Perché ci piacciono i dinosauri? - Lucy
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Massimo Sandal

Perché ci piacciono i dinosauri?

I bambini amano i dinosauri di un amore febbrile. Crescono tra libri, film, fumetti, giochi da tavolo, pupazzi che li raffigurano. Un'ossessione che per molti continua anche da adulti. Unica, perché nasce all’intreccio tra scienza e immaginazione, tra mito e realtà, tra desiderio e delusione.

Come molti genitori, per un paio d’anni almeno ho vissuto in una provincia del Mesozoico, dalla vasca da bagno ai mobili della cucina: dinosauri. Code, squame, denti, artigli, in gomma o in carta. Dipinti con l’acquerello su un foglio o accuratamente scolpiti nella plastica. Dinosauri ricamati sulle lenzuola, sfoggiati su magliettine e calzini. La mia vita è stata punteggiata dai dinosauri. Ma è anche per mia colpa, mia grandissima colpa; è un’ossessione che ho portato come un dono, da padre a figlio. Innumerevoli volte io e lui abbiamo sfogliato lo stesso Grande Libro della Preistoria di Giorgio P. Panini, edito nel 1982, che io consumai durante la mia infanzia, tanto da distruggerne la copertina. 

I dinosauri sono uno dei più comuni interessi intensi che divorano i bambini tra i 3 e 6 anni, secondo solo ai mezzi di trasporto – lo sa chiunque abbia avuto un’infanzia o abbia letto Calvin & Hobbes. È una passione benefica. Ed è per questo che va eliminata, innanzitutto, la stupida resistenza culturale che considera i dinosauri, come altri argomenti scientifici, non adatti alle femmine – nonostante un numero significativo di importanti paleontologhe (che hanno dovuto superare, inoltre, le numerose barriere storicamente incontrate dalle donne in questo campo). È vero però che, come tutti gli interessi ossessivi dell’infanzia, la passione per i dinosauri tende a essere generalmente più diffusa tra i maschi.

Con i dinosauri, per la prima volta nella loro vita, sono i bambini a essere gli esperti. È mio figlio che mi insegna, che conosce i dinosauri come e meglio di me; è lui che mi ricorda cosa mangiavano, quali fossili sono stati trovati e dove. È una sensazione inebriante, che ricordo bene, perché ci sono passato anch’io da bambino. I dinosauri non finiscono, non sono una storia qualsiasi: sono un catalogo inesauribile che porta sempre a nuove scoperte. E sono anche, spesso, la prima connessione con la scienza. Una scienza accessibile – raramente astrusa, almeno al livello a cui la si narra a un bambino, non c’è bisogno di comprendere le matrici di caratteri di un albero filogenetico per capire l’eccezionalità di un tirannosauro – che però insegna come le cose vengono scoperte, insegna che possiamo ricostruire la realtà tramite indizi frammentari da interpretare, e che l’intelligenza permette di dedurre esseri che non vediamo. 

Borges scriveva che “dire ‘la tigre’ è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò, il pascolo di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu madre del pascolo, il cielo che dette luce alla terra”. Allora dire “dinosauro” è dire la loro estinzione, dire il concetto di tempo profondo, dire l’esistenza di una storia passata, dire l’evoluzione. I dinosauri sono la soglia per entrare in contatto con un tipo di complessità di pensiero prima, per loro, inimmaginabile. 

1. Nascita di un’ossessione

Quest’ossessione degli esseri umani per i dinosauri ha una lunga storia. Popoli europei e non europei, dai cinesi ai nativi americani, avevano forse riconosciuto nelle ossa fossili, incluse quelle di dinosauro, qualcosa di mitologico, di sovrannaturale. Ma la mitologia occidentale dei dinosauri nasce solo nel XIX secolo, quando ne vengono scoperti anche in questa parte di mondo i primi resti.

“È mio figlio che mi insegna, che conosce i dinosauri come e meglio di me; è lui che mi ricorda cosa mangiavano, quali fossili sono stati trovati e dove. È una sensazione inebriante, che ricordo bene, perché ci sono passato anch’io da bambino”.

Duecento anni fa, il 20 febbraio 1824, William Buckland pubblicò la descrizione del Megalosaurus, il primo dinosauro conosciuto alla ricerca scientifica. Poco tempo dopo Charles Lyell, padre della geologia, teorico di una visione ciclica della storia, avrebbe ipotizzato che i dinosauri avrebbero potuto tornare un giorno, se le condizioni lo avrebbero permesso. Non si era accorto che lo stavano già facendo: sotto forma di meme, nel senso originario del termine: brulicavano già come agenti infettivi nella nostra cultura, nelle illustrazioni e nei musei. 

Si sapeva da pochissimi decenni che nel passato vivevano specie estinte: se finora i fossili erano stati considerati scherzi di natura o resti di specie ancora esistenti, nel 1796 Georges Cuvier aveva dimostrato che i mastodonti americani appartenevano a una specie che non esisteva più. Ma solo con i dinosauri si sarebbe scoperto quanto era remoto e magnifico quel passato. Tecnicamente, va detto, i primi fossili del Mesozoico a catturare l’immaginazione non furono di quelli che oggi i paleontologi classificano come dinosauri. Prima ci furono gli ittiosauri e i plesiosauri scoperti da Mary Anning, descritti negli anni Dieci del XIX secolo. Da bambini li abbiamo ritenuti, e anche oggi possiamo ritenerli, dinosauri ad honorem, anche contro la tassonomia: erano comunque rettili bizzarri e temibili che abitavano un mondo perduto. 

All’inizio, comunque, la vittoria culturale dei dinosauri non era scontata. Mammut e altri giganti mammiferi cenozoici come il Megatherium, per esempio, erano simboli egualmente affascinanti della preistoria. Probabilmente il punto di svolta fu la costruzione del primo parco a tema: le sculture di dinosauri installate – e tuttora visibili – al Crystal Palace Park di Londra nel 1854. A consolidare poi il posto dei dinosauri nell’immaginario furono le cosiddette bone wars, le guerre di scavi con cui Edward Drinker Cope e Othniel Charles Marsh si contesero i fossili del selvaggio West, il ritrovamento degli iguanodonti di Bernissart nel 1878, giganti bipedi che vivevano in branco, infine la scoperta del Tyrannosaurus rex nel 1902. La svolta finale e definitiva è dovuta però, decenni dopo, a Jurassic Park. Un libro e, soprattutto, un film che riuscirono a creare una intera generazione di paleontologi. 

La paleontologia aveva a quel punto già compreso, durante quello che viene chiamato il “Rinascimento dei dinosauri” degli anni Settanta, che non si trattava di abulici e falliti lucertoloni ma di esseri guizzanti, svegli, a sangue caldo. Certo, i dinosauri non erano mai scomparsi dalla cultura pop: reincarnati nei Godzilla, erano stati i surreali pet dei Flintstones, o i protagonisti di una famosa sequenza di Fantasia di Walt Disney. Ma fu Jurassic Park a farli risorgere nell’immaginario collettivo, esattamente come essi risorgono nel libro e nel film grazie all’ingegneria genetica. Fu uno dei numerosi colpi da maestro di Michael Crichton: toglierli dalla polvere, proiettarli come un prodotto del futuro e non del passato, finendo per ispirare i tentativi reali e attuali di “biologia della resurrezione”. 

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Jurassic Park racconta tra l’altro una cosa tanto elementare quanto fondamentale: i dinosauri vanno benissimo ma solo finché non esistono. Se ci limitiamo a sognarli si può rimuovere il conflitto, che è la forma principale del nostro rapporto con la biosfera. I film del franchise sottolineano bene che, nel momento in cui i dinosauri sfuggono all’immaginario per invadere la realtà, life, uh, finds a way, e la situazione precipita. Tranquilli però. Per quanto ne sappiamo, non c’è speranza di ritrovare DNA di dinosauro, nell’ambra o altrove, con cui dare il via a una nuova generazione. I dinosauri sono chiusi per sempre nel recinto della nostra immaginazione, e non c’è guasto o teoria del caos che possa farli ritornare sulla Terra. In questo modo restano rassicuranti, come personaggi dei fumetti o dei cartoni animati: fanno paura ma sono del tutto innocui, sono mostri ma anche nostri amici, sono reali ma non ci possono toccare. È un dualismo che ci attrae immediatamente: possiamo interagire con loro in totale sicurezza. Sono le perfette montagne russe del fantastico. 

2. Una leggenda inafferrabile

Abitanti dell’immaginazione, ma non creature dell’ immaginazione: i dinosauri sono stati vivi e veri per 180 milioni di anni, una quantità enorme di tempo, migliaia di volte più presenti della nostra specie. Il mondo dei dinosauri non dipende quindi dai capricci del world building di uno scrittore, non c’è un George R. R. Martin da pungolare perché prosegua la storia. È un mondo che emerge di continuo grazie alla paleontologia, indipendente e superiore alla nostra fantasia. È un modo che però si rivela in modo esoterico, criptico: lo evochiamo, con rare eccezioni, partendo solo da una manciata di ossa. Da queste è possibile dedurre moltissimo, più di quanto si possa pensare; ma non è possibile dedurre tutto. 

I dinosauri sono quindi anche un mistero, in parte destinato a restare tale. Il velo che ricopre i dinosauri è anche una tela su cui possiamo disegnare quello che vogliamo. Cartoni animati, film, documentari, giocano con i dinosauri e abbandonano più o meno il rigore per sfruttarli come personaggi, creando una sorta di fan fiction, delle libere variazioni sul tema: da Il mondo perduto di Conan Doyle alla serie fantasy Dinotopia di James Gurney, del 1992, con storie e dipinti di un’isola in cui i dinosauri coesistono con una esotica civiltà umana. O, per i bambini, la serie della Valle incantata e Dinosauri della Disney. Ma anche la scienza e la paleoarte non rinunciano a immaginare. Nel 1982 il paleontologo Dale Russell ipotizzò il dinosauroide: un (molto) ipotetico dinosauro senziente che avrebbe potuto evolversi se non si fossero estinti. Il risultato che ne uscì è umano, troppo umano, un bipede vagamente rettiliforme (e di recente altri artisti hanno immaginato come avrebbero potuto essere). 

In generale veniamo in contatto con i dinosauri tramite la paleoarte, ovvero la ricostruzione artistica delle specie e degli ambienti preistorici. È una disciplina ibrida, né solamente creativa né puramente scientifica; per definirsi tale deve usare metodi scientifici ed essere coerente con i dati. Ma ha comunque abbastanza spazio d’azione da poterli reinventare continuamente; immaginando colori dove non ne conosciamo, creando pose e comportamenti e situazioni che sono compatibili con quanto sappiamo scientificamente. In altre parole: per rappresentare un dinosauro, anche con il massimo rigore, è permesso tutto ciò che non è esplicitamente vietato. 

“All’inizio, comunque, la vittoria culturale dei dinosauri non era scontata. Probabilmente il punto di svolta fu la costruzione del primo parco a tema: le sculture di dinosauri installate – e tuttora visibili – al Crystal Palace Park di Londra nel 1854”.

Questa immagine instabile e cangiante è anche uno dei pochi problemi che abbiamo con i dinosauri. Oggi i dinosauri sono una versione moderna di un pantheon mitologico. Abbiamo detto prima che, in passato, hanno dovuto competere per vincere l’immaginario preistorico. Ma partivano con un enorme vantaggio. Li abbiamo subito associati ai rettili, che abitano quella uncanny valley tra le creature a sangue caldo, familiari, come mammiferi e uccelli, e le creature a sangue freddo, imperscrutabili, come anfibi, pesci, invertebrati. Secondo il paleoartista Mark P. Witton non c’è nessun bisogno di cercare lambiccate spiegazioni per spiegare il fascino dei dinosauri. I dinosauri sono semplicemente bestioni leggendari perfetti. Si dividono perfino in “buoni” (erbivori giganti) e “cattivi” (i carnivori) immediatamente riconoscibili come tali, hanno nomi evocativi, vivono in un mondo familiare ed esotico allo stesso tempo. Sono la versione reale del mito del drago, un mito così diffuso tra le culture umane che alcuni hanno voluto interpretarlo come l’allucinazione di un terrore innato, quello del serpente e del predatore che ci portiamo dietro dal passato di scimmia. Speculazione di psicologia evoluzionistica difficile da dimostrare; ma è innegabile che l’aspetto dei dinosauri racconta qualcosa di viscerale.

Il problema è che i miti sono fatti per restare immobili, mentre la scienza si aggiorna continuamente, e con loro la realtà dei dinosauri. La botta più sconcertante l’hanno subita proprio in quegli anni Novanta in cui brillavano alla luce di Jurassic Park: la scoperta delle piume. È certo che moltissimi dinosauri, inclusi quelli più grandi e minacciosi, avessero almeno alcune parti del corpo coperte di penne e piume come gli uccelli odierni; di più, abbiamo scoperto che gli uccelli sono letteralmente dinosauri, gli unici dinosauri sopravvissuti all’apocalisse che li annientò 66 milioni di anni fa. Un Velociraptor, anche se non volava, probabilmente somigliava molto di più a un condor che a un lucertolone verde bipede; al cinema per decenni abbiamo visto l’equivalente di grotteschi polli spennati. 

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Questo cambiamento d’immagine da un lato ha rinfrescato il fascino dei dinosauri, per chi ha saputo interiorizzarlo: il Mesozoico era un mondo colorato, di creature che non hanno alcun equivalente moderno, sorta di grifoni inimmaginabili. Progetti di paleoarte come All Yesterdays hanno tentato di allargare l’immaginario dei dinosauri all’interno dell’alveo permesso dalla paleontologia; non solo sperimentando nello stile grafico, ma anche mostrandoli per esempio come soffici palle di piume che balzano come lemming nella neve, o mentre dormono sereni circondati da lucciole. 

Dall’altro la comparsa delle penne e delle piume ci ha strappato via i draghi. Non stupisce dunque che parte della fandom dei dinosauri si sia opposta disperatamente (assieme ai creazionisti) alle nuove evidenze scientifiche, decidendo di rimanere a tutti i costi fedele all’immaginario, ormai superato, degli anni Novanta. Persino il franchise di Jurassic Park ha accolto solo tardi e solo parzialmente l’esistenza dei dinosauri piumati. 

3. Con un botto e con un lamento

Qualcuno ha detto che la fine del mondo c’è già stata e siamo noi i mostri post-apocalittici – un’idea che a Calvin di Calvin e Hobbes piacerebbe molto. In un giorno di fine primavera di 66 milioni di anni fa, una roccia grande come l’isola di Pantelleria è calata dallo spazio venti volte più rapida di un proiettile, per schiantarsi nel Golfo del Messico. Il Mesozoico è finito così, ferito a morte da una catastrofe quasi stupida, una sassata cosmica. 

Bambini e adulti non possono pensare ai dinosauri senza pensare alla loro fine. La tragedia e la nostalgia sono parte indissolubile del fascino. Rende irresistibile il loro arco narrativo: se i mammut, per esempio, sono scomparsi in modo umiliante, arenati su un’isola siberiana e geneticamente devastati dall’incesto, i dinosauri affondano tra fuoco e fiamme, mitologica fine di mitologici mostri. Un degno Gotterdämmerung.  Ma è una fine che ci rassicura; i dinosauri erano enormi, erano potentissimi, erano invincibili, eppure sono scomparsi. Come afferma W.J.T. Mitchell, la nostra lettura dell’estinzione dei dinosauri segue da vicino la cultura della fine del mondo nelle varie epoche. Per i vittoriani l’estinzione dei dinosauri era infatti l’inevitabile esito che attendeva una stirpe inferiore, a cui sarebbero seguiti i mammiferi e infine il culmine di questa scala naturae. Alla fine del XX secolo invece la scoperta dell’impatto di Chicxulub ha rispecchiato, e tuttora ricorda, il terrore dell’apocalisse nucleare. Oggi – sotto la cappa dell’Antropocene – ci concentriamo però spesso sugli effetti climatici di quell’evento, come di altre estinzioni, per capire quali lezioni la natura ci consegna quando viene alterata molto rapidamente. 

“Bambini e adulti non possono pensare ai dinosauri senza pensare alla loro fine. La tragedia e la nostalgia sono parte indissolubile del fascino”.

Mio figlio ha superato la fase dinosauri; ha avuto un’infatuazione per la mitologia preistorica, oggi si appassiona a fiabe e leggende più moderne. Domani chissà. Non importa: so che in fondo i dinosauri non li dimenticherà mai. Perché ci parlano da bambini e ci parlano da adulti. Ci ricordano che anche i più terribili imperatori possono morire, sono il nostro primo incontro all’intreccio tra scienza e immaginazione, tra mito e realtà, tra desiderio e delusione. Ci mettono in contatto con il senso di perdita e ci permettono di amare una natura che non c’è più, che quindi non possiamo più mettere in pericolo. Da piccoli e da adulti, più semplicemente ci ricordano che la storia del pianeta è più grande di noi, delle nostre vite.

Massimo Sandal

Massimo Sandal è scrittore e giornalista scientifico. Il suo ultimo libro si intitola La malinconia del mammut. Specie estinte e come riportarle in vita (Il Saggiatore, 2019).

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