Micol Meghnagi
Sulla memoria della Shoah la Germania, uscita dalla guerra, ha fondato la propria identità in Europa e nel mondo. Nel 2008 la cancelliera Merkel, in uno storico discorso al parlamento israeliano, ha affermato che “la sicurezza di Israele è parte della ragion di Stato tedesca”. Ma si è trattato davvero di un processo lineare e condiviso? E quali sono i costi di questa alleanza nell’attuale guerra a Gaza?
Il pentimento e la radicale autocritica della Germania in quanto principale carnefice degli ebrei d’Europa l’hanno consacrata a modello per eccellenza della memoria pubblica del dopoguerra. Eppure, nessun Paese come la Germania, dal 1945 a oggi, ha avuto un itinerario tanto tortuoso nell’elaborazione della Shoah. Oggi guardiamo alla Shoah come a uno dei paradigmi costitutivi delle coscienze europee.
Ma non è sempre stato così. La memoria della Shoah per come la conosciamo è d’altronde un fatto recente. Le vittime ebree del nazifascismo furono accolte per lo più con repulsione dall’Europa cristiana. All’inizio degli anni Cinquanta migliaia di ebrei vivevano ancora nei campi profughi della Germania Ovest, concentrati soprattutto nelle aree di Monaco, Francoforte, Berlino Ovest. La maggior parte proveniva dall’Europa dell’Est e durante la guerra era riuscita a rifugiarsi in Unione Sovietica, sopravvivendo in condizioni durissime.
Nel 1945 molti rientrarono in Polonia sperando di ritrovare i propri familiari e di riappropriarsi dei beni lasciati a casa; invece, ricordano gli storici Atina Grossmann e Tamar Lewinsky, trovarono “un immenso cimitero” e un’accoglienza “per lo più fredda e ostile” da parte dei vicini non ebrei, che nel frattempo si erano impossessati delle loro proprietà. Il pogrom di Kielce del 4 luglio 1946, in cui furono assassinati almeno 42 ebrei, e altri episodi di violenza convinsero molti a fuggire di nuovo, questa volta verso la Germania dell’Ovest, dove il clima era tutt’altro che ospitale.
Nel 1945 la giornalista Margret Boveri notava, infastidita, come gli ebrei fossero “semplicemente usciti dai loro nascondigli e che oltretutto stessero arrivando anche dei rinforzi”. Nel 1952 la polizia doganale bavarese assaltò un campo profughi ebraico con un blitz che, secondo il «Manchester Guardian», aveva “tutti i marchi di fabbrica delle incursioni naziste nei ghetti di Berlino e Francoforte”. Entrambe le Germanie dovettero confrontarsi con l’imbarazzante evidenza che il sostegno al nazismo era stato diffuso fino alla sconfitta di Hitler.
In Germania Ovest si scelse perlopiù di riabilitare la maggior parte dei nazisti, reintegrandoli senza troppe difficoltà nella vita pubblica; nella Germania Est, invece, si commemoravano genericamente i caduti del fascismo, seguendo la prassi sovietica di evitare di riconoscere esplicitamente il genocidio degli ebrei, mentre gli ex nazisti di basso rango venivano assorbiti nella nuova identità antinazista. Inoltre, la campagna staliniana contro i “cosmopoliti senza radici” aveva alimentato un diffuso sospetto nei confronti degli ebrei, che furono spesso accusati di alto tradimento e giustiziati.
Il filosofo Theodor W. Adorno, nel 1959, denunciava che “il famoso slogan lavorare sul passato” della Germania non fosse altro che una “maschera di una forma di negazione”. Avvertiva poi che “il nazionalsocialismo continua a vivere” e che “ancora oggi non sappiamo se solo come un fantasma di ciò che è stato”. Durante il processo di Norimberga il genocidio degli ebrei non costituì un capo di imputazione autonomo, ma rientrò nella più ampia categoria dei crimini contro l’umanità. La parola stessa, coniata da Raphael Lemkin, comparve negli atti di accusa, ma non nella sentenza finale del Tribunale Militare Internazionale del 1946.
“Il pentimento e la radicale autocritica della Germania in quanto principale carnefice degli ebrei d’Europa l’hanno consacrata a modello per eccellenza della memoria pubblica del dopoguerra. Eppure, nessun Paese come la Germania, dal 1945 a oggi, ha avuto un itinerario tanto tortuoso nell’elaborazione della Shoah”.
Dei sei milioni di morti ebrei si parlò più come una cifra complessiva che come progetto di sterminio mirato. Norimberga, scrive Primo Levi nei Sommersi e i Salvati , fu tutto sommato un atto simbolico, tendenzioso, incompleto, più che un atto di giustizia. Alla fine degli anni Novanta, osserva la storica Mary Fulbrook in Reckonings: Legacies of Nazi Persecution and the Quest for Justice, su circa un milione di tedeschi coinvolti in vario modo nello sterminio degli ebrei, solo 6.656 furono condannati, “meno del numero di persone impiegate nella sola Auschwitz”.
Fino agli anni Ottanta, la presenza ebraica in Germania era estremamente ridotta e percepita come qualcosa di insolito o fuori posto, anche tra gli stessi ebrei. Ma ciò che contava di più era il valore simbolico che questa presenza assumeva, come disse John J. McCloy, l’allora governatore militare e poi alto commissario statunitense: “Questa comunità, ciò che diventerà, come si strutturerà, come entrerà a far parte e si fonderà con la nuova Germania, sarà, a mio avviso, osservata con estrema attenzione da tutto il mondo. Ritengo che essa rappresenterà uno dei veri banchi di prova e uno dei criteri fondamentali per valutare il progresso della Germania verso la luce”.
Nell’immediato dopoguerra, scrivono i sociologi Erner Bergmann e Rainer Erb, “si poteva classificare almeno un terzo della popolazione come apertamente antisemita, quasi un altro terzo come in qualche misura antisemita o ambivalente e almeno un terzo come non antisemita”. Nel 1952, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer firmò l’Accordo di Lussemburgo, impegnando la Germania Ovest a versare tre miliardi di marchi a Israele e alla Claims Conference come ricompensa per i rifugiati ebrei in Israele. Pur simpatizzando per il sionismo, Adenauer condivideva molteplici stereotipi antisemiti; in un’intervista del 1965 ammise: “Il potere degli ebrei, soprattutto in America, non va sottovalutato. Per questo ho impiegato tutte le mie forze per promuovere la riconciliazione”.
La postura filo-israeliana della Germania non fu quindi soltanto il riflesso del dovere di fare i conti con il proprio passato, ma anche un calcolo politico-economico. Come osserva lo scrittore Pankaj Mishra, con l’intensificarsi della Guerra Fredda, Adenauer puntò a recuperare sovranità e peso nelle alleanze economiche e militari dell’Occidente, e il rapporto con Israele divenne una leva cruciale di quella strategia.
Così, negli anni Sessanta la Germania Ovest iniziò a fornire in dimensioni massicce armi ad Israele, mentre musei e istituzioni ebraiche iniziavano a fiorire ovunque. Durante una visita in Germania negli anni Sessanta, il filosofo ebreo tedesco sopravvissuto ad Auschwitz Jean Améry, denunciava il “filosemitismo invadente” di molti tedeschi, un’esibizione ossessiva di vicinanza che consentiva di eludere ogni riflessione scomoda sulla complicità generalizzata e sulla continuità di molte delle istituzioni con il crimine nazista. Alla fine degli anni Settanta, l’attenzione per l’antisemitismo crebbe grazie anche ad alcuni eventi pubblici di rilevo, come la miniserie americana Holocaust che riscosse un successo popolare e avviò un acceso dibattito pubblico sulle persecuzioni antiebraiche.
Questa fu affiancata da sondaggi operati da diverse istituzioni pubbliche e private tedesche riguardanti opinioni sull’antisemitismo, atteggiamenti nei confronti della ricostruzione della Germania, del nazismo e problemi affini, commissionati principalmente dagli enti statali preposti all’educazione civica. Dalle analisi, emerse però che la serie determinò soltanto un mutamento temporaneo delle opinioni; nel 1982 i sociologi Alphons Silbermann e Herbert Sallen arrivarono a concludere che circa metà della popolazione della Germania Ovest conservava “quanto meno residui latenti di atteggiamenti antisemiti”.
Fino ad allora, in tutta Europa, la memoria della Shoah era rimasta ai margini. Con la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, iniziò il passaggio dalle “memorie nazionali divise” a una “memoria europea condivisa”. Come sostiene lo storico Tony Judt in Postwar: A History of Europe since 1945, il biglietto d’ingresso nell’Unione Europea consisteva proprio nel riconoscimento dell’Olocausto quale fondamento morale dell’identità nazionale.
Così, paesi come Ucraina, Lituania, Ungheria, Romania e Polonia si trovarono a conciliare l’autoritratto di vittime, prima dell’occupazione tedesca, poi del regime sovietico, con il proprio passato collaborazionista e con una tradizione antiebraica radicata, all’origine di pogrom anche successivi allo sterminio quasi totale degli ebrei dell’Europa orientale. “Dall’essere il Popolo Eletto del Dio ebraico”, scrive lo storico Yuri Slezkine in The Jewish Century, “gli ebrei diventarono il popolo prescelto dai nazisti; e, diventando il popolo prescelto dai nazisti, divennero il Popolo Eletto del mondo occidentale del dopoguerra”, e Israele ne divenne lo Stato di eccezione. In Germania, dopo la riunificazione, la narrazione di una “rinascita della vita ebraica” fu elevata a prova della maturità liberale e democratica dello Stato. L’immigrazione massiccia di ebrei provenienti dall’ex Unione Sovietica, incentivata dalle autorità tedesche, alimentò il progetto di una riforestazione dell’ebraismo e la vita ebraica iniziava a essere celebrata come prova che la nazione avesse ormai superato il proprio passato.
A partire dagli anni Duemila, la crescente vicinanza con lo Stato di Israele ha rinsaldato l’idea che vede la Germania come unico paese che fa del proprio passato nazista il fondamento della propria identità. “La sicurezza di Israele è parte della ragion di Stato tedesca”, dichiarava Angela Merkel nel 2008 nel suo storico discorso alla Knesset, il primo pronunciato da un capo di governo tedesco davanti al parlamento israeliano. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele e l’inizio della guerra genocidaria a Gaza, la stessa linea è stata ribadita con maggiore enfasi dall’intero spettro parlamentare tedesco. Secondo Forensic Architecture “nel 2023 Berlino è responsabile del 47 % di tutte le importazioni militari israeliane”. In questi ventuno mesi, la quasi totalità dei leader tedeschi si è opposta alle richieste europee per il cessate il fuoco a Gaza, mentre hanno dato il via a una spietata repressione contro chi si oppone agli orrori dell’esercito israeliano.
“Questo è il lavoro sporco che Israele sta facendo per tutti noi”, ha dichiarato nel giugno del 2025 il cancelliere Friedrich Merz. Nello stesso mese l’Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione ha presentato una lista dei “soggetti estremisti”, tra i quali compare anche Jüdische Stimme, un gruppo di attivisti ebrei impegnato a difendere i diritti dei palestinesi.
Non si tratta certo di un caso isolato. Il regista israeliano Yuval Abraham, premio Oscar per il suo No Other Land, codiretto con il collega palestinese Basel Adra, è stato accusato di antisemitismo dall’establishment tedesco per aver denunciato il regime di apartheid israeliano dal palco della Berlinale. Il sociologo israeliano Mosé Zuckerman è stato oggetto di una campagna di diffamazione per aver sostenuto il movimento BDS. L’artista ebreeo sudafricano residente in Germania, Adam Broomberg, è stato arrestato con l’accusa di antisemitismo durante una manifestazione in solidarietà per la Palestina a Berlino. Trattamenti simili sono stati riservati all’artista ebrea sudafricana Candice Breitz, alla giornalista ebrea russa Masha Gessen, al compositore ebreo tedesco Wieland Hoban e alla psicoanalista ebrea israeliana Iris Hefets.
“In un paradosso tipico delle dinamiche capovolte che circondano ebrei, arabi e tedeschi nella Germania contemporanea” sottolinea un articolo firmato dalla redazione di «Jewish Currents» nel 2023, “un anti-antisemitismo concepito in modo discutibile è diventato il meccanismo per mantenere la germanicità ariana”. I commissari che giudicano chi è antisemita oggi sono per lo più bianchi e cristiani, si presentano come portavoce ufficiali degli ebrei e spesso mettono in scena una sorta di ebraicità di facciata, posano “per servizi fotografici con la kippah”, si prestano a eseguire musica ebraica o persino a “indossare l’uniforme della polizia israeliana”, emanando decreti su chi sia da condannare pubblicamente.
Quando accusano di antisemitismo gli ebrei di sinistra in Germania, traspare; ovvero che gli ebrei israeliani tendenzialmente di sinistra a Berlino dovrebbero “essere sensibili alla speciale responsabilità storica della Germania quando criticano Israele”. In un “perverso colpo di scena”, continua l’articolo, il fatto di essere stati “gli antisemiti di maggior successo nella storia” diventa quasi una credenziale morale per i tedeschi, che, “diventando i protettori consumati degli ebrei”, hanno assorbito così profondamente la lezione del martirio ebraico da non avere più bisogno dell’ebreo reale, ridotto a mero simbolo.
Secondo il rapporto RIAS, nella Germania del 2024 gli episodi di antisemitismo sono raddoppiati rispetto all’anno precedente, con la destra tedesca responsabile di circa tre volte più attacchi rispetto a quelli di matrice islamica. Eppure, nell’ottobre del 2024, il vice-cancelliere Robert Habeck ha avvertito i musulmani residenti in Germania di “prendere le distanze dall’antisemitismo” pena la negazione “del permesso di soggiorno” e la “deportazione”.
Nel novembre 2024 il Bundestag ha approvato la risoluzione internazionale “Proteggere, custodire e rafforzare la vita ebraica in Germania”, dove ribadisce la linea già adottata nel 2019 contro il BDS (in particolare rispetto all’erogazione di fondi pubblici), richiama la definizione IHRA di antisemitismo come cornice orientativa per le amministrazioni, e sollecita il governo a valutare irrigidimenti in materia di diritto penale, soggiorno, asilo e cittadinanza per contrastare l’odio antisemita.
“‘Questo è il lavoro sporco che Israele sta facendo per tutti noi’, ha dichiarato nel giugno del 2025 il cancelliere Friedrich Merz. Nello stesso mese l’Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione ha presentato una lista dei ‘soggetti estremisti’, tra i quali compare anche Jüdische Stimme”.
La presidente della Polizia di Berlino, Barbara Slowik, ha poi messo in guardia le persone ebree e Lgbtq+ invitandole a particolare prudenza in alcune aree della città dove, ha detto, si registrano simpatie per gruppi terroristici in segmenti della popolazione di origine araba. In Subcontractors of Guilt, la sociologa Esra Özyürek mostra come i tedeschi di origine mediorientale e musulmana siano diventati “il centro della cultura della memoria dell’Olocausto”. In questo quadro, i tedeschi cristiani sono rappresentati come “giunti a destinazione”, avendo ottenuto la redenzione e la ri-democratizzazione attraverso l’elaborazione del proprio passato, mentre i musulmani vengono descritti come “incapaci di immedesimarsi” in quella memoria, trasformati così nell’altro da educare e disciplinare. Così la Germania subappalta la colpa storica ai nuovi arrivati e trasforma la memoria in strumento di gerarchia. L’islamofobia prospera “sotto la maschera dell’antirazzismo” e l’antisemitismo si riproduce, perché “una memoria usata per escludere non diventerà mai terreno comune”.
Non sorprende, dunque, che la Germania, che si vanta di fare ammenda per le parti più sanguinose del suo passato, abbia riconosciuto solo nel 2021 il genocidio dei Nama e degli Herero nell’attuale Namibia, avvenuto in epoca coloniale tedesca tra il 1904 e il 1908, durante il dominio della Germania dell’Africa sud-occidentale. Berlino continua tuttavia a rifiutare compensazioni legali ai discendenti delle vittime; l’accordo da 1,1 miliardi di euro firmato nel 2021 è stato presentato come gesto di riconciliazione e non come riparazione formale. Gli ordini di annientamento firmati dal generale Lothar von Trotha in Namibia, così come la sperimentazione medica del razzista Eugen Fischer, insegnante, fra gli altri, del medico nazista Josef Mengele, fornirono modelli di violenza, segregazione e classificazione biologica da cui prese ispirazione la Germania nazista di Adolf Hitler.
Ricordare le stragi coloniali e le complicità nei genocidi odierni incrinerebbe il paradigma memoriale costruito negli ultimi trent’anni, dove il nazismo è stato rappresentato come un’anomalia e una deviazione della modernità: una frattura imprevista tra spazio e tempo. E se fosse successo più di una volta? Se fosse accaduto molte volte, anche se su scale e intensità differenti? “È avvenuto, quindi può avvenire di nuovo. Questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”, scrive Primo Levi nella conclusione dei Sommersi e i Salvati, il suo ultimo libro prima del suicidio.
Levi, osserva Leon Todorov, “pensa non tanto a una ripetizione dell’identico, all’avvenuto di un regime nazista nel centro Europa, quanto piuttosto a una proliferazione di quei fattori che hanno reso l’orrore possibile, magari in altri paesi, sotto altro nome, con nuove giustificazioni”. Lo storico Raul Hilberg all’inizio degli anni Sessanta era giunto a reputare che l’interesse per la Shoah fosse definitivamente scomparso. Tra gli anni Settanta e Ottanta, però, il quadrò cambiò completamente.
Alla fine degli anni Ottanta, il sociologo Zygmunt Bauman avvertiva una profonda inquietudine dovuta a quella che definiva la “privatizzazione ebraica” della memoria. La Shoah, scrive Bauman, è rappresentata come “una momentanea follia in un contesto di saggezza”, una tragedia che, nella coscienza collettiva, ha colpito gli ebrei e che quindi genera commiserazione o senso di colpa, ma raramente una riflessione sulla propria responsabilità o sulla portata universale di quella violenza.
Se però Israele ha fatto della Shoah una risorsa di legittimazione politica, il mondo non ebraico ha rappresentato la Shoah come un retaggio esclusivo degli ebrei, affidato alla memoria degli scampati, delle vittime e dei loro discendenti. Theodor W. Adorno avvertiva già nell’immediato dopoguerra come Auschwitz avesse rivelato in maniera inequivocabile che la modernità occidentale e la barbarie nazista non costituivano ambiti separati e antitetici, bensì elementi strutturalmente intrecciati e reciprocamente costitutivi. Con l’avanzata delle destre post-fasciste e xenofobe, l’idea di un Occidente intrinsecamente democratico, liberale e progressista inizia a mostrare crepe. In nessun altro luogo, il costo di questi fallimenti è più alto che nella Palestina di oggi.
Micol Meghnagi
Micol Meghnagi è ricercatrice universitaria. Si occupa della costruzione e della rappresentazione sociale della memoria della Shoah, della Nakba e del colonialismo italiano.
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