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Lucio Meola

Su quali basi la destra sta provando a intestarsi Pasolini?

Meola Cover B

Biografia selezionata, critiche al PCI decontestualizzate e retorica del nazional-popolare: così ad Atreju si è tentata un’appropriazione di PPP che ne ignora il marxismo, l’odio per il fascismo e la denuncia dell’omologazione.

Dopo Gramsci, è il turno di Pasolini: la destra italiana continua ad appropriarsi di intellettuali legati alla storia del comunismo. Nel caso del filosofo sardo l’appropriazione è sottile, non può passare direttamente per la sua figura di filosofo marxista, fondatore del PCI, incarcerato e ucciso proprio dal regime fascista. Il mondo culturale della destra italiana si limita a riprendere, banalizzandolo, il concetto di egemonia culturale. Nell’edizione 2025 di Atreju, la festa nazionale di Fratelli d’Italia, il partito ha esposto una galleria delle “egemonie che ci piacciono”, un pantheon di personaggi storici di riferimento. Al concetto di egemonia è stata data una torsione militaresca: “egemone è il condottiero”.

In questa galleria, accanto ai prevedibili Marconi, D’Annunzio e Charlie Kirk, c’è anche Pasolini, simbolo della cosiddetta “egemonia della tradizione”. Ma a differenza di Gramsci, qui l’appropriazione può andare oltre. A Pasolini è dedicato anche un panel: “Pasolini e Mishima: poeti fuori dagli schemi”, con interventi tra gli altri del ministro della Cultura Alessandro Giuli e della ministra della Famiglia Eugenia Maria Roccella. Naturalmente la rivendicazione non può essere esplicita come nel caso di Mishima, a cui viene tributato un lungo applauso e una vignetta del fumettista Osho. Ma di Pasolini, comunque, “non abbiamo problemi a parlare”. Il ministro Giuli lo dice chiaramente, con il bagaglio lessicale che gli è caro: la destra italiana deve tentare delle “intersezioni audaci” tra figure diverse.

La prigione dorata

Sono varie le ragioni che permettono alla destra italiana di appropriarsi di Pasolini in maniera più esplicita. Per prima cosa, la biografia: è comunista, sì, ma ufficialmente per pochi anni, e con un rapporto conflittuale con il partito. Pasolini scopre il comunismo tardi, in maniera estetica più che politica, e milita nel PCI solo per pochi anni. A Jean Duflot racconterà di aver incontrato per primo “il fascismo stupido e incolto” che vietava i libri, non quello violento “dei manganelli e degli assassinii politici”. E quindi il suo antifascismo è inizialmente solo letterario, estetico appunto, e si traduce in un ritiro spirituale, non nell’azione antifascista.

Nell’opera teatrale in friulano I Turcs tal Friùl (1944), Pasolini traccia un paragone tra l’occupazione nazista che vive attorno a sé e l’invasione ottomana del Friuli del 1499. Nel dramma sono presenti due fratelli, Pauli e Meni, che reagiscono in modo diverso all’invasione: Pauli si ritira in preghiera, mentre Meni muore combattendo. In Meni molti hanno visto un’immagine del fratello Guido, che diventò partigiano nel 1944, mentre Pier Paolo cercò di restare il più possibile fuori dai combattimenti. Anche la morte del fratello di Pasolini è strumentale al suo recupero: Guido venne ucciso nel febbraio 1945 nell’eccidio di Porzûs, uno degli episodi più controversi della Resistenza italiana, in cui partigiani gappisti legati al PCI uccisero diciassette partigiani delle Brigate Osoppo.

Subito dopo la guerra Pasolini si iscrive al PCI, diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa e vive con grande trasporto le lotte dei mezzadri friulani. È in questo contesto che arriva lo scandalo di Ramuscello: il segretario di sezione e insegnante delle medie si apparta con tre ragazzi, la voce si diffonde e il 26 ottobre 1949 Pasolini viene espulso dal PCI “per indegnità morale e politica”. “Perseguitato dal PCI perché omosessuale” (dice Roccella), con il fratello ammazzato dai comunisti, espulso dal partito: politicamente, è il profilo perfetto per un’appropriazione.

Meola Alessandro Giuli

E qui interviene il primo rimosso di questa riappropriazione: Pasolini fu comunista dichiarato fino alla fine dei suoi giorni. Nel suo intervento, il presidente della Commissione cultura della Camera, Federico Mollicone, ricorda un incontro che Pasolini tenne a Lecce con degli studenti, il 21 ottobre 1975, come un “dialogo con studenti fascisti e comunisti”. Ancora lì, dieci giorni prima della sua morte, rispondendo a uno di loro Pasolini si dichiara “marxista da trent’anni”, “imperterritamente un progressista”. Anche per Alessandro Viola, autore de Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975), gli accesi dibattiti tra Pasolini e il mondo comunista sono invettive tutte “interne al campo progressista”. Pasolini fu un innovatore comunista, un comunista critico. Difficilmente, dunque, “Pasolini sarebbe stato qui [ad Atreju] stasera”, come rivendicato da Mollicone. Difficilmente sarebbe stato “felice di questo incontro”, come suggerito più timidamente da Roccella. Pur nella critica, con tutta l’indipendenza dell’intellettuale senza tessere, comunque “anche quest’anno, come sempre, voto comunista”. Siempre votò comunista, Pasolini, come Raffaella Carrà.

Ma il mantra dell’appropriazione è un Pasolini conservatore, persino “reazionario” secondo Giuli, che cita La Russa. Lo scrittore Camillo Langone propone invece un’operazione di giustizia storica. L’argomento è il seguente: Pasolini era diventato un conservatore, ma furbescamente non l’ha mai confessato per non subirne le ripercussioni. Bisogna quindi liberarlo da un’appartenenza politica che è stata “una prigione dorata, un domicilio coatto”. Roccella parla di una “nostalgia furente”, di un “conservatorismo utopico”, a cui aveva già risposto Pasolini stesso nell’incontro di Lecce:

“Tutte le illazioni che voi fate sul mio ritornare indietro, son tutte follie […] dove ho scritto che bisogna tornare indietro? Dove? Vedete punto per punto, e io punto per punto vi dico di no: avete capito male, vi siete sbagliati, non intendo affatto ritornare indietro”.

Il Pier Paolo nazionale

Se non un conservatore, che si recuperi almeno un Pasolini né di destra né di sinistra, si dice. Un intellettuale nazionale, un “grande della storia” (come lo definirà Maurizio Lupi qualche giorno dopo sempre ad Atreju), un patrimonio di tutti. Per Mollicone l’operazione da tentare è proprio una “sintesi della cultura nazionale”, che va ricomposta dopo essere stata lacerata dalle divisioni politiche. La stessa sintesi che Pasolini ha osteggiato in gran parte della sua produzione, vedendo proprio nel fascismo l’origine di una violenza culturale che sintetizza e appiattisce, una sorta di – scrive – “genocidio”. Il recupero del dialetto e delle culture locali è un tema pasoliniano che la destra legge come un appiglio, e che è rivolto originariamente proprio contro il fascismo. Pasolini vede il regime come un fenomeno storico moderno, che ha cercato di cancellare le culture particolari tanto quanto il consumismo. La differenza è nell’effettività, non nell’intenzione:

“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata” (“Acculturazione e acculturazione”, 9 dicembre 1973, in Scritti corsari).

Dopo la Liberazione, il potere democristiano è stato in continuità “completa e assoluta” con il fascismo, fondandosi sugli stessi valori: “la Chiesa, la patria, la famiglia, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, il risparmio, la moralità”. Questi valori “valevano” effettivamente qualcosa fin quando erano reali, corrispondenti a un’etica popolare; “ma nel momento in cui venivano assunti a valori nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano” (“Il vuoto del potere in Italia”, 10 febbraio 1975, in Scritti corsari). Il mondo contadino era portatore di una verità della vita, non era da valorizzare per un contenuto di senso. Anzi, al contrario: quando i valori tradizionalisti vengono assunti come valori nazionali, ecco che il potere diventa conformista e antidemocratico, e uccide quella vita.

Meola Generale

Il problema con cui Pasolini si confronta è l’omologazione in sé, senza distinguo su chi la opera. Di più: è doppiamente colpevole chi si rivede nell’omologazione fascista e insieme si arrende all’omologazione neocapitalista. È il caso del fascista “modernissimo”, che, anche se “manovrato dalla espansione economica italiana e straniera, legge ancora Evola” (“Ampliamento del ‘bozzetto’ sulla rivoluzione antropologica in Italia”, 11 luglio 1974, in Scritti corsari), immagine in cui sembra di rivedere l’humus culturale della destra italiana contemporanea. Per Pasolini i fascisti contemporanei sono tali solo di nome, e non accetterebbero il ritorno al passato fascista senza tutte le comodità e gli agi del consumismo – e in questo sono tutto fuorché antisistema. Ne sono anzi l’espressione più fedele: “le poche migliaia di giovani estremisti fascisti sono in realtà forze statali” (“Abrogare Pasolini?”, 26 luglio 1974, in Scritti corsari). Fascismo è ogni estensione del centro sulla periferia: e proprio per questo Pasolini non può “appartenere alla nazione” (Roccella). “Il nuovo modo d’essere degli italiani”, la cultura nazionale che la destra italiana si propone di conservare, ha rimpiazzato le culture particolari e “la vecchia cultura di classe”: è il risultato di un genocidio.

Il dramma del genocidio culturale si esprime soprattutto nella lingua, e ha avuto nella televisione il suo braccio armato. La televisione potrebbe essere uno strumento “meraviglioso”, se non avesse inculcato negli spettatori dei canoni unici, che hanno annullato culture e lingue particolari. “Bisogna dare tre a chi parla come Mike Bongiorno”, ammonisce gli insegnanti. Che voto darebbe Pasolini all’italiano di Carlo Conti o di Mara Venier, ospiti di Atreju il giorno successivo? Fratelli d’Italia rivendica il “nazionalpopolare” come un aspetto costitutivo della cultura popolare italiana. Ma invece delle culture popolari contadine, ad Atreju è stata valorizzata proprio quella televisione media e intrattenente, che produce una cultura nazionale basata su poco più che su un corrucciato “scossa?”. Nell’italianità non c’è davvero nient’altro se non zia Mara: “la prima vera unificazione italiana è […] questa nuova produzione che caratterizza la civiltà dei consumi” e i suoi valori edonistici propagandati dalla televisione.

Meola Carlo Conti

Pasolini ardito

L’aspetto più inquietante del potere fascista è il controllo dei corpi e del desiderio, come mostrato con crudezza in Salò. Proprio sul tema del corpo i relatori del panel impostano il confronto con Mishima. Le recenti riprese a destra di Pasolini vogliono farne un ardito: gli attribuiscono un volontarismo, un’energia quasi futurista. La vita come opera d’arte, la poetica del gesto, la verità dei corpi, la morte violenta forse programmata, come il suicidio rituale di Mishima. Ma la corporeità pasoliniana è come la tradizione: esprime una verità originaria mortificata dal potere, da ogni potere. Salò mette in scena l’espressione massima di questo controllo microfisico. Il filosofo Giacomo Marramao, nella raccolta di saggi Pasolini inattuale, lo avvicina alla biopolitica di Foucault, ma con una differenza decisiva: “se il potere per Foucault costruisce i soggetti, per Pasolini li distrugge o li corrompe”. La permanenza del corpo e la sua verità non sono espressione di un vitalismo, ma forme di resistenza rispetto a un potere che prova a governarlo, e che invece può solo umiliarlo e devastarlo. Proprio come in Salò, in cui sono dei gerarchi repubblichini a mettere in atto forme estreme di degradazione dei corpi. La resistenza di questi corpi è passiva. È una resistenza della permanenza, non dell’eroismo. È la resistenza di Pauli, non di Meni.

Lucio Meola

Lucio Meola frequenta la Scuola di giornalismo “Lelio Basso”.

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