Mirko Vercelli
Il nostro cervello è attrezzato per elaborare la sofferenza altrui solo quando questa non eccede una certa misura. Dopo subentra quello che Paul Slovic chiama "intorpidimento psichico", condizione aggravata dall'attenzione frammentata che caratterizza il nostro tempo. Un'indagine sulla nostra (scarsa) facoltà di provare empatia di fronte a eventi catastrofici e sulla possibilità di fare meglio.
O tutti o nessuno. È semplice ingegneria cognitiva: se dieci morti indignano, 53.573 diventano astrazioni. Cifre che il nostro cervello non può elaborare.
Un dittatore che voglia liberarsi del nemico lo sa: il genocidio è efficacissimo. Eliminare una famiglia diffonde storie, nomi, volti con cui i testimoni possono identificarsi. E infatti è quello che provano a fare da anni i palestinesi su tutti i social postando le foto delle vittime, raccontando di loro almeno l’età, il lavoro e la città di provenienza. Col tempo le didascalie si sono fatte sempre più scarne e imprecise. Oppure dopo l’attacco del 7 Ottobre, quando le associazioni ebraiche e israeliane diffondevano i volti degli ostaggi, raccontandone le passioni, i lavori. Un individuo con una storia risuona con la nostra emotività. Una singola vittima ha il potenziale per diventare un simbolo. Dipende dalla struttura architettonica di un cervello evolutosi per gestire relazioni in piccoli gruppi. La nostra empatia è progettata per comunità ristrette ristrette, nelle quali la morte di un individuo è un evento raro e significativo.
Paul Slovic è uno psicologo che ha dedicato la carriera allo studio di questo fenomeno. L’empatia funziona solo sui piccoli numeri, poi arriva quello che chiama “l’intorpidimento psichico”. Più alto è il numero delle vittime, più bassa è la nostra sensibilità nei loro confronti. Superata una certa soglia, la morte diventa solo un fatto. Come dice la famosa frase (attribuita a Stalin) “la morte di uno è una tragedia, la morte di milioni è statistica”. Il testo di Emmanuela Carbé, Jacopo La Forgia, Francesco D’Isa Trilogia della catastrofe. Prima, durante e dopo la fine del mondo (Effequ, 2020) offre degli esempi ottimi in questo senso. Albert Szent-Gyorgyi, celebre fisiologo ungherese e scopritore della Vitamina C, disse:
Mi commuovo profondamente se vedo un uomo soffrire e rischierei la mia vita per lui. Allo stesso tempo parlo con freddezza della possibile polverizzazione delle nostre grandi città, con cento milioni di morti. Non sono in grado di moltiplicare la sofferenza di un uomo per cento milioni.
Il coinvolgimento emotivo per una tragedia non aumenta proporzionalmente all’aumentare delle dimensioni dell’evento. E poi c’è il punto di non ritorno: oltre un certo numero è tutto uguale. Questo concetto è illustrato chiaramente in vari esempi tratti dal libro in questione. Uno di questi riguarda un esperimento con gli uccelli migratori: ogni anno, tra 2.000 e 200.000 esemplari muoiono annegando in pozze di petrolio non coperte, che scambiano per bacini d’acqua. La soluzione sarebbe semplice: coprire questi bacini con delle reti. Ai partecipanti all’esperimento è stato chiesto quanto sarebbero disposti a pagare in più di tasse per salvare 2.000, 20.000 o 200.000 uccelli. In teoria, ci si aspetterebbe che l’importo cresca con il numero di uccelli da salvare. Invece, la disponibilità a pagare media è rimasta pressoché invariata: 80 dollari per 2.000 uccelli, 78 per 20.000 e 88 per 200.000.
Questo effetto, noto come scope insensitivity (o scope neglect), mostra come le nostre risposte emotive e morali non si espandano proporzionalmente all’entità del problema. Come se ci fosse un rifiuto nei confronti di numeri incomputabili, che in fondo riflettono anche la nostra incapacità di occuparcene efficacemente. Il caso palestinese (ma anche qualsiasi altro conflitto prolungato) evidenzia la nostra facoltà di normalizzare l’orrore quando si fa eccessivo. È un meccanismo adattivo: ci permette di convivere con l’orrore senza esserne consumati.
Compassion fatigue è il termine tecnico per descrivere questo fenomeno: l’esaurimento della nostra capacità empatica di fronte a stimoli emotivi costanti e ripetuti. C’è ampia letteratura in merito, emersa grazie soprattutto all’esperienza degli operatori sanitari. Nel XIX secolo, il dottor Ernst Heinrich Weber e il suo allievo Gustav Theodor Fechner teorizzarono che la capacità delle persone di rilevare cambiamenti in uno stimolo fisico diminuisce rapidamente man mano che la grandezza dello stimolo aumenta. Come se non bastasse, se si aumenta l’intensità di uno stimolo fisico, la sensazione associata non aumenta linearmente, ma più lentamente, specie quando l’intensità di partenza di tale stimolo è elevata. Mai come ora, la nostra intensità di partenza percettiva è elevata. Una coscienza frammentata, soggetta al sovrastimolo cognitivo digitale è meno propensa all’empatia. Ecco che ogni stimolo in più andrà soltanto a perdere di valore di fronte alla saturazione.
Diversi studi hanno documentato questo intorpidimento valutando la disponibilità delle persone a finanziare vari trattamenti medici salvavita. I ricercatori hanno concluso che le persone erano meno disposte a inviare aiuti che avrebbero salvato 1.500 vite nei campi profughi ruandesi man mano che aumentava la dimensione della popolazione a rischio nei campi. Si tratta di conclusioni tratte dalla nostra mente che si fa ingannare dai numeri: la proporzione di vite salvate spesso ha più peso del numero di vite salvate quando le persone valutano gli interventi. Si riscuote più sostegno per salvare l’80% di 100 vite a rischio che per salvarne il 20% di 1.000. In uno studio, alcuni studenti universitari hanno appoggiato con più convinzione una misura di sicurezza aeroportuale tesa a salvare il 98% di 150 vite a rischio rispetto a quella che prevedeva di salvarne 150. Salvare 150 vite va benissimo, certo, ma salvare il 98% di qualcosa è chiaramente molto meglio.
Diventare consapevoli di questi meccanismi richiede una costante rinegoziazione con l’idea positivista della nostra coscienza, un faticoso esercizio di attenzione che la mente tende a evitare. Siamo animali abitudinari: preferiamo un dolore acuto e breve a uno cronico a bassa intensità. La nostra architettura neurologica privilegia lo scatto dell’ emergenza alla lunga maratona dell’empatia, che invece va allenata. Forse qualcuno ricorderà Alan Kurdi, il bambino siriano fotografato senza vita su una spiaggia turca nel 2015. Per settimane, quell’immagine catalizzò l’attenzione mondiale sulla crisi dei rifugiati. Migliaia di bambini morti nel Mediterraneo prima e dopo di lui sono rimasti statistiche anonime. La differenza? Un nome, un volto, una storia singola che il nostro cervello era in grado di elaborare. Le immagini colpiscono più dei dati, fatto con il quale, per esempio, si sono dovuti scontrare tantissimi divulgatori per sensibilizzare sulla questione ambientale.
“Più alto è il numero delle vittime, più bassa è la nostra sensibilità nei loro confronti. Superata una certa soglia, la morte diventa solo un fatto”.
L’emergenza non traspare nemmeno dai numeri più emergenziali. C’è un esperimento famoso di Slovic: quando ai partecipanti viene mostrata la foto di una bambina affamata, le donazioni aumentano significativamente; quando la foto è accompagnata da statistiche sulla carestia che colpisce milioni di persone, le donazioni, invece, diminuiscono. Slovic stesso ha titolato una sua ricerca con una frase di Madre Teresa di Calcutta: “Se guardo alla massa, non agirò mai. Se guardo al singolo, agirò”.
Alcune immagini riescono però a trasmettere un impatto più profondo. Per protestare contro le 38.000 morti annuali per armi da fuoco negli Stati Uniti, alcuni attivisti accumularono 38.000 paia di scarpe davanti al Congresso. In una scuola del Tennessee, alcuni studenti raccolsero 6 milioni di graffette per commemorare le vittime dell’Olocausto.
L’immagine di un volto umano resta forse la rappresentazione più potente di una vita. Il giornalista Paul Neville insiste sull’importanza di conoscere chi c’è dietro i numeri: i volti, le storie, le emozioni. Dopo l’11 settembre del 2001, molti giornali pubblicarono ritratti e biografie delle vittime, una al giorno, per restituire umanità a chi altrimenti sarebbe diventato parte di una statistica.
A volte nemmeno serve che il volto sia umano: una foto di un vitello di 12 giorni, Phoenix, destinato all’abbattimento durante un’epidemia in UK, riuscì a far cambiare le politiche governative. Anche la narrativa può rendere tangibile l’empatia. La scrittrice Premio Pulitzer Barbara Kingsolver osservava come la fiction potesse farci vivere dentro un’altra prospettiva: un romanzo può raccontare una sola delle cento vite perse in un disastro e farcela sentire nostra. Ci fa vedere la luce del mattino nella casa della vittima, gustare la sua colazione, condividere i suoi pensieri, come accaduto per Molto forte, incredibilmente vicino o, in tempi più recenti, con No other land. Solo così comprendiamo che quella vita era unica e preziosa quanto la nostra.
Numeri incommensurabili scatenano anche la consapevolezza distaccata della propria impotenza di fronte al dramma. Che questa impotenza sia vera o meno non importa: la sua percezione dipende come detto dalla nostra capacità di adattamento, che ci permette di sopravvivere ai traumi e che però diventa complice della nostra indifferenza.
C’è poi un ulteriore aspetto interessante legato all’elaborazione del dolore altrui. Nel saggio di Haney López Dog Whistle Politics (Oxford University Press, 2015) si racconta che negli anni Cinquanta un cronista, perso nelle campagne del Sud degli Stati Uniti, riceve un passaggio da un contadino che lo accoglie calorosamente, gli presenta la famiglia, lo rifocilla. Il giornalista è colpito dalla gentilezza dell’uomo, finché non scopre che pochi giorni prima aveva partecipato al linciaggio di un afroamericano. Come si spiegava questa differenza di trattamento?
Una delle forme più basilari di elaborazione emotiva consiste nell’assegnazione di valenza negativa o positiva a un determinato stimolo. Per dirla in breve, dobbiamo essere molto rapidi a capire se qualcosa è buono o cattivo. Un’ampia letteratura di ricerca documenta l’importanza della valenza emotiva nel conferire significato alle informazioni e nel motivare il comportamento ad esse associato. Senza emozione, l’informazione manca di significato e non viene utilizzata nel giudizio e nel processo decisionale. Il contadino del racconto di prima considerava “cattivo” l’afroamericano, motivo per cui si sentiva legittimato a ferirlo in quanto “non umano”.
Un altro elemento psicologico importante e già citato è l’attenzione. Proprio come i sentimenti sono necessari per motivare l’aiuto, l’attenzione è necessaria per attivare i sentimenti. La ricerca mostra che l’attenzione amplifica le risposte emotive agli stimoli già potenzialmente carichi e motiva il conseguente comportamento d’aiuto. Ma nel 2025 come possiamo smantellare pattern psichici ancestrali se la saturazione cognitiva ci rende sempre più insensibili e distratti?
Stando agli studi di Nicholas Carr, ad esempio, i nostri cervelli da tempo hanno preso un’altra direzione. Nelle sue ricerche sull’impatto delle tecnologie digitali sulla cognizione, ha evidenziato più volte come l’uso intenso e prolungato di internet modifichi la plasticità cerebrale, influenzando i circuiti neurali coinvolti nell’attenzione prolungata e nella lettura profonda. Dieci anni dopo, Anna Lembke, psichiatra esperta di dipendenze presso Stanford, ha studiato approfonditamente il ruolo della dopamina nelle dipendenze comportamentali legate ai media digitali. Nel suo libro Dopamine Nation (Dutton, 2021), Lembke descrive come l’uso compulsivo di smartphone e social media attivi il sistema di ricompensa cerebrale in modo simile alle dipendenze da sostanze. Notifiche, scroll e swipe stimolano il rilascio di dopamina, creando cicli di gratificazione-astinenza che possono portare a una forma di dipendenza comportamentale. Lembke definisce lo smartphone “la moderna siringa ipodermina”.
Si può descrivere come “frammentazione dell’attenzione” o “attenzione parziale continua”, per dirla con le parole di Linda Stone, ex dirigente di Apple e Microsoft. Uno stato di allerta cronica in cui dividiamo continuamente la nostra attenzione tra molteplici fonti di informazione, mantenendo un livello superficiale di attenzione su ciascuna. Questo stato, secondo Stone, “può portare a un aumento dello stress e a una diminuita capacità di concentrarsi e focalizzarsi sul momento presente”.
Perdiamo anche la capacità di stare soli. Sherry Turkle, del MIT, nel suo libro Reclaiming Conversation (Penguin Pr, 2015), affermava che “la capacità di stare soli, la capacità di essere in pace con se stessi, è la base per poter formare relazioni di successo. Se sei contento dentro di te, puoi ascoltare un’altra persona e sentire veramente ciò che ha da dire”. La solitudine cognitiva, secondo Turkle, è fondamentale per lo sviluppo dell’empatia e della riflessione morale.
“Il caso palestinese (ma anche qualsiasi altro conflitto prolungato) evidenzia la nostra facoltà di normalizzare l’orrore quando si fa eccessivo. È un meccanismo adattivo: ci permette di convivere con l’orrore senza esserne consumati”.
Se vogliamo prendere coscienza dei nostri limiti cognitivi, allenare l’empatia, dobbiamo anche riconoscere di aver tutti compiuto a nostra volta delle stragi. Non letteralmente, certo, ma idealmente sì, poiché anche noi siamo soggetti al rischio di escludere l’altro, disumanizzarlo, di tracciare linee invisibili tra chi merita la nostra compassione e chi no. È più facile essere compassionevoli verso le vittime che verso i carnefici. E anche questo perpetua il ciclo della violenza.
Aldo Capitini, filosofo della nonviolenza e padre dell’obiezione di coscienza in Italia, sosteneva che la vera rivoluzione consiste nel riconoscere l’umanità anche in chi la nega agli altri. Lungi dal voler giustificare azioni e pose, un’atteggiamento compassionevole verso tutte le parti serve interrompere la catena di disumanizzazione che alimenta ogni conflitto. La capacità di riconoscere l’umanità negli altri è ciò che definisce la nostra. È una forma di pareidolia morale: come tendiamo a vedere volti nelle nuvole, dovremmo allenarci a vedere l’umanità anche dove sembra assente. Quando qualcuno viene trattato da umano, tenderà a riconoscere come umano chi lo tratta così, un fenomeno che la teoria della psicologia relazionale chiama “rispecchiamento empatico”.
Sembra facile teorizzare tutto questo da una tastiera in un Paese europeo, lontani dal fragore delle bombe e dal dolore delle perdite. E infatti sono più incisive le voci di chi ha vissuto l’orrore in prima persona nel ricordarci questa verità fondamentale. Etty Hillesum, giovane ebrea olandese che scrisse il suo diario nel campo di concentramento di Westerbork prima di essere uccisa ad Auschwitz, annotava:
“…Assenza d’odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù [nel campo di smistamento di Westerbork] ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale”.
Era una lucida comprensione che l’odio non può essere sconfitto con altro odio. Mahatma Gandhi, di fronte alla brutalità del colonialismo britannico e alle tensioni interreligiose in India, insisteva che “un occhio per occhio renderà il mondo intero cieco”. La sua satyagraha era il rifiuto di accettare la disumanizzazione dell’avversario come premessa della lotta. E ancora durante l’apartheid sudafricana, metà della popolazione scelse la disobbedienza e la riconciliazione invece della vendetta, comprendendo che l’unica via d’uscita dal ciclo dell’odio era riconoscere l’umanità anche in chi l’aveva negata. La soluzione sembrerebbe risiedere nel costante esercizio di riumanizzazione; cognitivamente, però, sarebbe estenuante.
Nei giorni scorsi sui social hanno girato dei video di esseri umani che ridono, scalano montagne, dicono di non essere solo prompts, di non essere persone virtuali dunque, piangono, si disperano. Sono video generati con VEO3 di Google. Sui nostri schermi scorrono video di persone disperate generate da training set e video di persone disperate vere. Per il nostro cervello, entrambe i casi sono meritevoli di una qualche piccola dose di attenzione, di superficiale empatia. Le nostre emozioni si attivano comunque, e si esauriscono diluendosi nella moltitudine.
E intanto le frasi, le parole, le costruzioni sintattiche che descrivono la catastrofe reale diventano intercambiabili. Sempre gli stessi termini – escalation, popolazione civile, comunità internazionale, ospedali bombardati – montati e rimontati secondo formule che riecheggiano quelle di Chat-GPT, la cui presenza sembra oramai ubiquitaria. Tutto suona vuoto. O forse, come scriveva Dino Campana, tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili.
Riferimenti
Mirko Vercelli
Mirko Vercelli è un antropologo culturale, educatore e artista di spoken word. Il suo ultimo libro è Memenichilismo (NovaLogos, 2024).
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