Adolescenza d'azzardo. Crescere nelle sale giochi di Bari - Lucy
articolo

Andrea Piva

Adolescenza d’azzardo. Crescere nelle sale giochi di Bari

12 Settembre 2023

Cosa significa per un ragazzino frequentare assiduamente le sale giochi di Bari, tra eroina e gioco d’azzardo? Per l’autore è stata una scuola di vita (e di scrittura).


Alla fine degli anni Settanta la mia famiglia si trasferì a Bari da Matera, in un appartamento piuttosto pretenzioso del centro città. Per qualche motivo che non si è mai chiarito io venni iscritto a un istituto religioso femminile, e in centro non si faceva vita di strada, quindi non avevo amici: ma a quanto ricordo non lo vivevo come un problema. Di certo, lo studio riuscivo a evitarlo comunque. Avevo sette anni e una certa fantasia. Servendomi di cartoni e lenze e qualche mollica di pane, sul balcone che dava sul cortile interno del nostro palazzo costruivo elaborate trappole per i piccioni, che poi liberavo in casa facendo arrabbiare tutti. Oppure, con i medesimi risultati, dai fazzoletti di stoffa che trovavo nei cassetti dei miei genitori ricavavo piccoli paracadute a cui appendevo qualche oggetto di casa per guardarlo poi planare lentamente, a bocca aperta, sulla desolata distesa di cemento del nostro cortile. Facevo amicizia con i negozianti del centro, soprattutto uomini di mezza età coi baffi che vendevano vestiti. A volte camminavo fino al molo, dove mi fermavo a guardare la gente pescare. Insomma, com’è giusto per un bambino di quell’età, mi davo da fare come potevo per evitare il sussidiario.

Poi, un bel giorno, a un paio di isolati da casa nostra si aprì una sala giochi, e su quella si concentrarono tutte le mie attenzioni. A posteriori mi pare di vederci il destino, in questa cosa, perché le sale giochi, nelle loro varie forme e declinazioni, hanno poi fatto parte della mia vita per tanti anni, e hanno anche segnato il mio percorso di lavoro, dato che il primo film che ho scritto è stato un omaggio alla varia umanità che in quei posti conoscevo. A iniziare dal titolo, che era un’espressione che avevo sentito ripetere chissà quante volte dal gestore di una sala che avrò frequentato per un monte ore degno senz’altro di farmi ottenere una pensione. In effetti, ora che ci penso, sono state innumerevoli le volte che uscendo da una sala giochi di notte ho pensato espressamente che un giorno da quelle esperienze avrei tratto il materiale per farci un libro, un film, qualcosa di creativo. Soprattutto quando ne uscivo da solo e spezzato, che è cosa che da gambler mi è successa non poco (ma di questo, dopo). 

Ora non ricordo che nome avesse, se lo aveva, quella mia prima sala giochi, e nemmeno ricordo come ne abbia scoperto l’esistenza, o con chi ci sia entrato per la prima volta. So che nei pomeriggi d’estate, dopo pranzo, mio padre si andava a riposare nella stanza di mio fratello, e che io nell’ora più morta quatto quatto scostavo la porta trattenendo il fiato per andare a rubare dal suo portafogli qualche moneta da duecento lire. I cosiddetti cabinati della sala giochi funzionavano con quelle, eleganti e piccoline, oltre che con le più cafone cento lire. Mettermele in tasca e uscire di nascosto per andare a giocare ai videogiochi mi eccitava di più che fare finalmente scattare la trappola sul povero piccione di turno, o vedere arrivare intatto a terra sei piani più in basso il famoso posacenere Swarovski che non si trovò più. Avrò avuto otto, massimo nove anni, e francamente ripensandoci adesso mi pare assurdo non solo che non fossi terrorizzato all’idea di andarci senza un adulto, in quel posto, ma anche di essere sopravvissuto a tutto quel periodo senza avere mai subìto una rapina vera e propria o senza essermi mai preso neanche un ceffone. 

“Poi, un bel giorno, a un paio di isolati da casa nostra si aprì una sala giochi, e su quella si concentrarono tutte le mie attenzioni”.

Frequentare quei luoghi in quegli anni non sarà stato pericoloso quanto andare a scuola negli Stati Uniti, ma neanche era sicuro come una parrocchia di provincia. Però va detto che i gestori delle sale giochi sapevano il fatto loro, nel senso che se non erano della malavita con la malavita sapevano trattare, e sapevano che era nel loro interesse proteggere e fare sentire sicuri nei loro locali quelli come me, che arrivavano lì chissà come a lasciare soldi su cui altrimenti loro non avrebbero mai potuto mettere le mani.

Le situazioni pericolose si presentavano infatti tendenzialmente sul tragitto verso la sala giochi più che all’interno della sala giochi. E me lo ricordo benissimo, l’occasionale terrificante incontro col topino – come si chiamano a Bari i temutissimi ladruncoli di strada, sempre pronti alla rissa – il quale mi diceva, in una lingua cattiva che non comprendevo e che pure mi era chiarissima, di dargli tutti i soldi che avevo. Così come ricordo le conseguenti velocissime fughe per evitare i ceffoni che avrei dovuto di certo incassare nel proteggere le mie duecento lire tanto onestamente rubate.

Invece nella sala giochi ero trattato sempre bene, e mi mettevano pure le cassette della birra sotto ai piedi per farmi giocare come si deve. Ricordo la prima volta che si formò un gruppetto di adulti alle mie spalle mentre mettevo il record a non so più quale giochino. Ricordo il flipper a tema settimana bianca, per il quale avevo scoperto un trucchetto per vincere infallibilmente partite, tanto che c’era sempre qualcuno che aspettava che me ne andassi per scroccare le palline che lasciavo. Ricordo le prime sdegnate menzogne in risposta a mio padre che mi chiedeva se gli avessi preso soldi dal portafogli.

Adolescenza d’azzardo. Crescere nelle sale giochi di Bari -

Poi nel giro di qualche anno da quella casa fummo sfrattati con grande dramma, e per me si aprì tutto un nuovo periodo, perché ci trasferimmo in una zona residenziale periferica, di recente costruzione, dove c’era addirittura del verde non macilento, ampi spazi e soprattutto un sacco di ragazzini simpatici con cui cazzeggiare. Continuai occasionalmente a frequentare comunque quel tipo di sala giochi diciamo primigenia, ma – da quando avevo scoperto l’amicizia – senza più grande convinzione. Finché un giorno di qualche anno più tardi, quando ero già un ometto con qualche accenno di sociopatia e una chiara insofferenza al potere, scoprii per puro caso le macchinette del poker elettronico.

Ora questa è una cosa di cui non parlo a cuor leggero, perché è stata una vera e propria dipendenza che mi ha segnato, fatto molto soffrire e in parte pure spezzato, ma insomma da quel momento la sala giochi è tornata con prepotenza nella mia vita. Forse era il richiamo di una cosa ancestrale, per me, qualcosa che parlava al bambino che passava tutto il tempo da solo nel centro città qualche anno prima. Perché non c’è niente di più solitario del gioco d’azzardo, anche quando apparentemente non sei affatto da solo. In ogni caso ne restai folgorato. Ma credo che la scintilla iniziale abbia a che vedere, più che con l’azzardo in sé, con la sensazione di straniamento che si prova entrando in un posto del genere. I jingle dei cabinati, le luci soffuse, i lampi dei neon… mi stordivano come una droga. Il mondo delle sale giochi era un mare misterioso in cui mi trovavo bene.

Come con tutto quello che genera dipendenza, all’inizio della relazione con il gioco d’azzardo c’è spesso una luna di miele che può durare anche anni, in cui non ci si rende conto di avere un problema, anche perché il rapporto che si ha con la sostanza, con le carte, con il sesso, con quello che è, può non essere ancora problematico di per sé. Per me per qualche anno non lo è stato. Ma è per quello che ho iniziato a frequentare le sale giochi di nuova generazione, quelle della metà degli anni Ottanta, quelle in cui gli arcade, ormai riprodotti efficientemente nel salotto di casa con le prime console, servivano solo a nascondere il vero scopo per cui comparivano dappertutto in città: offrire il molto più fruttuoso gioco d’azzardo dei poker elettronici, totalmente illegale. E quanto a nascondimenti, ne ho visti di ogni tipo. Dagli armadi a muro ribaltabili che premendo nel punto giusto si aprivano su stanze segrete, come nei film, fino ai telecomandini tascabili che all’occorrenza trasformavano il gioco del poker in normalissimi Pac Man, il limite era solo la fantasia dei vari clan che gestivano il mercato.

Erano però anche gli anni di una delle grandi ondate mondiali di eroina, e le due cose finivano col mischiarsi molto frequentemente, quindi a posteriori devo pure dirmi fortunato, perché dall’eroina, pur avendola avuta a lungo sotto agli occhi, mi sono sempre tenuto lontano. E però l’ho subìta. Quante volte mi hanno costretto ad accompagnare qualcuno con il motorino a prendere la dose a Japigia, e quante volte il motorino me l’hanno tolto dalle mani con la violenza, sempre per lo stesso motivo. Quante volte col motorino, per evitare l’una e l’altra cosa, sono scappato sgommando col cuore in gola.

“Finché un giorno di qualche anno più tardi, quando ero già un ometto con qualche accenno di sociopatia e una chiara insofferenza al potere, scoprii per puro caso le macchinette del poker elettronico”.

In fondo, sotto certi aspetti, le due dipendenze non erano neanche tanto lontane tra loro. E infatti gli abitanti dei due mondi si guardavano come riconoscendosi, sempre con qualcosa negli occhi che diceva un po’ compatimento e un po’ rimprovero, mentre comunque si faceva spallucce, perché ci si sentiva impotenti, aggiogati a una forza invincibile, e si riconosceva la stessa impotenza negli occhi degli altri. Non a caso, del resto, il giocare alle macchinette del poker era detto, in dialetto barese, pungersi, che era un altro modo di dire bucarsi.

Insomma non erano certo ambienti tranquilli, ma una volta imparata la base del codice comportamentale anche lì non era poi così difficile tenersi lontano dai guai. E del resto col tempo ho imparato pure che alla fine, al di là delle apparenze, quell’umanità non è poi tanto diversa da quella in cui sono cresciuto io. Come nel mio mondo, anche in quello ci sono gli onesti e i malamente, i buoni di cuore e le teste di cazzo. Le anime libere e i timorati di Dio. Molti li ho detestati, ad alcuni ho voluto bene. Con tutti ho trovato una lingua con cui dialogare. Mi è capitato di passare guai sia per via dei buoni che per colpa dei malamente. E ho imparato che spesso i malamente sono più affidabili dei buoni. Ho imparato a fare affari coi primi e a diventare amico dei secondi. Infatti con alcuni buoni di cuore ho ancora rapporti, nel senso che di alcuni so cosa fanno, dove stanno, dove lavorano adesso, ed è capitato che li sia andati a trovare anche di recente. 

A Sabino per esempio ho voluto e voglio ancora proprio bene. Era il gestore di una sala giochi che frequentavo molto dall’Ottantacinque in poi, e credo che il numero complessivo di partite che abbiamo fatto a biliardo alle quindici palle sarà nelle migliaia. Con lui ne ho vissute parecchie. Una volta stavamo fumando sigarette fuori dalla sala, seduti sui cofani delle macchine parcheggiate, e uno sciame di motorini passò davanti a noi un po’ troppo lentamente, con a bordo delle facce un po’ troppo sfidanti per non destare allarme, e quando furono oltre la nostra postazione Sabino mi disse tutto serio di sparire subito nell’opposta direzione.

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Ehi, vattinn’ da do’.

Io avevo già imparato a capire quando fare domande e quando no, quindi me ne andai senza fiatare. Il giorno dopo Sabino mi mostrò tutto sorridente i buchi dei due proiettili che i tizi avevano sparato, ripassando poco più tardi, negli stipiti del locale. Un avvertimento, evidentemente, di cui lui non mi disse mai altro, e di cui io non chiesi.

Una volta rimasi intrappolato per almeno tre ore nella saletta nascosta dietro un armadio, mentre la polizia insisteva di farsela mostrare e lui negava persino che esistesse (io sentivo tutto, e quando poi la porta venne finalmente aperta feci una figura piuttosto meschina, ma non successe nulla di grave).

E una volta, eravamo da soli in sala, di notte, io giocavo a Pang e lui fumava, un balordo venne a rapinarlo, pistola alla mano. Lui mantenne una calma serafica e gli chiese se conoscesse la tale persona di cui fece il nome, lasciandogli intendere che poteva fare quello che voleva in quel momento ma che poi il giorno dopo avrebbe dovuto vedersela con quello. Dopo un’esitazione di qualche secondo, che a me sembrò un’ora, lo sconosciuto si rimise la pistola nei pantaloni e se ne andò silenzioso.

C’erano poi tutte le storie di Sabino, che per me erano una finestra sul fantastico. Mi raccontò del padre in galera per tutta la sua adolescenza e dei suoi modi di procurarsi da vivere con un figlio avuto a quattordici anni. Mi raccontò degli inseguimenti in mare con la Guardia di Finanza. Di quelli in macchina sulla selva di Fasano. Mi raccontò della sua galera. Mi disse qual è la prima cosa da fare quando si entra in galera. Mi raccontò della sua dipendenza da eroina, sorpassata per disperazione quando il suo migliore amico fu sparato in testa davanti a lui per una questione demenziale di piccolo spaccio, soldi e infamità. Mi raccontò con gli occhi lucidi dell’amore della sua vita, che era la madre di suo figlio e che conosceva da quando erano bambini.

Qualche anno dopo, al termine di una delle prime proiezioni pubbliche del film che poi scrissi ispirandomi a queste storie, un noto magistrato antimafia ci disse che secondo lui era chiaro che, per fare un film così, noi che eravamo dei bravi ragazzi dovevamo necessariamente avere avuto accesso alle intercettazioni telefoniche e ambientali con cui lui aveva spesso a che fare. Tra le risate generali del pubblico, gli dissi che in realtà bastava avere avuto qualche vizio e un’inclinazione più o meno precoce a uscire dalla propria personale comfort zone. Tutti credettero che scherzassi, e alla fine andava bene così.

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Io oggi non mi pento di niente. In questo mio percorso trasversale di vita, con i videogiochi prima e con l’azzardo poi, passando dal biliardo a soldi per arrivare infine al poker professionistico (che è stato un punto di arrivo inaspettato della mia parabola nell’azzardo, e un bel riscatto, degno di un romanzo di formazione: ma questa, come si dice, è un’altra storia) ho fatto esperienze che sono davvero contento di avere fatto. Che mi hanno arricchito come uomo e come scrittore. Anzi, ripensando a questo mio passato diciamo irregolare mi viene in mente che alla fine uno come me finché non si confronta con ambienti che non sono il suo non capisce mai davvero bene chi è. Certi caratteri sono una luce che si vede solo al buio.

Anche il fatto di affrontare una dipendenza tanto feroce quanto quella dal gioco d’azzardo è stato formativo per il mio carattere, soprattutto perché me la sono vista da solo, e ne sono uscito facendo affidamento sulla mia forza di volontà. Il che non vuol dire che abbia fatto bene a vedermela da solo, beninteso. Anzi, invito tutti quelli che sentano di avere un problema, o che sappiano di qualcuno a loro caro che abbia un problema col gioco, a cercare aiuto, professionale o meno che sia. 

Io me la sono vista da solo perché sono fatto così. Perché la solitudine è come una vecchia abitudine per me. Perché non sono bravo a chiedere aiuto. Perché le elementari le ho fatte in un istituto femminile. Perché i miei due fratelli grandi erano amici tra loro e non con me, che ero troppo piccolo. Perché da loro mi sono dovuto sempre difendere e guardare. Perché ero il cocco di papà, che è il viatico per la solitudine più efficiente che io riesca a immaginare.

E difficilmente ci si può sentire più soli di quando ci si è giocati tutto su una mano e si è perduto. Difficilmente ci si può sentire più soli di quando a poche ore dall’avere finito di leggere un romanzo di Fenoglio ci si ritrova alle tre di notte in una sala giochi con la saracinesca abbassata a giocarsi i soldi a biliardo con Nino Carrarmato.

Eppure a me quella solitudine piaceva, e ci tornavo sempre. Mi doleva, ma mi piaceva (cit.). Del resto non decidi di fare della scrittura la tua professione nella vita se non ti piace passare molto tempo da solo. Ma in ultima analisi penso che il motivo più profondo di questo mio continuo ritorno alla preadolescenza sia da ricercarsi all’interno del vasto perimetro di una grande verità che mi disse una volta proprio uno degli abitanti di quel mondo, tale Peppino BumBum (maestro della garuffa, e bevitore instancabile).

Put’ fa’ tanda cos’ jin’d a la vita to’. Ma nun put’ ma’ fscì da u cudd ca si’ tu.

(Ci sono tante cose che puoi fare nella vita, tranne scappare da quello che sei).

Andrea Piva

Andrea Piva è scrittore, sceneggiatore e giocatore di poker professionista. Il suo ultimo libro è L’animale notturno (Giunti, 2017).

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