Daniele Manusia
27 Aprile 2023
Cosa significa essere padre, figlio ma soprattutto tifoso? A volte, l’amore per la propria squadra del cuore può entrare in conflitto con quello per i propri cari.
La Roma ha perso un altro derby. Ormai ho smesso di contarli, i derby persi. Tengo nota, però, di quelli giocati – e quindi vinti, pareggiati o, aimé, persi – da quando è nata mia figlia. Come fossero gli incontri di un pugile, al momento il record di mia figlia nei derby è: 2 vittorie, 2 pareggi e – ailei – 5 sconfitte.
Il primo si è giocato dopo neanche un mese dalla sua nascita. La Roma lo ha perso 3-0. Felipe Caicedo, Ciro Immobile su rigore, Danilo Cataldi a un minuto dalla fine. Quello stesso giorno dopo la partita ho incontrato un vicino di casa, laziale, mentre armeggiavo con le chiavi nel portone del palazzo con mia figlia in braccio.
Lui un settantenne con i capelli rasati sui lati e sulla nuca, sempre vestito con tute polo e d’estate pantaloncini della Lazio. Che passava la propria vita, il tempo libero della propria pensione per cui le generazioni passate si sono battute e, altrove, anche quelle presenti si battono, a parcheggiare la macchina davanti a un passo carrabile a pochi metri dal portone del palazzo.
Aveva un accordo con il proprietario del garage e in caso servisse, sarebbe dovuto scendere a spostare l’auto per farlo uscire o entrare. Ma dato che la sua macchina era sempre lì le altre persone del quartiere hanno iniziato a pensare che il passo carrabile non fosse valido e, trovando libero il posto le rare volte in cui il mio vicino prendeva la macchina per andare a fare la spesa (a cento metri di distanza) o perché la prendeva la figlia post-adolescente, ci mettevano la loro. Per cui, controllava stando in finestra – come faccio a dire a mia moglie che quando sto guardando fuori dalla finestra affinché nessuno si metta sul MIO passo-carrabile in realtà sto lavorando? – e in caso litigava, finché una sera fu costretto a chiamare la polizia.
Ad ogni modo, non so perché provavo a creare un rapporto con questo specifico vicino laziale antipatico. E il giorno di quel derby, il primo derby di mia figlia, Lazio-Roma 3-0, Caicedo che salta il portiere dopo neanche un quarto d’ora, Immobile che segna su rigore nel secondo tempo e Danilo Cataldi figlio di Roma come me che segna da fuori area allo scadere e si toglie la maglia e corre sotto la (sua) curva, lo incrocio sul portone e ci scambio una battuta.
O meglio, mi sento in dovere di fare una battuta del tipo: “Pensavo che mia figlia avrebbe portato fortuna al suo primo derby e invece…”. Lui, senza nessuna ironia, forse anche per i pianti notturni e in generale i rumori che un bambino nuovo di zecca porta in un palazzo con le mura e i soffitti sottili (rumori che tre anni dopo lo avrebbero portato a traslocare) risponde: “Non te la prendere con lei. Sei te che tifi la squadra sbagliata. Poverina, lei”.
Mio padre era laziale. Mio zio, il fratello minore di mia madre, però, era più insistente. E poi sono nato due anni prima che la Roma vincesse il suo secondo scudetto, qualche influenza su di me, quei colori di cui fu dipinta la città in quei giorni, deve averla avuta. Nonostante il suo solito signorile distacco, mio padre una volta provò a farmi cambiare idea, portandomi a una partita della Lazio in un’età in cui chissà, forse, sarebbe ancora potuto essere possibile.
Era la stagione ‘89-’90, in cui Roma e Lazio giocavano nello stadio Flaminio per via dei lavori di ristrutturazione dell’Olimpico in vista del Mondiale. Non ricordo che partita fu – della Roma le ricordo tutte quelle viste allo stadio, la prima in assoluto fu un Roma-Cesena della stagione prima, finita 1-0, gol di Rudi Voeller, vola tedesco vola – in compensò non dimenticherò mai il laziale che a un certo punto tirò un ombrello al guardalinee che aveva davanti a pochi metri, oltre la recinzione.
Quando, dopo qualche minuto, cominciò a piovere, quello stesso laziale gli chiese l’ombrello indietro. E passò il resto della partita a chiederglielo alternativamente con gentilezza, vittimismo, disperazione, rabbia e minacce e poi, di nuovo, gentilezza, vittimismo eccetera. Facendo su e giù lungo la linea laterale insieme a lui.
La Roma ha perso un altro derby. Ormai ho smesso di contarli, i derby persi. Tengo nota, però, di quelli giocati – e quindi vinti, pareggiati o, aimé, persi – da quando è nata mia figlia
Da ragazzino ho visto qualche derby con mio padre, a casa di mia nonna (sua madre) dove vivevano anche mia zia (sua sorella) e il marito, che fumava sigarette come se stesse sorseggiando bicchieri d’acqua, romanista come pochi altri abbia conosciuto. Mio padre è sempre stato un laziale sportivo ma ironico e non ci sarebbe potuto essere contrasto più forte di quello con un uomo che sembrava comunicare più volentieri con pugni sul tavolo, di diversa intensità a seconda del significato, pugni e pugnetti che ambivano a sostituire parole e frasi intere.
Di quei derby però ricordo solo il fumo, l’attesa per la fine primo tempo per uscire a respirare sul balconcino, la schiena di quell’uomo – a cui ho voluto bene e a cui, il giorno del suo funerale, ho scoperto volevano bene molte persone di quel quartiere popolare, dove il Duce aveva costruito palazzi per gli impiegati delle Poste – a pochi centimetri dal televisore. Di mio padre, in quei derby, ricordo solo le battute quando la Lazio vinceva, piccole provocazioni che cadevano nel vuoto.
Quando la Roma vinceva invece era contento per me. Facile così, pensavo io, che non riuscivo a essere contento per lui quando vinceva la Lazio. Chissà cosa avrebbe risposto se gli avessi detto, il giorno di quel 3-0, che mia figlia aveva portato sfortuna nel suo primo derby. Di sicuro qualcosa di più articolato di Poverina, lei.
Che cosa ci dice il calcio sull’amore tra uomini, tra padri e figli? E tra padri e figlie? Forse è stata una mancanza di amore la mia, la scelta di tifare una squadra diversa da quella di mio padre? Un rifiuto del suo amore? Eppure ero così piccolo, mio padre non mi aveva ancora fatto niente di male, o almeno credo.
E se invece fosse stata una scelta saggia e in quella distanza rispettosa, la sua nei confronti della mia passione, la mia nei confronti di un’identificazione tossica che comunque non ho potuto evitare, ci fosse stata una forma di amore unica, solo nostra? Se nel dire “mio padre è laziale”, come facevo sempre da giovane e faccio tutt’ora, usando però il verbo al passato, ci fosse la testimonianza del nostro rapporto diverso da tutti gli altri, che andava oltre la banalità dell’abbraccio tra sconosciuti allo stadio (che in realtà non ha niente di banale, penso oggi).
Se ci fosse però, quanto meno, un rifiuto di un conflitto vero e proprio, l’impossibilità di odiare davvero i rivali cittadini come sarebbe stato impossibile per me odiare davvero mio padre (anche se poi, come tutti, l’ho odiato eccome)? A pensarci bene che razza di amore è quello tra uguali? Senza la diversità non può esserci amore.
Di quei derby però ricordo solo il fumo, l’attesa per la fine primo tempo per uscire a respirare sul balconcino, la schiena di quell’uomo – a cui ho voluto bene e a cui, il giorno del suo funerale, ho scoperto volevano bene molte persone
Allora forse mi spiego il divertimento e il piacere nel portare un amico laziale in Curva Sud nel derby del novembre ‘99, Roma-Lazio 3-1, Delvecchio, Delvecchio, (Vieri), Totti. Lui imbucato, in silenzio, fumato fino alla radice dei capelli per sopravvivere a quell’esperienza estrema, noi bastardi fino alla punta dei capelli che provavamo in tutti i modi a smascherarlo. E quando sul gol di Vieri lui non riuscì a trattenere un urletto, forse troppo a proprio agio nel secondo tempo, ci è toccato proteggerlo.
Che sarebbe successo se la Lazio avesse segnato il 2-2? Poi per fortuna è arrivato Totti che, dopo un tunnel di Alenitchev in area di rigore, ha calciato due volte in porta, la prima su un difensore, la seconda nella rete di porta, con violenza crescente.
L’anno prima, quello dei quattro derby persi consecutivamente tra campionato e Coppa Italia, dopo quello che ha chiuso il ciclo, 2-0, Boksic e Nedved, misi fieramente la sciarpa per andare a scuola. E poi, per farmi vedere da più persone possibile, non andai a scuola ma in sala-giochi, a giocare a biliardo e in giro per Roma in motorino.
Non ero tipo da mettere la sciarpa, io, anche se era marzo. Non ero tipo da trasferta, da scontri, da puncicate. Il mio amore per la Roma si fermava lì, a quella sciarpa indossata orgogliosamente nel momento più difficile. Ne avrei vissuti di peggiori, e ogni volta avrei reagito allo stesso modo: dopo una brutta sconfitta in un derby, dopo un 7-1 subìto in coppa, io mettevo la sciarpa. Dopo le vittorie o durante le partite, invece, no.
Come un amante che si tatua il nome della fidanzata dopo che quella lo ha lasciato, dopo che è andata con un altro. In quei giorni mio padre non infieriva e io lo cercavo, sadomasochisticamente volevo parlare con lui, volevo rivivere gli episodi cruciali della partita, cosa poteva andare diversamente, ridurre la gravità della sconfitta della (mia) Roma. Si prestava al gioco, ho sempre parlato più di lui e non me lo ha mai fatto pesare, annuiva, mi dava almeno in parte ragione.
A volte i ruoli quasi si invertivano. Credo che a lui Totti piacesse più di me, lo difendeva anche quando, nel 2004, io ero arrabbiato perché dopo aver segnato il gol del 1-1 su rigore anziché sbrigarsi a ricominciare a giocare era andato a fare una delle sue esultanze scenografiche, quella dietro la telecamera.
Ma da quando il presidente della Lazio è diventato Claudio Lotito si è rotto qualcosa, dentro mio padre. Quel poco di laziale che c’era in lui si rimpicciolì ulteriormente. Ricordava quando molti anni prima aveva avuto una riunione di lavoro con Lotito, che era venuto a trovarlo nel suo ufficio e gli aveva chiesto di usare il telefono, per poi restarci un’ora o più, senza curarsi di mio padre che aspettava o del costo della telefonata stessa. E adesso quello stesso uomo che gli era sembrato così volgare, inferiore a sé, era diventato talmente ricco, talmente di successo, da diventare proprietario della squadra del suo cuore. Mentre lui… Poi le cose sono peggiorate, non per colpa di Lotito.
Non ero tipo da mettere la sciarpa, io, anche se era marzo. Non ero tipo da trasferta, da scontri, da puncicate. Il mio amore per la Roma si fermava lì, a quella sciarpa indossata orgogliosamente nel momento più difficile.
Negli ultimi anni, dato il crescente disinteressante per il calcio come per le altre cose del mondo esterno, ero io a parlargli bene della Lazio per provare a ravvivarlo. Gli ho spinto il talento di Immobile fino a farmelo piacere a mia volta, fino a sentirlo (quasi) mio. Lui non era entusiasta. Nella sua vita tutto il presente era un passato peggiorato, aveva visto Signori, Salas, Mancini, Klose, Chinaglia, chi era Immobile in confronto a loro? Alla fine, quando la Lazio vinceva un derby, riuscivo a essere contento per lui, pensando a lui.
Mio padre è morto il giorno di un derby. Era malato da tempo, eravamo corsi all’ospedale già due volte per due pneumotorace e quel giorno non capii subito cosa stava succedendo. Ero andato a trovarlo, nella stanzetta da cui non usciva più ormai, con vista sul muro di un parcheggio, con le vetrate che si illuminavano di rosso quando le auto frenavano e i gabbiani sul tetto basso che facevano chiasso e un cane di piccola taglia che in un balcone vicino abbaiava tutto il giorno finché la padrone non tornava a casa.
Lui non si lamentava, perché tutto era meglio dell’idea di uscire di lì. Non aveva fame quella mattina, come non aveva fame le altre mattine, ma fece lo sforzo di mangiare un cornetto con il caffellatte. Il cornetto glielo avevo portato io, il caffellatte se l’era preparato da solo e a pensarci adesso mi sembra un miracolo, a quell’ora la sua saturazione doveva essere già scarsa.
Mentre mangiava, inzuppando le parti molli, quelle interne, del cornetto nel caffellatte, gli leggevo il Corriere dello Sport. Le formazioni, le interviste agli allenatori, Inzaghi e Spalletti. Lui reagiva appena, guardava nel vuoto e fingeva di ascoltare, era confuso ma non me lo diceva.
Poi venne mia sorella, io andai via, a pranzo con un’amica. Mia sorella prese i parametri col saturimetro pensando fosse rotto, poi chiamò un’ambulanza. Al Pronto Soccorso guardavo l’orologio, mi chiedevo se sarei riuscito a vedere il derby. In sala d’attesa poi leggevo il risultato e la cronaca scritta male, di tanto in tanto.
Non c’era altro da fare, mia sorella non voleva parlare di niente. Al 66esimo la difesa della Lazio intercetta un passaggio al limite dell’area, Kevin Strootman va in pressing su Walace, difensore centrale, che per qualche ragione prova a saltarlo con un gioco di gambe complicato. Strootman gli toglie palla, poi fa cenno a Dzeko di spostarsi, di togliersi da davanti a lui, come i carabinieri che agitano la paletta per far passare le auto dei politici, e fa gol. Poco dopo Nainggolan raddoppia con un tiro rasoterra da quasi trenta metri.
Tra i due gol sono passati tredici minuti. Tra i due gol una dottoressa ci fa entrare in un ufficio per comunicarci il decesso di nostro padre. Probabilmente era successo prima, non so esattamente quando, prima del primo gol, ma ce lo stava dicendo solo in quel momento.
Quella sera tornando a casa ho rivisto i gol di Strootman e Nainggolan. Davanti al tentativo forzato e goffo di Walace, il contrario dell’eleganza che deve essere naturale fino a sembrare casuale, non voluta, ho pensato a lui. Chissà papà quando lo vede, mi sono detto. E poi: almeno questo se l’è evitato.
Daniele Manusia
Daniele Manusia è scrittore e giornalista. Ha fondato e dirige «l’Ultimo Uomo». Il suo ultimo libro è “Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile” (66thand2nd, 2021).
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