Carlo Mazza Galanti
18 Dicembre 2024
L’uscita italiana di "Noia terminale" è l’occasione per scoprire, dopo quarant'anni, un’autrice unica, il suo femminismo irregolare, il suo geniale pessimismo.
Bellezza irrequieta e ombrosa, come scopriamo osservando gli scatti che le ha dedicato il grande fotografo Araki Nobuyoshi, Suzuki Izumi è una scrittrice che ha ampiamente travalicato il campo della letteratura. Apprezzata per il modo in cui ha rappresentato una femminilità anticonformista, spericolata e refrattaria ai modelli correnti, dagli esordi nel cinema pinku eiga – genere minore a carattere erotico softcore – passa al cinema d’autore e al teatro, nel frattempo lavora come modella, senza disdegnare i nudi, e quando nel 1973 si sposa con Abe Kaoru, uno dei più interessanti sassofonisti free jazz giapponesi dell’epoca (morto per overdose pochi anni dopo il matrimonio), quella di Abe e Suzuki diventa quasi il modello nipponico della coppia maledetta. La storia della relazione violenta e appassionata tra la scrittrice e il musicista è diventato un film bello e commovente degli anni novanta, Endless waltz, diretto da Wakamatsu Koji.
Il libro che Araki ha dedicato a Suzuki s’intitola invece Izumi, this bad girl: la cattiva ragazza, la libertaria ribelle incline all’abuso di sostanze che ha fatto del proprio corpo un uso pubblico e spregiudicato, ha concluso la vita con il gesto di più estrema e paradossale diserzione – il suicidio – nel 1986 a trentasette anni.
Ora, tutto questo potrebbe apparire aneddotico a più di quarant’anni di distanza dalla prima pubblicazione di Noia terminale (1984), non fosse che il carattere e la tragica fine di Suzuki sono chiaramente iscritte in questi racconti neri, caustici, dove passioni e depressione sembrano andare a braccetto. C’è molto degli anni Ottanta nelle atmosfere e nella temperatura emotiva del libro: gli ottanta della fine della storia, del “no future”, dell’eroina, del punk e della new wave più cupa – non certo quelli ridenti delle reaganomics o del berlusconismo.
Noia terminale torna oggi in libreria grazie alla traduzione in lingua inglese da parte della britannica Verso books, a sua volta debitrice dell’opera omnia della scrittrice curata in Giappone per i tipi dell’editore Bun’yūsha. Il testimone in Italia è stato preso dalla torinese add, casa editrice che ormai si è costruita una solida reputazione come osservatorio sulla cultura e la politica asiatiche. Tradotto dal giapponese all’italiano da Ozumi Asuka, il libro è anche fornito di un’utile nota biografica firmata dalla stessa traduttrice.
Volendo cercare un’aria di famiglia o un atmosfera esistenziale comune, si potrebbe associare questo volume a raccolte di racconti coeve come Family dancing di D. Leavitt (1984) o Altri libertini di Tondelli (1980), libro quest’ultimo che sembra godere oggi, in Italia, di un rinnovato interesse. Il disagio giovanile, la tossicodipendenza, la critica della eteronormatività, la sfrontatezza che si accompagna al senso di una fragilità estrema, di un vitalismo sofferto e appunto “terminale”, sono tratti comuni a questi libri che rappresentano ormai, nei rispettivi paesi, classici del decennio del trionfo neoliberista, con la differenza decisiva, nella raccolta di Suzuki, della componente fantascientifica.
Quella di Noia terminale è tuttavia una fantascienza delicata, poco invasiva: dettagli ambientali, qualche macchina volante, un pianeta alieno che somiglia alla terra, alcuni device futuristici, qualche sostanza psicoattiva immaginaria, solo in minima parte determinano e sostanziano lo svolgersi di narrazioni affidate per lo più ai dialoghi e quindi alle relazioni tra personaggi. L’intimità e la sfera emotiva sembrano occupare la maggior parte della scena, il contesto viene più desunto dal lettore che descritto dalla scrittrice: eppure, o forse proprio per questo – perché non s’invischia troppo nei cliché di genere, o perché antepone la psicologia alla sociologia – la fantascienza di Suzuki è indubbiamente dotata di un’originalità e una freschezza non comuni.
“Quella di ‘Noia terminale’ è tuttavia una fantascienza delicata, poco invasiva: dettagli ambientali, qualche macchina volante, un pianeta alieno che somiglia alla terra, alcuni device futuristici, qualche sostanza psicoattiva immaginaria”.
Fa abbastanza impressione, alla lettura di certe pagine, pensare che siano state scritte quasi mezzo secolo fa: i temi caldi del nostro presente sono tutti presenti e lo sguardo che aleggia sui mondi immaginati dalla scrittrice è tale da renderceli immediatamente palpabili e famigliari, come se un moralismo implicito, un rifiuto viscerale della vita e di una società che iniziavano a esistere a cavallo di quel tornante storico decisivo, continuasse a puntare il dito su di noi. E a farlo con tutta la forza di chi ha saputo intercettare sul nascere le linee di forza, gli sviluppi futuri, a uno stadio precedente il loro consolidamento o la loro istituzionalizzazione.
Prendiamo ad esempio le questioni di genere, una delle principali ragioni per cui la scrittrice nasce oggi a nuova vita editoriale. Suzuki Izumi è femminista fin dal suo essere autrice impegnata in un tipo di scrittura, quella fantascientifica (allora più di oggi) prevalentemente maschile, se non maschilista. I racconti di questa raccolta sono zeppi di motivi che torneranno con forza nella fantascienza e in generale nella scrittura gender-oriented degli anni a venire. Accanto alle nicchie più agguerrite di un femminismo politico sviluppatosi negli anni settanta e che hanno portato a narrative di denuncia come The handmaid’s tale di Margaret Atwood (1985), gli ottanta sono stati un decennio intensamente e “spensieratamente” queer, almeno sul piano della moda e dei costumi. L’androginia e i gender troubles erano così diffusi nell’immaginario culturale di quegli anni da passare quasi inosservati. Di certo non erano investiti dalla fitta rete discorsiva e dall’impeto militante che vediamo oggi all’opera nel movimento transfemminista. Forse per questo, in Suzuki (ma lo stesso potrebbe valere per i libertini di Tondelli) le questioni di genere non vengono inquadrate in un discorso apertamente militante e perciò, perché guidate dalla sensibilità idiosincratica dell’autrice di fronte a cambiamenti sociali vissuti in prima persona, appaiono capaci di rivelarci aspetti che oggi fatichiamo a riconoscere sotto l’ombrello di una struttura ideologica più consapevole e condivisa ma anche più grossolana.
A titolo d’esempio potrebbe valere il modo in cui, in queste storie, il progressivo disarticolarsi dalla dimensione biologica del sesso si colloca in un campo di forze storiche ed evolutive che non riguardano tanto o soltanto i diritti individuali quanto soprattutto una dimensione antropologica, il nostro modo di stare nel mondo: il rapporto con la tecnologia, il progressivo dematerializzarsi della vita, lo spaesamento dell’uomo e della donna di fronte alla globalizzazione, il nostro aderire a uno stile di vita sempre più determinato dalle forze del mercato.
Il racconto di apertura, “Un mondo di donne e donne”, ci guida all’interno di una società di sole femmine che vivono con scarsissime risorse in una Terra mezzo distrutta e sottosviluppata (o de-cresciuta) dove vige un marcato autoritarismo, dove il passato è cancellato o riscritto in funzione del presente, e dove gli uomini vengono reclusi in una zona speciale, una sorta di carcere a cielo aperto. Questo racconto sembra ribaltare i valori dell’ecofemminismo (gli uomini sono ritenuti responsabili della distruzione ambientale del pianeta): la protagonista dopo avere incontrato un maschio (clandestino) mette in discussione il matriarcato. Sarebbe difficile, credo, collocare senza forzature questo testo nell’orizzonte mentale e nella sensibilità politica della galassia Me too; il che non significa che il racconto sia reazionario o antifemminista, al contrario. La precocità del tema – utopie femministe appariranno con un certa frequenza nei prodotti dell’immaginario degli ultimi anni (“Ragazze elettriche” di Naomi Alderman o “Afterland/Un mondo di donne” di Lauren Beukes, “Matrix” di Lauren Groff, “Le assetate” di B. Quiriny) – passa quasi in secondo piano rispetto alla sua particolare declinazione distopica: il potenziale critico è dato dall’indagine sui risvolti autocratici di ogni potere costituito, come conviene a una letteratura che non si accontenti di intrattenere o indottrinare.
Forse il racconto più sorprendente, non soltanto rispetto alle tematiche di genere, è “Picnic notturno”, in cui una famiglia disfunzionale si ritrova su un pianeta alieno a recitare la vita degli umani, la routine di un’umanità ridotta a pura messa in scena, a simulacro o imitazione di se stessa. Esiliati, enucleati, i vari componenti di questa famiglia cercano goffamente di aderire a modelli reperiti nei libri o nei telefilm sperimentando versioni di sé che possono includere anche mutamenti di sesso. Queste persone non sanno chi sono, le loro autocoscienze sono così labili ed estemporanee da parere impiantate (qualche critico ha fatto il nome di Dick a proposito di Suzuki e credo che questo testo potrebbe confermarlo). Ciò che sta sotto la mascherata famigliare pervasa di un’angoscia pirandelliana sono solo dei mostri: dei mostri soli in un universo insensato.
La parodia della famiglia borghese, completamente sradicata da qualsiasi immediatezza istintiva e consegnata a una girandola di cliché comportamentali, si consuma in un ambiente dove la saturazione tecnologica della vita quotidiana offre miraggi di libertà sullo sfondo di un’alienazione radicale. Lo sradicamente è anche simbolizzato da una temporalità aletatoria, disomogenea, incapace di generare una dimensione comune. Il massimo della autosperimentazione, in questo racconto, coincide con il massimo dello spaesamento, e infine dello spossessamento.
Temporalità impazzita è anche quella che troviamo in “Fumo negli occhi”, un racconto che mi ha ricordato “The substance”, il bel film di Coralie Fargeat vincitore per la sceneggiatura a Cannes in questi giorni nelle sale italiane. È qui accennato un concepimento verginale, con soli gameti femminili, e al centro della trama spicca un farmaco ansiolitico la cui peculiarità è quella di far sembrare che il tempo scorra più veloce (basandosi sul presupposto implicito che l’ansia in qualche modo lo rallenti, o lo dilati) ma il cui effetto collaterale, quasi un contrappasso, è quello di un invecchiamento precoce.
“Ricordi al seaside club” mostra un universo parallelo e virtuale, molto simile al “San Junipero” di Black mirror (marine, club, divertimento raggelato) che potrebbe anche essere un mondo dickiano di ricordi innestati: una donna elabora la propria crisi di coppia e una profonda infelicità esistenziale pregressa. Infelicità che erompe definitivamente nel racconto eponimo: disagio mentale, disoccupazione, asessualità, inappetenza, deperimento, controllo artificiale delle nascite, tossicomanie tecnologiche sono tutte comprese e compresse nel cupissimo “Noia Terminale” che chiude il volume con una nota decisamente nichilista.
“Forse il racconto più sorprendente, non soltanto rispetto alle tematiche di genere, è ‘Picnic notturno’, in cui una famiglia disfunzionale si ritrova su un pianeta alieno a recitare la vita degli umani, la routine di un’umanità ridotta a pura messa in scena”.
Di solito quando si parla di autori così ostinatamente pessimisti si cerca, in conclusione, di cavare dal pozzo delle loro inquietudini qualche promessa di felicità, quella forza vitale che formicola sotto la disperazione e senza la quale verosimilmente l’autore o l’autrice in questione non sarebbero neppure riusciti a creare le loro opere. Eric Davis in Techgnosis (Not NERO, 2023), un libro che mi capita spesso di citare ultimamente, sostiene che “per affrontare i tunnel di realtà del mondo moderno [serve] una sorta di schizofrenia caustica, uno Yin e Yang di scetticismo e immaginazione che tiene la mente sempre ferma al bivio, in sospeso tra il sì e il no”. La colomba che caviamo dal cappello di Suzuki Izumi potrebbe essere questa: non tanto una speranza forzosa, quanto una postura dell’immaginazione scettica e utile alla comprensione, se non alla sopravvivenza: la percezione dei rischi che il progresso non mostra, l’interesse spassionato per il destino mutante dell’umanità e la capacità di osservarlo senza pregiudizi e illusioni.
Di tutto ciò continua a parlarci l’opera narrativa di Suzuki, la sua figura autoriale, il suo femminismo irriducibile a ogni schema, il coraggio con cui si è esposta al proprio tempo lasciandosene divorare ma anche cogliendone quasi profeticamente le coordinate più occulte: le trame più oscene.
Carlo Mazza Galanti
Carlo Mazza Galanti è traduttore, critico letterario, giornalista culturale. Il suo ultimo libro è Cosa pensavi di fare? Romanzo a bivi per umanisti sul lastrico (Il Saggiatore, 2020).
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