Uomini che odiano i loro corpi - Lucy
articolo

Eugenio Giannetta

Uomini che odiano i loro corpi

12 Aprile 2024

Dismorfofobia, anoressia e bulimia sono disturbi tradizionalmente associati alle donne. Eppure, con la stessa intensità, colpiscono la popolazione maschile, dove il carico di senso di colpa, vergogna e ansia viene aggravato dalle pressioni della cultura machista. Cosa significa soffrire di questi disturbi, per un uomo? E come si può imparare a mitigarli?

Non “sono grasso”, ma “mi sento” tale. Ho 37 anni, sono alto un metro e 77 e peso 72 chili. Sono quello che – secondo le tabelle – viene definito normopeso, eppure mi sento al di fuori delle statistiche. Quando parlo di tabelle faccio riferimento all’indice di massa corporea – l’ormai celebre BMI – che dovrebbe indicare un cosiddetto peso ideale. Il calcolo dell’indice di massa corporea è adottato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per le diagnosi di sottopeso, sovrappeso e obesità. Il calcolo è semplice, bastano due dati: altezza e peso. E il gioco è fatto. Questo sentirmi grasso mi accompagna dall’età di 9 anni. Pesavo 43 chili, il mio pediatra disse “più tredici!”, e lì cominciò ogni cosa. Una dieta che mi tolse il piacere di mangiare.

Da anni mi guardo nelle foto e individuo immediatamente quelle che definisco “curve sbagliate”, che non dovrebbero essere lì. Mi guardo allo specchio, alzo la maglietta e osservo affranto i fianchi. Mi deprimo. Qualche volta li ho colpiti con forza, a pugni stretti, lasciando segni rossi sulla pelle che non hanno migliorato la situazione. Li ho odiati. Il pensiero magico mi ha fatto immaginare che con i colpi si sarebbero in qualche modo snelliti.

Questo agito sul mio corpo ha scatenato quello che lo psichiatra Antonio Semerari chiama “ciclo invalidante”, e investe due rappresentazioni di sé: una idealizzata e una indegna, che quando si presenta fa oscillare l’individuo tra rabbia, aggressività e profonda vergogna. I segni a volte si sono trasformati in lividi, a ricordarmi quello stato di tristezza, disagio e prostrazione. “Per le persone grasse la vergogna è come ossigeno”, per citare un passaggio dalla prefazione della versione italiana di Fat Shame. Lo stigma del corpo grasso, curata dall’associazione “Belle di faccia”. Il saggio di Amy Erdman Farrell, esperta di studi culturali e femminismo, è una testimonianza di “come la grassofobia sia nata almeno un secolo prima della questione medica sulla salute”.

“Mi guardo allo specchio, alzo la maglietta e osservo affranto i fianchi. Mi deprimo. Qualche volta li ho colpiti con forza, a pugni stretti”.

Per anni al mare non mi sono tolto la maglietta, in intimità ho avuto pudore nel farmi toccare il torace, la pancia; mi sentivo distratto, dissociato. Mi sono a lungo vestito largo e di nero, per nascondere le forme. Quando in estate un uomo mi si sedeva affianco in pantaloncini, mi ritrovavo a guardare con invidia il triangolo formato dall’incrocio tra ginocchio, vasto laterale e vasto mediale. Il mio quadricipite non era così, ma arrotondato, morbido, svasato. Perché? Perché non era in quell’altro modo che tanto mi piaceva? Sono anche io vittima di una società in cui il grasso viene patologizzato, ma c’è dell’altro.

Lo storico Christopher E. Forth ha scritto Grassi, una storia culturale della materia della vita – uno dei libri più ricchi che ho letto sull’argomento –, pubblicato da Espress edizioni come esplorazione delle vie complesse attraverso le quali il grasso, la grassezza e l’ingrassamento sono stati percepiti nel corso del tempo, tra stereotipi e prospettiva storica: “Il grasso è un esempio di ciò che l’antropologa Mary Douglas definisce un ‘soggetto fuori luogo’ in un sistema culturale ordinato di idee e immagini della salute e della bellezza”. Ecco come mi sono sentito a lungo: fuori luogo, in quanto grasso.

“Tutte fisime”, mi dicevano quando, da adolescente, cercavo di affrontare l’argomento. Alle partner che mi dicevano “sei ok”, non credevo. Gli amici – maschi e femmine, indistintamente – sminuivano la situazione.

Ho imparato più avanti che quel disagio era la forma che prendeva la mia solitudine. Ho assunto posture strategiche per stare seduto o in piedi nascondendo le forme, in modo che la maglietta cadesse dritta, piatta, senza mostrare nulla. Ho bevuto acqua prima dei pasti per raggiungere anticipatamente la sazietà. Ho saltato pranzi e cene, per giorni, trovando scuse, soprattutto con me stesso. Ho finto di aver già mangiato in situazioni sociali per non dover giustificare la volontà di digiunare. Ho avuto disfunzioni alimentari e ho imparato a riconoscere la fame nervosa quando arrivava. Sono stato preda di attacchi bulimici di cibo e senso di colpa, profonda vergogna e necessità di bruciare quella pena per alleggerirla, per alleggerirmi.

Ho ancora squilibri alimentari a tratti. Il dismorfismo è lì, non so se riuscirò mai a superarlo del tutto, ma ora è diverso rispetto a un tempo. Ho fatto un po’ di pace con l’idea che come mi vedo io è il risultato di uno sguardo deviato da una costruzione perfezionistica e idealizzata, una corazza che mi protegge da stati angosciosi che non riuscirei altrimenti a tollerare. Ho portato avanti un percorso di psicoterapia, ho fatto un “lavoro” sul corpo e in qualche modo riconosco che questo problema mi ha anche aiutato; sono grato per la forza di volontà che il bisogno di migliorare mi tira fuori, forse altrimenti non avrei mai corso maratone, e mi sarei perso esperienze meravigliose.

Ho incontrato persone che si sono messe in ascolto, ma soprattutto ho imparato a fidarmi del prossimo e ho trovato il coraggio di raccontarmi, per dire come sto, come mi sento: grasso. Il mio psicoterapeuta un giorno mi ha fatto alzare dalla poltrona. Stavo ricurvo, per nascondere le forme. Allora mi ha detto: “Prova ad allargare il torace, come se fossi fiero. Fallo tutti i giorni qualche minuto, quando sei a casa da solo”. Ha funzionato, ho migliorato la mia attenzione a controllare la postura per nascondere le forme.

Tradizionalmente associati alle donne, è bene sapere che i disturbi alimentari colpiscono anche la popolazione maschile con la stessa intensità. Il fenomeno è rimasto molto a lungo in ombra, sotto la coltre di una cultura machista, ma da qualche anno circa un quarto delle diagnosi riguarda anche i ragazzi, che costituiscono un vasto e variegato sommerso.

Fino a vent’anni fa la percentuale tra maschi e femmine sull’anoressia vedeva invece un divario forte, di circa un uomo ogni dieci donne, ma negli ultimi anni il cambiamento sociale è stato importante e significativo.

Me lo disse nel 2019 Laura Ciccolini, psicoterapeuta e direttore della sezione torinese della Federazione italiana disturbi alimentari, che riunisce associazioni senza scopo di lucro attive in gran parte del territorio nazionale, costituite da psicoterapeuti, medici, nutrizionisti e psichiatri. Mi ha confermato i dati a 5 anni di distanza, con due precisazioni: “Per quanto riguarda il dato maschile, la riflessione è che non necessariamente siano aumentati i numeri, ma sta finalmente emergendo il sommerso. Rispetto alla questione più generale, quello che osservo è l’aumentare della gravità dei casi, con diversi esempi anche di autolesionismo legati ai disturbi del comportamento alimentare”. 

L’esperienza in ambito di ricerca, prevenzione, formazione e cura dei disturbi alimentari resta peraltro carente, sia dal punto di vista delle risorse economiche, sia da un punto di vista politico e progettuale. E a proposito di prevenzione, per dare qualche numero in questo senso, “in Italia, l’Istat, relativamente all’anno 2021, rileva che, nella popolazione adulta, la quota di sovrappeso è pari al 36,1% (maschi 43,9%, femmine 28,8%), mentre gli obesi sono l’11,5% (maschi 12,3%, femmine 10,8%), evidenziando un trend in costante crescita. Complessivamente, quindi, in Italia si possono stimare in circa 4 milioni le persone adulte obese”.

Dal 2019, c’è da dire che c’è stata una documentata esplosione di patologie legate ai disturbi alimentari: l’evento pandemico, quindi l’isolamento sociale e – senza voler demonizzare – l’incremento delle ore passate sui social dagli adolescenti, ha fatto da detonatore a tutto ciò che era sottotraccia, e i disturbi del comportamento alimentare sono diventati una vera e propria epidemia nell’epidemia.

“Ho ancora squilibri alimentari a tratti. Il dismorfismo è lì, non so se riuscirò mai a superarlo del tutto, ma ora è diverso rispetto a un tempo. Ho fatto un po’ di pace con l’idea che come mi vedo io è il risultato di uno sguardo deviato”.

Me lo ha detto Stefano Tavilla, presidente dell’associazione Mi nutro di vita e fondatore della Fondazione Fiocchetto Lilla, dove sono convogliate una serie di realtà associative per portare avanti sempre più progetti concreti: “Nel 2023 in Italia abbiamo un dato: 3.780. Sono i decessi per queste patologie, senza considerare chi muore per queste patologie ma non in ospedale, come per esempio chi decide di togliersi la vita senza riferirne le cause; si tratta perciò di numeri in difetto”.

Le stime in Italia parlano di circa 3 milioni e mezzo di persone affette da queste malattie (numeri confermati dal Ministero della Salute, che indica come la pandemia abbia portato a un incremento di casi stimato di almeno il 30-35% e un abbassamento dell’età di esordio). “A conti fatti”, continua Tavilla, “parliamo del 5% della popolazione. Un numero enorme che in pandemia ha visto ampliare anche la forbice dell’età. Sempre secondo le stime, l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù riferisce di ricoverare circa un bambino al giorno in situazioni gravi”.

Il problema principale, spiega sempre Tavilla, è che dal 2019 l’offerta culturale è rimasta ferma. “Non si recepisce ancora quanto sia importante lavorare oggi su queste malattie, ma più in generale sulla salute mentale, sulla prevenzione. Manca lungimiranza e risposte da parte della politica. Servirebbe un’attenzione uniforme su tutto il territorio, mentre al momento la distribuzione delle strutture è disomogenea, la maggior parte è al nord, sarebbero utili invece percorsi in tutte le regioni e non basta lavorare solo sui corretti stili di vita e la corretta alimentazione, perché senza la necessaria prevenzione e sensibilizzazione, il rischio è quello di incrementare la selettività per chi soffre di queste malattie”.

Si dovrebbe invece, conclude, aiutare bambini e bambine a riconoscere le emozioni e viverle: “È l’aspetto emozionale che va riconosciuto, soprattutto in un mondo che va sempre più veloce e dove anche i bambini devono sempre performare. Bisogna lavorare su equazioni come: sono arrabbiato, quindi mangio, nonché sui modelli prestazionali”.

La diagnosi dei disturbi alimentari negli uomini è spesso più complessa, mascherata da un’attenzione ai muscoli e al cibo sano definita ortoressia; nella maggior parte dei casi, non si considera quanto pericolosi possano essere gli eccessi anche nella ricerca di un corpo più scolpito e muscoloso.

Nel mio caso, più che di anoressia, si parla di dismorfofobia o dismorfismo, ovvero una distorsione dell’immagine corporea. La mia, come quella di tanti altri uomini, è una preoccupazione ossessiva per il corpo, spesso abbinata a stati d’ansia che possono precedere o seguire il momento apicale della crisi.

Nel tempo ho razionalizzato. Mi sono fermato e ho scomposto in piccoli gesti i momenti peggiori, mi sono guardato dall’esterno e ho cercato di interpretare il mio stato d’animo in modo più logico, meno emotivo. Ho una tendenza al perfezionismo che attraversa ogni campo che mi riguarda, dal pulire un lavandino di casa fino al lavoro. Sono introverso, con qualche tendenza all’isolamento e patimenti nel passare troppo tempo in grossi gruppi. In me è radicato un senso di solitudine antico, che ho provato per la prima volta, intensamente, durante l’infanzia.

A lungo mi sono sottoposto a diete restrittive e ho praticato attività fisica in maniera incessante. Nuoto, corsa, corsa con pesi, mezza maratona, maratona, corsa in salita, bicicletta. Ho corso sempre più a lungo, in corse sempre più lunghe, alla ricerca di un corpo sempre più magro. Non ottenendo (o non vedendo) significativi risultati con lo sport, ho alimentato i miei tratti depressivi.

Perché sono così? Perché nonostante tutto ciò che faccio non è mai abbastanza per diventare magro? Perché lui, o lui, o ancora lui, sono così e io no? Perché mi vedo grasso? Li indicavo nella mia testa, puntavo il dito e sentivo risuonare le parole di mio padre: non guardare gli altri, guarda solo te stesso. E su la maglietta davanti allo specchio, giù l’umore.

Alcune pratiche, suggerite in psicoterapia come strategie utili per movimenti disfunzionali, mi hanno aiutato a superare – almeno parzialmente – questa compulsione: pesarmi una sola volta a settimana, non sollevare la maglietta davanti a ogni specchio di ogni locale dopo ogni birra, non toccare continuamente la “parte difettosa”, sperimentare tecniche di rilassamento, accettare il disordine, lasciare andare.

Uomini che odiano i loro corpi -

In psicoterapia ho imparato che tutto nasce e muore con il controllo. Non esiste un percorso protocollato, non esistono linee guida ufficiali, è molto personale. Ci sono le buone pratiche e poi bisogna convivere con quel che c’è. Al tempo stesso, però, può essere un esercizio di comunità.

Parlarne, destigmatizzare, superare pregiudizi e stereotipi, è un passo importante del percorso di cura, non solo della sintomatologia, ma della società tutta rispetto al tema della dispercezione corporea, in relazione a cosa possa significare vedersi in modo diverso da quella che è la realtà, o quantomeno da quel che appare come tale. Il mio psicoterapeuta in tutto ciò, mi ha aiutato anche a identificare il disagio, scongiurando che questo diventasse parte integrante della mia identità.

Questi stati d’animo possono portare a creare un senso di comunità con gli appartenenti allo stesso gruppo, ma può anche diventare una trappola, un limite. Da pochissimo Iperborea ha pubblicato nella sua nuova collana di saggistica narrativa Stranieri a noi stessi, di Rachel Aviv, una giornalista statunitense che si occupa di medicina, educazione e giustizia.

In questo libro parla del rapporto tra diagnosi e identità a partire da un’esperienza personale, quando a soli sei anni viene ricoverata per anoressia. Passano poche settimane e, da un giorno all’altro, ricomincia a mangiare. A differenza delle compagne di reparto già adolescenti, l’anoressia per lei non diventa una “carriera”.

Il libro di Aviv è il racconto di tutto questo, nonché un’indagine intorno al bisogno che abbiamo di raccontarci e farci raccontare dagli altri nel tentativo di conoscerci, “perché niente come una storia ha il potere di cambiare – nel bene, nel male – la nostra identità, e quindi la nostra vita”. È bene sapere che – come riporta l’Istituto Superiore di Sanità – “tipicamente riscontrati e diagnosticati soprattutto nei paesi occidentali, i disordini alimentari sono negli Stati Uniti la prima causa di morte per malattia mentale. Tuttavia, se la diagnosi è precoce e il trattamento intensivo e completo sotto il profilo medico e psichiatrico, gli anoressici e i bulimici hanno buone probabilità di recupero”. 

La mia storia è iniziata a 9 anni. La dieta indicata dal pediatra prevedeva tutti i giorni a colazione tè con due fette biscottate integrali, qualche mandorla a metà mattina, minestrone a pranzo, finocchi o carote a merenda, pollo ai ferri o primosale con insalata per cena. Come dessert, una pastiglia di crusca grande come una moneta da due euro. Sento ancora, a 30 anni di distanza, la sensazione di gola raschiata nel mandarla giù insieme a mezzo litro d’acqua, l’odore nauseante della crusca, il perdurare del disgusto sulla punta della lingua. I primi cinque chili sono volati via. Persi in due mesi. Ora, bisogna contestualizzare: stiamo parlando di circa 30 anni fa, quando l’attenzione alla salute mentale non aveva ancora l’importanza che ha oggi. I miei genitori si sono affidati alle indicazioni del medico. All’epoca c’era probabilmente una fiducia diversa, meno interrogativi, meno domande. L’obiettivo era raggiungere un risultato, aggiustare un numero. E quello è stato raggiunto. Credo nessuno potesse immaginare ciò che sarebbe accaduto dopo, da lì a poco tempo.

A corroborare ulteriormente questi dati, qualora ce ne fosse ulteriore bisogno, è la psichiatra e psicoterapeuta Laura Dalla Ragione, direttore della “Rete disturbi comportamento alimentare dell’Umbria” e presidente della “Società italiana riabilitazione disturbi del comportamento alimentare e del peso”, che mostra un’ulteriore specifica sui numeri maschili: “Si assiste dal 2019 al 2023 a un progressivo calo dell’età mediana e della proporzione di ricoveri di sesso femminile rispetto a quelli maschili, confermando un abbassamento dell’età di insorgenza (il 20% della popolazione ammalata è nel 2023 sotto i 14 anni) e una maggiore diffusione nella popolazione maschile”. Negli accessi al Pronto Soccorso, uno dei flussi analizzati, sono aumentati di 4 volte i maschi. “L’analisi critica dei dati fa emergere più che un reale aumento del genere maschile nella popolazione generale, nonché un aumento delle richieste di aiuto, che nel caso dei maschi sono sempre più difficoltose essendo culturalmente una malattia più femminile”.

Gli altri miei chili persi sono stati una diretta conseguenza, inesorabile, di sport, mantenimento e alimentazione controllata, all’interno di un regime alimentare meno rigido ma sempre attento. Da lì a qualche anno ho iniziato la pubertà. Da adolescente non ho accettato il mio corpo, nonostante fosse rientrato da quel segno più. Mi sono spesso odiato e rifiutato. Avevo timore di ingrassare. Provavo terrore all’idea di dover eventualmente tornare a quella dieta. Ho pianto ed esercitato il controllo su ogni cosa: sul peso, sul cibo, sullo sport, sulla scrittura, che iniziava ad affacciarsi per me come possibilità di fuga, come alternativa, come stato di sospensione dal disagio, come luogo in cui potermi sentire leggero, in cui descrivermi e vedermi magro senza troppi sforzi.

Amélie Nothomb in Psicopompo dice che l’anoressia la salvò, che fu la ripartenza da zero di cui aveva bisogno per far nascere una nuova persona in sé. Una metamorfosi per attenuare un’altra sofferenza. “Accadde un fenomeno allucinante”, dice. “Il mio corpo si separò dalla mia anima”. Scrivere diventa allora come volare: “Se piombo al suolo significa che il manoscritto è fallito”.

All’epoca ero solo un ragazzo, ma lo stato di disagio che provavo mi metteva di fronte a un grande vuoto. Il vuoto di un tempo che ancora non riesco a guardare con la prospettiva dell’esperienza, nemmeno oggi. Di quel periodo ricordo distintamente, in ogni dettaglio, un dolore alla pancia, una contrazione addominale costante, per ingannare il gonfiore della rilassatezza, il lasciarsi andare nella curva della pelle, in un profilo non dritto ma arrotondato.

“All’epoca ero solo un ragazzo, ma lo stato di disagio che provavo mi metteva di fronte a un grande vuoto. Il vuoto di un tempo che ancora non riesco a guardare con la prospettiva dell’esperienza”.

Di quei momenti ricordo precisamente anche un’altra cosa: la desolazione, ma almeno è lì che mi sono spiegato perché la Gru appoggia in terra una zampa sola. Una tecnica che un mio maestro una volta ha definito “del sommo equilibrio”, ovvero la capacità di cavarsela, restando in piedi davanti agli ostacoli che la vita impone.

Giuliano Enzi, in Obesità, pubblicato alla fine degli anni Novanta dalla Biblioteca Medica Masson, scrive che l’obesità è “documentata dal 2700 a.C. in opere grafiche, disegni, sculture o scritti, in tutte le civiltà che disponevano di mezzi di tradizione scritta del pensiero. Nelle opere di Ippocrate viene menzionata come malattia o come causa di malattia”.

Il suo testo inizia con una domanda appartenente a uno stereotipo che si è perpetuato nel tempo: “Grasso è bello?”. A lungo, per esempio, mi hanno detto: “Stai bene con qualche chilo in più”, senza considerare quanto quella frase potesse avere effetti distorti su di me. “La stigmatizzazione del sovrappeso”, continua il libro “ha provocato, nella cultura occidentale, sofferenza, discriminazione, sentimenti di vergogna e di colpa nei soggetti affetti da tale condizione. Di conseguenza gli obesi si sentono responsabili delle reazioni negative che sono associate al loro stigma, e biasimano sé stessi”.

Non mi biasimerete, perciò, ora, se confesserò che nella mia pesa settimanale attualmente segno 76 sulla bilancia e non 72, come ho scritto in principio. Segno questa cifra da diverse settimane ormai. Non è un peso con cui mi sento completamente a mio agio. Per questo ho mentito, ma è sempre oggi il momento buono per provare a cambiare. 

Guardo le foto di quand’ero bambino. Una canottiera verde acqua, le braccia paffutelle incrociate e un broncio di chi non vuole essere fotografato per vergogna, fastidio. I capelli schiacciati davanti al viso, per nascondersi. Guardo quelle foto e mi arrabbio con quel bambino, poi arriva la voce del mio psicoterapeuta che dice: “Ma è solo un bambino”. Allora provo compassione, gli sciolgo le braccia conserte e lo abbraccio, confondendo i confini di due corpi che in verità sono lo stesso, vanno solo guardati con occhi nuovi.

Eugenio Giannetta

Eugenio Giannetta è giornalista e autore tv. Ha scritto inoltre racconti per diverse riviste.

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