Donata Columbro
Dallo stalking, passando per la diffusione di materiale intimo non consensuale fino ai cyber-stupri, le violenze online hanno conseguenze profonde su chi le subisce. Il problema è serio e per iniziare a risolverlo dovremmo smettere di applicare una netta cesura tra internet e gli altri campi delle nostre vite.
Nel 2016, come molte altre persone in Italia, soprattutto quelle più curiose di sperimentare subito nuove app sul mercato, aprii un account sulla piattaforma Snapchat, diventata popolare nel nostro paese dopo il successo negli Stati Uniti perché consentiva di pubblicare contenuti che rimanevano visibili soltanto 24 ore. Una funzionalità che ora conosciamo bene, perché integrata su Instagram con il nome “stories”. Come early adopter di una tecnologia io e altri utenti venivamo inseriti in “liste di persone italiane da seguire” per chi avesse voluto iniziare a usare l’app trovando dei contenuti interessanti. Dopo qualche mese però molte di noi – solo donne – furono costrette a chiudere il proprio account perché subissate di messaggi, perlopiù molestie verbali e fotografiche, da parte di sconosciuti. I nostri dm, i messaggi privati dell’app, erano pieni di foto di cazzi . Un utente aveva usato una di quelle liste, scegliendo in modo specifico solo i nickname evidentemente femminili, per trasformarla in un elenco di profili pronti a ricevere proposte esplicite. Tutto, ovviamente, senza il nostro consenso.
L’unico modo per non subire più molestie (da account anonimi e quindi irrintracciabili) era chiudere tutto. Andare via, come abbiamo fatto, abbandonando, oltre ai molestatori i nostri follower e la piccola community che si era creata. L’implementazione di funzionalità molto simili su Instagram fece sì che questa decisione non avesse grandi conseguenze, nemmeno economiche, per chi di noi usava Snapchat come strumento di lavoro. Ma in ogni caso per nessuna di noi fu una scelta dettata da valutazioni strategiche, quanto, piuttosto, dalla necessità di non trovarci in una condizione di profondo disagio, subissate da contenuti osceni ogni volta che aprivamo l’app. Ci erano stati tolti agio e libertà su una piattaforma in crescita crescendo e che nel 2018 aveva ancora 2,5 milioni di utenti attivi al mese.
Questa piccola storia personale, apparentemente insignificante, illustra un’esperienza online comune a molte donne.
Ma se quello che è successo a me e alle altre utenti è stato un episodio di molestie, per migliaia di donne internet è anche il luogo dove è possibile subire violenze ben peggiori: dalla diffusione di materiale intimo non consensuale agli stupri.
Una cultura digitale sessista
“Qui c’è tutta gente tra i 15 e i 20 anni, la molestia sessuale è parte della nostra cultura e della cultura della community, quella dei videogiochi da combattimento”. Queste parole le pronuncia, in un video pubblicato a corredo di un pezzo pubblicato sul «New York Times» nel 2012, Aris Bakhtanians, giocatore ed esperto di videogame. Nello stesso anno una giocatrice della sua squadra, Miranda Pakozdi, unica donna a competere nel torneo-reality show Cross Assault, aveva dichiarato di aver subito molestie proprio da Bakhtanians: “durante i sei giorni di competizione l’ha interrogata in diretta sulla sua taglia di reggiseno, le ha detto di togliersi la maglietta e ha puntato la webcam della squadra sui suoi seni, sui piedi e sulle gambe. Si è avvicinato a lei e l’ha annusata”.
Le molestie subite da Miranda sono state filmate e ancora oggi se ne trova testimonianza su YouTube.
Dodici anni dopo, nel gennaio 2024 il «Guardian» riporta che nel Regno Unito la polizia ha avviato un’indagine per tentata violenza sessuale contro una ragazza di 16 anni dentro l’universo videoludico di Horizon Worlds, un gioco online di realtà virtuale di proprietà di Meta, l’azienda di Facebook. Secondo le autorità, la giovane avrebbe subito un trauma dalle conseguenze emotive e psicologiche assimilabili a quelle di una persona che è stata fisicamente violentata. La violenza online quindi è paragonabile ad altre forme di violenza? L’equiparazione tra violenza online e forme di violenza fisica, è la questione che anima il lavoro di Francesco Striano, ricercatore in filosofia morale presso l’università degli studi di Torino, che nel suo libro Violenza virtuale (Il Saggiatore, 2024) cerca di stabilire se ciò che accade online possa essere considerato una vera e propria violenza e, a chi debba essere attribuita la responsabilità di queste violenze. Corroborato da solidi dati statistici – raccolti grazie a inchieste internazionali, come quella di Amnesty International del 2017, in cui un quarto delle donne di otto paesi intervistate ha dichiarato di aver subito molestie, minacce o abusi online – il libro racconta due storie di violenza online realmente accadute: una risale al 1993 – quando ancora si poteva sperare che internet, ai suoi albori, potesse essere qualcosa di diverso da quello che oggi frequentiamo – quando all’interno della community online LambdaMOO vengono commessi una serie di cyberstupri a opera di uno studente della NYU. Il LambdaMOO era un mondo virtuale online, una sorta di comunità interattiva dove le persone potevano incontrarsi e interagire scrivendo comandi da tastiera. Siamo quindi parlando di un ambiente online dove la forma principale di creazione di contenuti era testuale e, fin da subito, nel discutere quanto successo “vista la natura prettamente testuale e narrativa della vicenda, la tendenza era stata quella di trattare gli accadimenti come appartenenti a un puro regime immaginario”, riporta Striano. “Del resto fu questa la linea difensiva dell’utente che si celava dietro Mr. Bungle: le azioni commesse dal suo avatar non erano state azioni reali, poiché non erano avvenute in un contesto di vita reale”, continua. Ma, come succede anche oggi a chi si ritrova coinvolto in shitstorm o riceve commenti violenti e sessisti sotto i suoi post, l’effetto traumatizzante delle parole si manifesta eccome.
“L’unico modo per non subire più molestie (da account anonimi e quindi irrintracciabili) era chiudere tutto. Andare via, come abbiamo fatto, abbandonando, oltre ai molestatori i nostri follower e la piccola community che si era creata”.
Il secondo esempio riguarda una nota streamer italiana di Twitch che nel 2022 subisce molestie sul portale Reddit, dove utenti anonimi caricano suoi screenshot corredandoli di commenti sessualizzanti. La sua reazione è diversa da quella delle vittime dell’affaire Bungle, perché la streamer decide di produrre una serie di video in cui legge i commenti dei molestatori, ridicolizzandoli ed esponendoli al ludibrio della sua community, riversando così l’umiliazione subita verso chi l’aveva praticata nei suoi confronti. Si può forse dire che ha mostrato sicurezza e assertività nella gestione della propria immagine: invece di confrontarsi direttamente con i suoi aggressori sulle piattaforme ostili dove aveva subito gli attacchi violenti, ha scelto di ribattere nel suo territorio, dove ha potuto esercitare maggiore controllo, godendo del supporto della sua community.
Ora: è questo un caso meno “grave” rispetto a un cyber-strupro? No, anzi. Striano si serve di questi esempi per chiedersi se dobbiamo applicare una netta separazione tra quello che succede online e quello che accade offline, e per sottolineare la nostra mancanza di strumenti concettuali adeguati per comprenderla e affrontarla, anche se esistono appunto casi documentati che risalgono agli anni Novanta.
Il problema, per il ricercatore, è quando ci convinciamo della teoria dei due mondi, e cioè che esista una separazione tra reale e digitale. “Le modalità di azione sono diverse”, sostiene, “ma le conseguenze sono ugualmente gravi”. Le azioni che possiamo continuare a chiamare virtuali, seppur diverse nelle modalità, devono essere considerate violenze a tutti gli effetti. Come molti studi riportano, le vittime subiscono danni emotivi e psicologici che spesso si manifestano con sintomi di stress post-traumatico, depressione, ansia, senso di vergogna e isolamento sociale. Gli stessi sintomi di una violenza che avviene offline. Non solo: gli effetti del cyber-stupro o del revenge porn possono protrarsi per anni, condizionando la vita emotiva, relazionale e professionale delle vittime. Anche se non c’è un contatto fisico diretto, la percezione del proprio corpo o della propria immagine viene modificata. Un caso che l il libro di Striano cita diffusamente, è quello dell’italiana Tiziana Cantone, morta suicida dopo la diffusione non consensuale di suoi video intimi, che aveva inutilmente cercato di far rimuovere dalla rete: anche in questo caso “citare gli effetti più tragici delle violenze, sessuali e non solo, avvenute online o con mezzi digitali serve solo a rendere più evidente la prepotente irruzione di ciò che da molti è trattato come un gioco, un atto linguistico, una virtualità non reale o non attuale, nella realtà materiale, fattuale e attuale”.
Nella catena di condivisioni di foto e video, da una piattaforma all’altra, corredate da commenti che aggiungono umiliazioni e violazioni dell’intimità di una persona, non è sempre possibile risalire alla responsabilità di chi commette abusi in rete. Nel libro Donne tutte puttane: Revenge porn e maschilità egemone (Durango edizioni, 2021), le sociologhe Silvia Semenzin e Lucia Bainotti sostengono che le migliaia di vittime sommerse che quotidianamente subiscono violenza online raramente riescono a ottenere giustizia, e “l’altissimo numero di partecipanti e canali coinvolti deve far riflettere sulla sistematicità di tali molestie”.
Proprio quando un ministro della Repubblica è pronto a convincerci che la cultura patriarcale è finita, quello che succede in piattaforme come Telegram, dove le ricercatrici hanno passato mesi in 50 canali e gruppi misogini e sessisti, può diventare lo specchio della mascolinità tossica che permea la nostra società: “La raccolta, diffusione, categorizzazione e archiviazione di materiale non consensuale rappresentano pratiche alla base di una performance di maschilità che si costruisce come egemone. L’oggettificazione del corpo delle donne è funzionale a costruire la propria maschilità, renderla visibile e validarla all’interno di un gruppo”, scrivono, e “la continua richiesta di materiale intimo e non consensuale viene innanzitutto descritta dai partecipanti in termini di fratellanza e solidarietà”.
Non è l’anonimato che porta alla diffusione di questo tipo di azioni, ma anzi, il riconoscimento di un ruolo, di un modo di essere maschi che viene esaltato quando si esercita attraverso il predominio e il sopruso del corpo femminile.
Per Striano “chiunque condivida materiale intimo senza consenso, faccia web stalking, minacci o abusi digitalmente di una persona è responsabile di un atto reale, pieno e inequivocabile. È, a tutti gli effetti, un abuser, e questa responsabilità non deve essere messa in discussione”. Anche se non sempre viene riconosciuta: Striano riporta che l’84% delle persone che hanno condiviso pornografia non consensuale ha dichiarato che lo rifarebbe, ritenendolo “divertente” e non percependolo come un atto violento. Questo cortocircuito riflette la mancanza di consapevolezza rispetto alla gravità di queste azioni.
E il ruolo delle piattaforme digitali? Sia Striano che Semenzin e Bainotti non lo negano, anzi. Per le sociologhe, che si sono concentrate su Telegram, tutta una serie di affordances, cioè le caratteristiche o le possibilità di un oggetto o un ambiente tecnologico, influenzano il modo in cui gli utenti interagiscono con esso: “il fatto che le affordances dell’app di messaggistica abbiano anche una componente genderizzata aiuterebbe a spiegare perché sono principalmente gli uomini a utilizzare e sfruttare strumenti come Telegram al fine di ristabilire il proprio privilegio, mentre sembrano non esistere gruppi di donne equivalenti che si scambiano foto e video dei propri ex fidanzati, amici e conoscenti”. Chiedendosi perché il fenomeno dello stupro online sia molto più diffuso di quello che avviene in strada o in famiglia (almeno stando ai dati delle denunce), secondo Striano le piattaforme sono tecnologie deresponsabilizzanti e contribuiscono a “una percezione sbagliata di cosa sia un «mondo virtuale», portandoci ad agire in modo sbagliato all’interno di questo presunto «mondo»”.
Semenzin è anche tra le promotrici della petizione “A Global Call for Urgent International Action Against Online Misogyny“ lanciata l’11 novembre 2024 da Shanley Clemot McLaren, attivista femminista globale e fondatrice della Global Coalition Against Online Misogyny, per sollecitare un’azione globale urgente per combattere la violenza di genere online e facilitata dalla tecnologia. Nel testo viene citato uno studio dell’Unesco per cui il 58% delle giovani donne e ragazze a livello globale ha subito violenza online sulle piattaforme di social media, e ha 27 volte più probabilità di essere molestata online rispetto agli uomini. In più, l’aumento nell’uso dell’intelligenza artificiale aggrava questo problema dal momento che il 96% dei deepfake disponibili online sono di natura pornografica, e il 99% di questi prende di mira donne e ragazze.
Questi dati non fanno che confermare che la violenza virtuale, se vogliamo usare ancora questa distinzione, rientra però nella più ampia cornice della cultura dello stupro, componente fondamentale dell’ideologia patriarcale. “La pervasività delle molestie online, come dick pic, hate speech o revenge porn”, scrive ancora Striano, “è un esempio di come la cultura dello stupro preceda e amplifichi quello che accade nel digitale”.
Mentre scrivo queste righe “sblocco ricordi” dei miei primi anni online, e già nell’app di messaggistica ICQ, negli anni Duemila, quando ero adolescente, era esperienza comune per me e altre coetanee ricevere messaggi di utenti sconosciuti che proponevano scambio di fotografie (a senso unico, in realtà) di nudi o provavano ad attivare conversazioni con commenti inopportuni e proposte esplicite.
“Nella catena di condivisioni di foto e video, da una piattaforma all’altra, corredate da commenti che aggiungono umiliazioni e violazioni dell’intimità di una persona, non è sempre possibile risalire alla responsabilità di chi commette abusi in rete”.
Tutti gli esempi o le esperienze che le utenti che leggono qui potrebbero riportare hanno in comune il ripetersi di dinamiche che avvengono anche fuori dalle piattaforme: “i commenti di carattere sessuale sono spesso di natura violenta, oggettificante e, soprattutto, abusante e umiliante”, che è il modo in cui le vittime di molestie sul lavoro o in un’università descrivono quanto subito.
Se la promessa di una rete inclusiva si scontra con una realtà in cui le scelte tecniche e di design delle piattaforme continuano a riprodurre logiche di esclusione e violenza, dobbiamo liberarci dal “cortocircuito della percezione” che separa il mondo online da quello offline.
Donata Columbro
Donata Columbro è giornalista e docente di “Data Visualization” in Iulm. Il suo ultimo libro si intitola Dentro l’algoritmo (Effequ, 2022).
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