’olio. La ragazza ringrazia e perlustra con lo sguardo il giardino alla ricerca di qualcosa da bere. Una volta individuato il tavolo degli alcolici si lascia alle spalle l’intellettuale che è stato fermato da una coppia di giovani dai volti pallidi. Dopo aver conquistato il proprio bicchiere, la ragazza si avventura ai margini del giardino, accompagnata dal brusio degli ospiti che impregna l’aria. La ragazza inspira profondamente: non è più sola con l’intellettuale, è pieno di gente, può rilassarsi. 

L’intellettuale e la ragazza: storia di una manipolazione -

L’intellettuale chiedeva insistentemente alla ragazza di fargli leggere quello che scriveva. La ragazza aveva da poco preso accordi con una piccola casa editrice che le avrebbe pubblicato un romanzo breve sulla storia di tre amiche durante gli anni universitari. Dopo la firma del contratto, la ragazza era salita su un autobus alla volta di casa sua e, seduta sul sedile di plastica rosso, aveva attraversato la città provando uno slancio di affetto per il traffico rutilante, i lampioni, i cani e le persone infagottate nei piumini alle fermate. Ma poi con il passare dei giorni, delle settimane e infine dei mesi si era dovuta arrendere al fatto che il testo che aveva presentato all’editore non sarebbe andato da nessuna parte, ed era sprofondata in uno stato di letargia ansiosa. Aveva mandato all’intellettuale ciò che aveva scritto, e lui si era prodigato in complimenti e l’aveva pregata di proseguire. Lei aveva obbedito. Per qualche settimana, ogni giorno si sedeva alla scrivania e accumulava parole, frasi e pagine, che mandava all’intellettuale, che le lodava senza riserve e di rimando le raccontava le sue giornate, trascorse nel piccolo appartamento londinese a cucinare, rivedere la sceneggiatura della serie tratta dal suo romanzo, tenere conferenze online con altri intellettuali come lui.

La ragazza aveva l’impressione di vivere in un sogno non suo. Aveva smesso di fare le lunghe passeggiate nei parchi che circondavano il quartiere periferico dove abitava e non sentiva altri che l’intellettuale, e qualche volta, prima di addormentarsi, le sembrava che la voce dell’intellettuale le colasse sulle tempie come cera calda che si solidificava nel corso della notte fino a diventare un elmo troppo stretto, e ogni mattina si svegliava con un mal di testa lancinante. Durante quelle stesse settimane aveva iniziato a bere molto vino. All’inizio un paio di bicchieri dopo le diciotto, ma con il trascorrere del tempo le bottiglie avevano iniziato a essere stappate alle quindici, alle sedici, talvolta addirittura alle undici del mattino. Una sera aveva vomitato con la fronte appoggiata sulla tavoletta e alla vista del liquido vermiglio inghiottito dalla gola di porcellana si era spaventata. La mattina dopo aveva raccolto e gettato decine di bottiglie vuote, ripromettendosi di non comprarne più. Si era resa conto che senza l’alcol la routine con l’intellettuale era insopportabile. Perfino le pagine che aveva scritto in quei giorni le parevano impregnate dello spirito dell’intellettuale, che gliele faceva sentire aliene e bugiarde. Improvvisamente lucida, si era accorta di aver vissuto immersa in un liquido denso che l’aveva allontanata da chiunque altro non fosse l’intellettuale, e così aveva ripreso a chiamare i suoi amici, anche loro sepolti nelle loro case, e aveva smesso di rispondere all’intellettuale.

Dopo cinque giorni di silenzio, quando lo aveva chiamato, si era comportata come se nulla fosse: del resto non era forse normale non sentirsi per due persone che non si erano mai viste? Lui le aveva risposto con una voce dura, ma non aveva avuto il coraggio di chiederle ragioni del suo silenzio. La ragazza di fronte a quel rancore muto ostentava una spensieratezza che voleva comunicare all’intellettuale una distanza nuova, che lacerava il velo di confidenze intessuto fino ad allora, dichiarandogli che loro due non si appartenevano. Aveva poi nominato i propri amici all’intellettuale, per ripopolare quella relazione e spingerla fuori dalla fossa di esclusività fangosa in cui era precipitata senza rendersene conto. L’intellettuale l’aveva ascoltata parlare di quella o di quell’altro amico in silenzio, e poi aveva iniziato a insinuare nelle loro conversazioni commenti su quelle persone a lui sconosciute, all’inizio benevoli, poi sempre più velenosi. Alla fine, tutti tranne l’intellettuale erano stupidi, superficiali o poco interessati realmente alla ragazza. La ragazza allora parlava di quei suoi affetti con ancora più passione, e per qualche giorno i loro dialoghi si erano tramutati in duelli stravaganti, in cui nessuno dei due diceva ciò che davvero sentiva.

La ragazza non era mai riuscita a masturbarsi pensando all’intellettuale, e ogni volta che lui provava a portare la conversazione verso temi meno intellettuali, lei si faceva evasiva. Una mattina gli aveva attaccato in faccia fingendo che fosse caduta la linea quando, seduta sulla tavoletta del cesso, si era scordata di mettere in muto la conversazione mentre faceva pipì e l’intellettuale aveva interpretato il suo scroscio come una dichiarazione erotica. Per evitare da situazioni che l’avrebbero messa a disagio, e più in generale per mantenere la relazione platonica, la ragazza aveva confessato all’intellettuale di avere parecchi problemi legati al sesso, e di aver avuto relazioni che avevano contribuito a esasperarli. Era vero? Nella sua vita aveva incontrato uomini che non l’avevano desiderata, uomini che avevano desiderato l’immagine di lei che si erano costruiti, uomini che lei non era riuscita a desiderare malgrado la sua volontà razionale. E ancora uomini che riuscivano a venire solo se stimolati dalla pornografia – cosa che la ragazza aveva trovato mortificante – e uomini che in un primo momento le erano piaciuti da impazzire e che poi, all’improvviso, erano tornati a essere ciò che erano sempre stati, Maghi di Oz spogliati all’improvviso del loro mantello verde smeraldo. Era impossibile per la ragazza stabilire se quelle relazioni fossero state davvero problematiche oltre la naturale complessità dei rapporti umani, eppure le veniva spontaneo affermare, all’orecchio dell’intellettuale, che in lei ci fosse qualcosa di irrimediabilmente guasto.

Durante quelle lunghe conversazioni telefoniche, chiusa nella sua camera dalle pareti bianche che verso sera riflettevano il turchese profondo del cielo, la ragazza aveva la sensazione di vivere in una bolla di sapone sul punto di esplodere. Il suo corpo non esisteva, lo sguardo degli altri non esisteva, esisteva solo ciò che lei raccontava all’intellettuale e ciò che l’intellettuale raccontava a lei. Già allora aveva iniziato a sospettare che senza i corpi non esista la verità, che invece trapela dagli atti involontari, che tradiscono chi cerca di occultarla. La ragazza non avrebbe saputo dire se gli stesse mentendo o meno, ma di certo il passato che gli raccontava per spiegare o sviare da ciò che la imbarazzava le pareva un romanzo che aveva letto molti anni prima e di cui non ricordava tutti i passaggi, in cui i personaggi potevano essere amichevoli o antagonisti a seconda di ciò che le serviva in quel momento. E in quel momento le serviva che lui non si facesse strane idee sul loro rapporto, che non pensasse che date le lunghe telefonate, gli scambi di libri e le confidenze, ci dovesse necessariamente essere dell’altro.

Così gli aveva detto che non avrebbe voluto avere relazioni, che l’amore romantico non faceva per lei, così come non faceva per lei il sesso, che nelle relazioni era sempre diventato un banco di prova per qualcos’altro, e aveva disseminato il proprio passato di uomini indifferenti ai suoi desideri e bramosi di schiacciarla con la loro virilità, uomini che l’avevano annichilita e che le avevano fatto prendere le distanze dal genere maschile, e quella collana di parole aveva finito per disegnare la sagoma di un personaggio che la soffocava e che invece, contro le sue previsioni, aveva affascinato l’intellettuale che, forse, aveva intravisto in quella ragazza che non corrispondeva alla ragazza una donna da salvare.

Dunque l’intellettuale si era affrettato a rispondere che anche per lui il campo dell’intimità era una trincea: era scappato da suo padre e dalla sua infanzia triste grazie alle borse di studio, costruendosi una carriera sfolgorante eppure solitaria; aveva un figlio con una donna che aveva sposato un altro uomo subito dopo aver partorito, e prima di lei aveva avuto una relazione a distanza con una donna dispotica che lo aveva tradito di continuo. “E prima ancora, durante gli anni della scuola, ho subito così tante angherie, e così violente, che la mascolinità per come è costruita e attuata è una componente maschile che mi fa vergognare, che ripudio completamente”, aveva detto. “Non ho mai sperimentato qualcosa di davvero libero da ogni categoria, forse questa è la prima volta”. La ragazza era rimasta in silenzio, cercando di mettere a tacere il cigolio che le parole dell’intellettuale producevano a contatto con la realtà emotiva che comunicava e che oramai, perfino per telefono, aveva iniziato a colorare la loro relazione di una tinta inquietante. 

Dopo quella conversazione non si erano sentiti per tre giorni. Ciononostante, la ragazza percepiva di nuovo, come accaduto nei precedenti giorni di allontanamento, l’angoscia di lui dentro di lei, e faticava a districare ogni volta ciò che era lei dal grido muto di lui. Qualche volta la ragazza si chiedeva se quelle sensazioni confuse non fossero di natura allucinatoria. Come poteva percepire ciò che l’intellettuale sentiva a distanza di così tanti chilometri? Eppure c’erano dei momenti della giornata in cui avvertiva con chiarezza sinistra quanto lui la stesse pensando, e il suo risentimento struggente. Le pareva di intuire gli sforzi di lui nell’astenersi dal contattarla, e sospettava che spesso l’intellettuale comparisse online sui social solo per vedere se anche lei si trovava lì, per avere conferma della sua esistenza, per spronarla a scrivergli, perché non si dimenticasse di lui. Quei giorni di distanza glielo facevano sentire, se possibile, ancora più vicino di quanto non avvenisse normalmente, così la ragazza aveva deciso di porre dei limiti. Gli aveva scritto chiedendogli se poteva chiamarlo, lui aveva acconsentito immediatamente, con una rapidità che tradiva il suo tormento. 

La ragazza gli aveva annunciato, soppesando le parole, alternandole a esitazioni che sperava fossero più eloquenti del suono della sua voce, che avvertiva una sensazione sgradevole, come se da parte dell’intellettuale si sprigionasse un desiderio cieco e appuntito nei suoi confronti, cieco perché non prendeva in considerazione i desideri di lei, appuntito perché penetrava nelle sue giornate impregnandole di una nube densa di rancore, bisogno e angoscia. 

Lui aveva taciuto qualche istante e poi le aveva risposto con la sola anima di ferro della sua voce: “Come ti permetti? Come ti permetti di credere di essere così importante, come fai a essere così arrogante?”

“Doveva essere così che funzionava con alcuni suicidi, aveva pensato la ragazza: l’idea della tua morte è un ronzio che si fa via via più assordante mentre i giorni scorrono e tu lavi i piatti”.

Improvvisamente le certezze della ragazza maturate nella solitudine si erano dissipate e si era trovata a farfugliare scuse vaghe, alle quali lui aveva contrapposto un silenzio di pietra. “Mi dispiace”, aveva continuato lei, “è che non voglio che questo rapporto sia minato da incomprensioni o cose non dette”. 

“Io non voglio forzarti a fare niente”, le aveva risposto lui. 

“Lo so”, aveva risposto lei. 

*

La ragazza parla con tutti gli invitati mentre l’intellettuale la segue come un’ombra, tentando di insinuarsi nelle sue conversazioni. Ma dal vivo la ragazza è giovane e spigliata, mentre lui, in preda all’ansia per l’indifferenza di lei, può contare solo su uno status che ha un valore astratto e che nell’immediato non interessa a nessuno. Ha lasciato il figlio senza supervisione, e alcune delle donne che li hanno accolti poco prima ora lo guardano scuotendo la testa con biasimo e richiamando l’attenzione del bambino, che continua a dedicarsi esclusivamente al videogioco, i cui colori sgargianti fanno impallidire il vigore della natura che lo circonda. La ragazza conversa con una donna bellissima di almeno una decina d’anni più grande di lei, una scrittrice, e mentre le parla la fotografa, lusingandola e godendosi i suoi sorrisi imbarazzati accompagnati dallo sguardo timido e spavaldo allo stesso tempo, tipico di certe donne che, nella vita della ragazza, avrebbero voluto che lei prendesse l’iniziativa per deresponsabilizzarsi rispetto alle loro azioni. La ragazza si gode l’impotenza dell’intellettuale, che sbraccia per comparire nelle sue foto, e che lei esclude sistematicamente, fingendo che sia invisibile e divertendosi a catturare gli sguardi di chiunque le parli per evitare che si posino sulla faccia rabbiosa dell’intellettuale.

Alcuni ospiti le propongono di vedere la torre, e la portano su per delle scalette di metallo anguste fino a una stanza circolare abbracciata da vetri sottili di colori diversi trafitti da raggi del sole che tingono l’ambiente di azzurro, oro e lilla, mentre sopra le loro teste migliaia di pulviscoli galleggiano pigramente come minuscole fate. L’intellettuale li segue e rimane in piedi mentre gli altri si siedono sulle sedie disponibili. La ragazza gira una canna con gesti precisi, e poi offre il primo tiro alla donna bellissima che ridacchia e accetta. La ragazza e la donna parlano di un libro di Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, che l’intellettuale non ha mai letto. Mentre le due discutono dell’interpretazione del racconto di sé secondo Hannah Arendt, l’intellettuale tenta di interromperle per dire loro che hanno torto, ma la ragazza e la donna stanno parlando di Hannah Arendt solo per gioco, non per vanità, e alla ragazza pare, dopo tutto quel vino e tutte quelle canne, che lei e quella donna indovinino la sagoma di un segreto antichissimo che non può essere rivelato a parole. Poi la ragazza allontana una ciocca di capelli dalla guancia della donna, che abbassa lo sguardo, e l’intellettuale si muove di scatto inciampando sulla gamba di una sedia e ruzzola fino alle scale, precipitandosi in giardino, mentre la ragazza e la donna e gli altri due ospiti arricciano le sopracciglia divertiti. 

*

Una mattina, poco prima della fine del lockdown, l’intellettuale aveva chiamato la ragazza dichiarando di aver preso in affitto un appartamento nella sua città, dove sarebbe arrivato entro poche settimane, per restarvi un mese intero. 

“Se l’hai fatto per me ti prego di ripensarci”, aveva risposto la ragazza. 

“Sei una cretina”, aveva ringhiato lui. “Io ho una vita che prescinde da te, sono stato invitato da un istituto di cultura, vengo anche con mio figlio. Avrò il diritto a vivere la mia vita senza che tu ne faccia parte? Sei talmente piena di te e talmente superba da non renderti conto della figura che fai. Sembri il personaggio di una serie tv scadente dell’est europa”. La ragazza aveva colto l’occasione per interrompere la conversazione senza una parola. Non si considerava superba o arrogante, era certa che l’intellettuale aveva messo a punto i suoi piani in funzione di lei. Era come se, avendo la ragazza ricamato per l’intellettuale un personaggio inesistente, ora fosse costretta ad assistere agli sforzi di un uomo che si impegnava a manipolare un fantasma.

Eppure, sebbene non fosse in balìa degli strali dell’intellettuale, si svegliava ogni giorno nella palude emotiva nella quale aveva sguazzato con lui nel corso dei mesi, e le sembrava che procedere nella vita non fosse poi così dissimile dal nuotare con i vestiti addosso. La parola “diritto” pronunciata dall’intellettuale le era poi continuata a tornare alla mente nei giorni successivi alla telefonata. La ragazza odiava quella parola, “diritto”, che con la sua pretesa di neutralità, buon senso e responsabilità civica lasciava intendere che al di sotto di essa si agitassero creature innominabili, guerre, scoppi d’ira, violenza latente pronta a stillare dalle crepe del “diritto”. Soprattutto nelle relazioni poi, lasciando da parte la politica, che senso aveva la parola “diritto”? La stessa cosa, forse in maniera ancora più netta, valeva per la parola “consenso”, che una sua amica al telefono aveva pronunciato, dicendo alla ragazza che l’intellettuale avrebbe dovuto chiedere il suo consenso prima di invadere la sua città.

Ma per la ragazza anche l’uso della parola “consenso” tradiva una visione del mondo che era, seppure realistica (un’altra parola odiosa), mortificante. Che nelle relazioni bisognasse concedere il consenso, negarlo o richiederlo, implicava che la fiducia negli altri esseri umani non poteva esistere senza una qualche forma di mediocre contrattazione. La ragazza si rifiutava di vivere così. Avrebbe trattato l’intellettuale rispettando le bugie che lui le rifilava, nella speranza che potesse tornare a essere (o essere per la prima volta) l’individuo libero che lei avrebbe desiderato che fosse fin dal principio. Le persone cambiano, e se c’era stata anche un’ombra di verità in ciò che li aveva legati fino a quel momento, lei avrebbe fatto appello a quella parte della mente dell’intellettuale che non era spaventata, che non si sentiva minacciata. “In fondo”, aveva detto la ragazza all’amica “se due persone si piacciono possono piacersi a prescindere dalla forma che la loro relazione assumerà nel tempo”. 

L’intellettuale e la ragazza: storia di una manipolazione -

“Ma a te lui piace?” aveva replicato la sua amica. La ragazza non aveva saputo cosa rispondere. 

Dal vivo, l’intellettuale era più sgradevole che in foto. Si muoveva senza alcuna grazia, e l’abbigliamento eccentrico non lo lusingava. Non appena atterrato, aveva chiamato la ragazza per chiederle cosa stesse facendo. “Sono a casa di amiche, se ti va di unirti…”, aveva risposto lei, sollevata all’idea di vederlo per la prima volta assieme ad altri. E ora era lì, seduto accanto a loro, con una faccia simile a un palloncino sgonfio, di cui la ragazza non avrebbe saputo descrivere i lineamenti neanche guardandolo a lungo. Le amiche erano su di giri, e l’intellettuale si sforzava di star loro dietro, animato forse dalla promessa, che si faceva sempre più vicina via via che la notte si infittiva, di uscire da quella casa con la ragazza.

La ragazza dal canto suo temporeggiava, stappava un’altra birra, girava un’altra canna, mentre le sue amiche, inebriate dalla gioia di vedersi dal vivo dopo così tanto tempo, piroettavano attraverso la stanza sorridendo in continuazione. Al momento di andar via, la ragazza era salita in ascensore con l’intellettuale sforzandosi di mantenere l’effervescenza anche da sola con lui, attenta a non fare passi falsi e scivolare sul terreno di dichiarazioni e sentimenti dove l’intellettuale intendeva condurla. Fuori dal palazzo la notte era di porpora, e i lampioni coloravano le foglie delle magnolie di una arancione artificiale, e quel clima così dolce e familiare di inizio estate mal si accordava al sentimento di alienazione che aveva invaso la ragazza da quando la voce dell’intellettuale si era fatta corpo. Ora le era chiaro quanto l’uomo fosse uno sconosciuto, che niente di ciò che era avvenuto nei mesi passati era vero, autentico. Ricordava di quando aveva letto di un caso clinico in cui dopo una lesione cerebrale il paziente era convinto che le persone care che vedeva fossero state sostituite da un organismo estraneo, ma se ci parlava per telefono allora quelle tornavano a essere le stesse di sempre. 

“Posso accompagnarti a casa?”

“Meglio di no”

“Ma ci vediamo questi giorni?”

“Vediamo, sì”

“Lo sai che sono qui per te”, era sbottato lui. “Non fare finta di non saperlo. Lo sai che sono venuto qui per vederti e stare assieme”.

“E sai anche che non era quello che volevo”. Lui aveva fatto un passo verso la ragazza, che era indietreggiata fino a sfiorare la pietra fredda del palazzo con le spalle nude. In quel momento si era accostata una pattuglia, e l’agente al volante aveva chiesto all’intellettuale e alla ragazza se andasse tutto bene. 

“Va tutto bene”, aveva risposto la voce di lui piena di stizza. La ragazza aveva approfittato di quell’istante per sfilarsi, lontana dal corpo dell’intellettuale e vicina agli agenti. In un attimo aveva slegato la bici tenendo lo sguardo fisso sui poliziotti perché la aspettassero andare via e si era allontanata in fretta lanciando un’ultima occhiata all’intellettuale che nell’oscurità rischiarata dai lampioni sembrava l’ultimo birillo ancora piedi. 

Nei giorni seguenti l’intellettuale le aveva scritto decine di messaggi di scuse. Lei non sapeva come fare. All’inizio non aveva risposto, ma il suo telefono continuava a illuminarsi di tutte quelle richieste martellanti e infine, dopo aver letto il tenore di quei messaggi, l’afflizione dell’intellettuale l’aveva avuta vinta. Ma la ragazza era risoluta: gli avrebbe parlato con ancora più chiarezza delle volte precedenti, non avrebbe lasciato spazio a nessuna ambiguità. “Vediamoci, va bene, però dobbiamo parlare”. 

L’intellettuale aveva prenotato in un ristorante modaiolo (“Ti prego, niente di romantico o impegnativo e facciamo sul presto”, aveva chiesto lei, sperando di vederlo con la luce del giorno) che il sole era già tramontato, e per protesta la ragazza aveva insistito per occupare il peggiore tra i tavolini esterni, in bilico sul marciapiedi a pochi centimetri dal passaggio sferragliante di un tram. Lì gli aveva spiegato – lo aveva già fatto? La ragazza non distingueva più ciò che aveva pensato da ciò che aveva detto  – che non voleva avere a che fare con lui romanticamente, che il suo arrivo in città era stato aggressivo, che continuava a imporre le sue decisioni senza mai prenderla in considerazione, che per lei non era quelli i patti di una relazione di qualunque genere. L’intellettuale l’aveva ascoltata annuendo e poi le aveva detto: “Mi spiace che tu sia così spaventata dall’amore. Io non voglio stare con te, figuriamoci, io non vorrei mai una relazione che non fosse aperta, libera. Io vedo anche altre donne – qui si era lanciato in una dettagliata rassegna delle bellissime attrici con cui aveva flirtato negli ultimi tempi e dei suoi futuri appuntamenti – quindi ti assicuro che quello che tu percepisci come aggressivo è in realtà un gesto di amore, non romantico, ma proprio amore puro, desiderio di stare assieme. Ma ti hanno fatto troppo male, forse, e quindi non riesci a capirlo”.

“Il suo corpo non esisteva, lo sguardo degli altri non esisteva, esisteva solo ciò che lei raccontava all’intellettuale e ciò che l’intellettuale raccontava a lei”.

La ragazza era stremata, non aveva più neanche l’energia per controbattere. Aveva ordinato solo un antipasto, bevuto alla svelta il vino (solo un calice) e in mezz’ora aveva terminato la cena. L’umore dell’intellettuale d’altra parte era sempre più cupo, offriva dessert, bottiglie di vino, finché a un certo punto lei si era alzata dichiarando che sarebbe andata a casa, poteva anche saldare lei il conto, purché quello strazio finisse. L’intellettuale si era affrettato a pagare, ma quando lei aveva cercato di salutarlo, lui le aveva detto che aveva altre cose importanti da dirle, e che gliele avrebbe dette scortandola fino a casa. In realtà nel tragitto non le aveva detto un bel niente, le aveva parlato del libro che stava scrivendo e magnificato un progetto editoriale che avrebbero potuto costruire assieme, magari sulla falsariga del saggio di Nussbaum, l’aveva trovato interessante, no? Potevano parlare di libri da prospettive diverse, sarebbe stato un successo.

La ragazza era spossata, stare accanto all’intellettuale era come camminare dentro scarpe di cemento, e quando infine erano giunti sotto il suo portone l’intellettuale le aveva chiesto di salire. Alla ragazza erano brillati gli occhi: in quei giorni da lei c’era una sua amica, l’intellettuale non lo sapeva, e l’unica vendetta possibile in quel momento era pregustare, e poi gustare, la delusione dell’intellettuale una volta giunti a casa. E infatti l’intellettuale quasi non aveva creduto alla docilità con la quale la ragazza aveva accolto la sua idea, e mentre la ragazza infilava le chiavi nella serratura riusciva quasi a sentire la fibrillazione del corpo di lui dietro al suo, e infine, una volta dentro, si era girata verso di lui, e con espressione trionfante aveva urlato: “Ciao tesoro!”, assaporando la faccia di lui liquefarsi. 

“C’è qui un’amica, sta da me qualche giorno”

L’intellettuale non aveva risposto. L’amica era trotterellata in ingresso e li aveva salutati calorosamente inondandoli di domande: com’era il ristorante? Lo avrebbero consigliato? Cosa avevano mangiato? Avevano bevuto vino naturale? Era costoso? 

Poi si era seduta sul divano e aveva iniziato a elencare tutto ciò che era successo nella sua giornata mentre versava birra gorgogliante in tre bicchieri facendo cenno ai due di sedersi con lei. L’amica era dislessica, e spesso quando erano insieme la ragazza le correggeva le email di lavoro, che erano immancabilmente piene di refusi. Le aveva anche consigliato di indicare nella firma mail di essere dislessica, magari con una battuta, ma l’amica ne era imbarazzata, preferiva tenersi i propri errori e poi raccontare alla ragazza le conseguenze che ne scaturivano, e a volte si sganasciavano leggendo le mail che aveva mandato nel corso della giornata, e infatti in quel momento l’amica le aveva mostrato sullo schermo del cellulare un messaggio perentorio mandato a un cliente in cui si chiedeva conto del “culo di utenti sulla pittafomra negli utlimi mesi”.  Si era quindi lanciata nel minuzioso racconto di un litigio con sua madre, una donna eccentrica che oramai ci stava poco con la testa, e che le faceva richieste assurde che lei non poteva o non voleva esaudire – per esempio portare i suoi tre cani identici e a pelo corto dal parrucchiere durante gli orari di lavoro della figlia.

Era stata una sorpresa per entrambe, forse anche per l’intellettuale, quando quest’ultimo aveva detto: “Ha ragione tua madre, e tu sei un’egoista”, e questa frase era risuonata come un ramo secco che si spezza, e ora l’eco di quello schiocco fluttuava sopra le loro teste. “Da tutto ciò che racconti sembra che tu non abbia mai pensato a nessun altro che non fossi tu in tutta la tua vita”, aveva proseguito lui. “I tuoi colleghi devono ricevere queste mail scritte male e incomprensibili e tu ridi, e pure tu”, aveva proseguito guardando la ragazza, “siete due ragazze stupide e ignoranti, non vi rendete conto di niente, non amate niente”. Quindi si era fermato, e il suo corpicino vibrava, come quello di un bambolotto con un motore difettoso al proprio interno. Le due amiche si erano guardate e la ragazza aveva detto: “È meglio che tu vada adesso”, e si era alzata per attenderlo sulla porta. Lui le si era avvicinato e aveva provato ad avvinghiarsi a lei mentre si scusava e le chiedeva perdono, ma lei aveva opposto resistenza, e alla fine lui aveva abbandonato le braccia lungo i fianchi e infilato la porta. Mentre lei stava per chiuderla però, si era girato a guardarla con un’espressione di tristezza così infantile e sincera che la ragazza per un attimo aveva intravisto la silhouette di un bambino solo su una spiaggia grigia che perlustra il mare alla ricerca di qualcuno che non è destinato a tornare. 

*

La ragazza ora vaga sola per il giardino della villa rivolgendo sorrisi distratti agli altri ospiti dall’aria rilassata stesi sul prato o assiepati attorno a un uomo con i baffi che suona la chitarra. Ha la mente lieve per l’alcol e l’erba, eppure non riesce a soffocare la consapevolezza che l’intera giornata fino a quel momento è stata percorsa da una battaglia silenziosa alla quale, in fondo, non avrebbe voluto prendere parte. L’unica gratificazione che oramai trae dalla relazione con l’intellettuale è umiliarlo. Sa di aver sbagliato ad andare alla festa con lui, doveva starsene a casa. Ma quando gli ospiti le avevano scritto invitandola nella loro villa la città era rovente e lei non sapeva come raggiungerli, e loro le avevano detto che sicuramente qualcuno le avrebbe offerto un passaggio, anzi, avrebbero chiesto agli altri invitati di mettersi in contatto con lei. Poi, qualche minuto dopo, le aveva scritto l’intellettuale offrendole uno strappo e chiedendole scusa, scusa, scusa e ancora scusa per come si erano lasciati l’ultima volta, e che se lei gli avesse dato un’ultima possibilità le cose sarebbero andate diversamente. Così, ricordando lo sguardo di qualche giorno prima, aveva accettato.

Da domani, pensa la ragazza, non lo vedrò mai più, e in un attimo quel pensiero le riempie d’aria i polmoni e si sente già libera, proiettata in un futuro in cui i suoi pensieri non saranno più sbavati dall’umore di lui, in cui le sue scuse non sortiranno alcun effetto, in cui la persona ideale che lei aveva immaginato che lui fosse sarebbe stata lavata via dalla risacca della realtà. La ragazza giunge in una radura perfetta, orlata di ornielli dalle bianche cime fiorite che proiettano ombre benevole sulla terra nera e umida. Lì c’è una panca, e la ragazza vi si siede. Estrae dalla borsa i suoi auricolari e ascolta: When I was done dying, my conscience regained / So I began my struggle, a nothingness strained; la ragazza chiude gli occhi e riapre le palpebre solo in certi momenti, ma pochissimo, perché dalle fessure le immagini del mondo le giungono come pennellate di luci confuse e dolcissime, e infine si assopisce mentre la musica prosegue: As I fell asleep softly at the edge of a cave / But I should have gone deeper but I’m not so brave.

E poi d’un tratto sente i polsi stretti in una morsa e il suo corpo bloccato, e non riesce ad aprire gli occhi e per un secondo teme che sia un’allucinazione ipnagogica come le aveva da bambina quando dormiva il pomeriggio e le pareva che la casa fosse piena di ladri e assassini e lei fosse immobilizzata, ma la pressione questa volta ha una qualità diversa, è vera, è pesante. Poi sente un grumo umido, una lingua!, che cerca di schiuderle le labbra con forza, apre gli occhi ma è tutto confuso alla vista, non riesce a capire cosa la stia schiacciando, e l’alcol e l’erba la rendono così lenta ma così lenta che impiega quella che le sembra una vita intera a capire che quella massa che la paralizza è l’intellettuale, e mentre se ne accorge le pare assurdo non averci pensato prima e al contempo le pare assurdo che si stia verificando una violazione così palese del suo spazio e del suo corpo, e allora grida e scalcia e poi è come se qualcuno avesse spento il televisore, e nei ricordi della ragazza, anche nei giorni, nei mesi, negli anni successivi, è tutto buio. La coscienza della ragazza riprende a scorrere mentre lei è in piedi su un balcone della villa – come è finita lì? – e sta piangendo, e la donna bellissima le è accanto e le dice che non è successo nulla, lo hanno mandato via, l’intellettuale ha insistito per accompagnarla a casa ma non lo hanno permesso, non è successo niente neanche in giardino, ti abbiamo sentita, ora va tutto bene. 

L’intellettuale e la ragazza: storia di una manipolazione -

La ragazza trascorre la notte dagli ospiti, piena di imbarazzo. Le hanno offerto una camera al pian terreno, e la donna a cui la stanza era destinata si è arrangiata con un giaciglio di fortuna sulla torre. Nessuno ha fatto commenti di alcun tipo, nessuno le ha chiesto nulla, non ha più visto la donna bellissima dopo l’incontro sul balcone, se ne deve essere andata via poco dopo, mentre lei giaceva immobile sul letto senza pensare a niente. La ragazza non riesce a dare una forma a quanto avvenuto. Dalle testimonianze e dai racconti di molte donne che ha letto nei libri o in rete si è persuasa che esistano due forme di violenza sessuale, una legata al potere e una legata alla forza.

Nel primo caso la ragazza ha incluso le esperienze avvenute all’interno della gerarchia professionale, dove un uomo in una posizione apicale si approfitta di una sua sottoposta che non è in grado o non vuole sottrarsi; nel secondo caso invece l’atto di forza di un uomo nei confronti di una donna è un’azione violenta che sfonda la barriera invisibile dello spazio personale con la sola potenza fisica, è quello che succede in guerra o nei trafiletti di cronaca cittadina quando si legge di giovani donne aggredite mentre tornano a casa. La ragazza non si è mai sentita succube o inferiore rispetto all’intellettuale che, anzi, gli è parso in più occasioni repellente e debole, e da lui non ha mai voluto nulla di concreto a livello lavorativo. Per giunta l’intellettuale non è imponente o minaccioso, e non si è mai sentita davvero in pericolo in sua presenza, il solo fatto che da ubriaca si sia riuscita a divincolare dimostra che anche fisicamente non c’è chissà quale squilibrio tra di loro.

Eppure, distesa sul letto di una camera non sua, prende il telefono e blocca l’intellettuale su tutti i social, terrorizzata dall’idea di un suo contatto. Ha provato a chiamare qualche amico già dalla sera stessa, ma nessuno può venirla a prendere così lontano e in così poco tempo. “Posso venire, ma domani mattina”, le ha risposto uno di loro. Quando il giorno dopo l’amico appare, alto e dinoccolato nella sua automobile scalcagnata, alla ragazza pare di aver attraversato un deserto sterminato senza amici, una traversata durata mesi, anni, e ora che lo vede avanzare verso di lei le pare quasi che luccichi. Saluta gli ospiti con una punta di disagio, certa che non li rivedrà più e che lei e l’intellettuale saranno per loro i protagonisti di una storia curiosa che forse racconteranno in un’occasione simile a questa. In macchina l’amico le racconta del suo lavoro, di sua mamma che sta poco bene, e le dice che se vuole può raccontargli l’accaduto. Lei gli dice che preferisce di no, preferisce ascoltarlo parlare mentre l’automobile scivola sulla strada nera tra le colline gialle e verdi. Stende un braccio fuori dal finestrino, sente il calore del sole sulla pelle e per un solo, brevissimo, istante prova una pietà profondissima per l’intellettuale: deve sentire un ronzio assordante nelle orecchie.

Questo racconto è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

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Le illustrazioni del racconto di Irene Graziosi sono realizzate da ZUZU.
© 2024 ZUZU in accordo con Rulez. Tutti i diritti riservati.

Irene Graziosi

Irene Graziosi è autrice, scrittrice e responsabile editoriale di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).

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