Lost in provincia - Lucy
racconto

Emmanuela Carbé

Lost in provincia

25 Settembre 2023

Lavoro, app di dating online, difficoltà relazionali: la vita nella grande città può farci sentire insignificanti e soli. Ma non è che la provincia è pure peggio?

Lost in provincia

Luglio venticinque del Terzo anno Post Pandemia, Lia aveva passato una notte di gastrite tamponata dal Pantorc e mezza mattinata in una riunione insopportabilmente lunga, idiota, full of inglesismi, per un oggetto basato sull’intelligenza artificiale inutile e stupido. Era una riunione anzi una call a distanza, in smart working, dove un mosaico simmetrico di visi stanchi discuteva del nulla, e Lia percepiva con sfinimento l’idiozia che pezzettino dopo pezzettino stava costruendo da dieci anni lì dentro.

La catastrofe era arrivata a marzo ma gli indizi, a volerli leggere, erano chiari da gennaio e certo anche prima. Per distrarsi andava spesso la sera a Milano dall’amico Mario. L’amico Mario abitava all’inizio di via Paolo Sarpi, lato piazza Gramsci, Mario la portava fuori con amici a mangiare sushi, a fare apericene, dopocene, concerti o cinema più cene, lunghe letture di poesia e poi cene.

Certo che a trentanove anni, diceva continuamente a Mario, i migliori anni buttati. Mario non faceva più caso agli anni migliori: io che ne ho quarantaquattro e sono precario cosa dovrei dire? vuoi che ci ammazziamo? tesoro se ti fai fuori tocca farmi fuori anche io, ci facciamo fuori insieme e d’accordo, però tu ti sei fatta troppi film, le aspettative uccidono, fatti una canna e scrolla un po’ di reel che la vita continua, su.

La sera della notte del Pantorc era uscita con un quarantenne social manager di un giornalista molto famoso (vuoi venire al mio corso di social media marketing? no), amico di Mario, con Mario e con l’amico gay di Mario, anni trentacinque, appena tornato da Berlino e non potete capire cosa ho visto a Berlino.

L’amico gay di Mario le aveva dato in mano un Samsung e le aveva mostrato il mondo di Grindr. Non aveva mai capito se Mario fosse etero gay bi o cosa, ma Mario era bravo a riempire il tempo di nulla e a ridimensionare ogni affare della vita come se non fosse lui a esistere davvero: la loro amicizia si basava su questo, sullo sforzo di non vivere, l’etico non fissarsi sulle proprie cose, decentrarsi, essere passivi, con dignità ma senza aspettative; e si basava anche sulle incredibili notizie delle serate milanesi che per Lia erano ogni volta il resoconto allegro di un mondo marziano e democratico, misterioso ma coerente, in cui tutti si facevano tutti senza alcuna complicazione e con una distaccata gentilezza da call center Amazon.

Forse Mario era un cocainomane: non lo aveva mai visto farsi e non aveva mai chiesto, solo qualche allusione che Lia poi collegava ai momenti in cui via WhatsApp, durante i loro ping pong comunicativi vuoti, lui le rispondeva come se non fosse Mario.

Sarà in down, si diceva Lia senza sapere bene che cosa si stesse dicendo, perché in effetti non ne sapeva nulla, ma il punto è che se Mario si faceva di cocaina allora non doveva essere una cosa pericolosa, perché Mario tutto sommato se la cavava sempre, a partire dalle serate in provincia ai tempi dell’università, unico dottorando in grado di reggere al bar della stazione fino a notte fonda e il giorno dopo assistere fresco agli esami della sua docente, unico tra i suoi amici sfatti ad andare in palestra tutti i giorni, assiduamente, faticando sul serio, una dedizione i cui frutti si vedevano bene fuori e dentro anche oggi.

Quando c’era Lia le serate milanesi erano fin troppo standard, dunque o sono io oppure tu inventi, diceva a Mario, le serate decidono loro Lia, non tu, non è colpa di nessuno se quando vieni tu non succede mai un cazzo, poi facciamo ottant’anni in due, ma seriamente, che cosa pretendi di fare? Quella sera Lia voleva far succedere qualcosa andando al karaoke cinese ma gli amici di Mario dicevano no e poi non siamo abbastanza, allora bisogna che cerchiamo gente diceva Lia, le cerchiamo su Grindr diceva guardando seriamente il Samsung.

Non mi far fare brutte figure su Grindr diceva l’amico di Mario, che ancora attaccava con i racconti dei locali di Berlino dio solo sa cosa ho visto. Questo ha la foto in primo piano, è bello, non vi pare? Non deve avere un bel viso, diceva Mario scusandosi con l’amico di Mario, devi chiedere età vera e foto integrale. Ciao, come va, scriveva Lia, ma l’amico di Mario si incazzava e le diceva così no Lia, non si fa, sono già vecchio e mi fai fare brutte figure, figa ridammi il telefono, chiedi unlock album e basta, poi chiedi A o P.

Cosa vuol dire A o P? Che cazzo Lia, ma dove vivi? Lia viveva ancora nella Piccola Città a Misura di Uomo, dove aveva studiato, la stessa università di Mario. Aveva fatto l’esame di storia del cinema con Mario, che le aveva dato trenta e lode, era l’ultima in lista e si erano fermati a parlare fuori dall’aula eccetera.

Lia aveva detto di sì e a una festa sotto Natale si erano trovati ubriachi a limonare su un letto singolo pieno di giacche, ma per poco (arrivò la polizia). Poi smisero di parlarsi, poi lei entrò in dottorato e lui che era postdoc le chiese di nuovo di vedersi, e gradualmente iniziarono a rivedersi, ma con un piglio postatomico, come due falliti che sapevano lucidamente dove erano capitati e che in fondo speravano solo di essere fatti fuori.

Lei fu fatta fuori subito, e a parte il colpo iniziale fu in effetti un sollievo. Lui fu chiamato in un’università milanese e lasciò la Piccola Città. Da quel momento in poi la Piccola Città diventò per Lia davvero troppo piccola. Un posto per sopravvivere, pensava Lia, non doveva essere a Misura Di Uomo, doveva al contrario essere totalmente fuori misura: salire da soli in metropolitana in mezzo alla folla, entrare in un supermercato e non riconoscere il vicino di casa, metterci un’ora per andare a lavoro, lottare per ottenere cose, esaurire tutte le energie nella città ricevendo in cambio un consolante anonimato.

Nella Piccola Città a Misura Di Uomo ci si conosceva tutti, sul cardo e decumano c’era un continuo fermarsi di conoscenti, e tutti sapevano di tutti salvo gli studenti fuorisede, che vivevano parallelamente la loro Piccola Città a Misura di Studente. Lia non faceva più parte della seconda città e in fondo non faceva nemmeno parte della prima. Milano era troppo costosa. Iniziò a vivere in un circuito fatto di casa, Coop, libreria, diecimila passi giornalieri, ricerca di lavoro, colloqui di lavoro, lavoro.

Lia era ora ongoing in quell’azienda alla milanese, ovvero non troppo lontano da Milano ma senza i costi di Milano, che di Milano prendeva tutti i benefici, a partire dai due aeroporti e dalle linee urbane e suburbane che comodamente innestavano quella piccola cittadina al Grande Centro, e dunque ai clienti del Grande Centro, ma, come amavano dire i capi d’azienda, siamo diversi dalle fighetterie milanesi noi della Piccola Città a Misura Di Uomo, e ciò in sintesi significava principalmente a fine mese meno soldi d’affitto per l’azienda, costruendo però attorno alla sintesi una filosofia anzi storytelling anzi un mood alternativo.

“Un posto per sopravvivere, pensava Lia, non doveva essere a Misura Di Uomo, doveva al contrario essere totalmente fuori misura”.

Prima ancora Lia aveva lavorato presso la piccola ma giovane e promettente Agenzia Pubblicitaria dal volto umano Vicinissima a Milano ma collocata anch’essa nella Piccola Città a Misura Di Uomo. Avevano fatto il botto grazie a un’azienda israeliana del tessile che per posizionarsi sul mercato internazionale si era presa un capannone tra le risaie della Piccola Città. Il capannone non fu mai usato. L’azienda pubblicitaria doveva creare un pacchetto online per convincere ricchi clienti degli Emirati che i vestiti israeliani fossero lusso originale italiano.

– Ammazza però che kitsch

– Dobbiamo convincere Dubai, mica i milanesi

– Non possiamo mentire, perdiamo credibilità, solo allusioni

– Diciamo che l’azienda fa uno Stile italiano. Tradizione italiana.

– …keeping the atelier work at the center of our Tradizione italiana. Può funzionare.

– Certo, atelier un capannone nel letame…

Where a new story has to be narrated, there we are. Oppure: If a new story can be
narrated, we are there
.

– Mi sento male

– E se parlassimo di Maniera italiana?

at the center of our Maniera italiana. Può funzionare.

Dopo sei mesi Lia si spostò nell’azienda di Intelligenza Artificiale. Un amico di un amico di Mario le disse che cercavano personale: mandare asap cv anche se non sei ingegnere. Ma che ci vado a fare come umanista, si chiese Lia. Bizzarro che tu sia un’umanista, le dissero alle risorse umane. Facciamo fatica a inquadrarti ma il tuo profilo è interessante, tu come ti vedresti dentro l’azienda, come potresti sentirti parte dell’azienda, cosa potresti dare all’azienda ma soprattutto cosa l’azienda potrebbe dare a te

Non la chiamavano azienda, la chiamavano per nome, perché azienda sarebbe stato riduttivo: come ti vedi con noi alla ProLogo, chiedevano in quell’ambiente giocoso che sembrava posizionato in una Milano in miniatura, ancora in parte da costruire e collegare, con divani rotondi colorati e dipendenti vestiti in maniera giovanile, trendy, come ti potresti sentire utile in ProLogo insieme ai tuoi nuovi giovani amici.

Guardò fuori dalle finestre del capannone, fissò i campi di riso allagati che andavano fino all’orizzonte e poco sopra le nuvole nere. Sperò in un attacco frontale di un aereo. Fu assunta dopo tre colloqui. Quella notte tra luglio ventiquattro e venticinque aveva fatto il dritto o after. Non erano andati al karaoke, ma al bar si era unito un tizio amico dell’amico gay di Mario.

Davanti allo schermo del computer il mosaico della call era stanco e accaldato: è quasi agosto anche per loro, si era detta Lia, ma a differenza di te i tuoi colleghi si stanno forzando di dire cose sensate, di entrare nel discorso, mentre tu sei spenta loro ci provano, pensano a quel prototipo fissato con furore per la fiera di dicembre, e perché devono presentarlo alla fiera di dicembre? Per colpa tua devono presentarlo, stanno mettendo tutti una pezza su un tuo errore, perché su quell’affare tu avevi caldeggiato la o il proof- of-concept e detto che si doveva lavorare subito sulla user interface ma non c’era alcuna idea seria e tu dicevi, come dicevi sempre, dobbiamo chiedere al settore ricerca un lavoro sulla user experience e ora, a guardarlo, non ricordavi nemmeno da dove fosse nato il tutto, ma il tuo capo aveva detto ottimo si prosegue, la documentazione era ridicola ma lui aveva detto avanti tutta, quel poveraccio credeva avessi un piano, e ora che guardi gli altri volti pensi solo a quello che effettivamente è: un’euforica idea del cazzo di una disperata.

“Nella Piccola Città a Misura Di Uomo ci si conosceva tutti, sul cardo e decumano c’era un continuo fermarsi di conoscenti, e tutti sapevano di tutti salvo gli studenti fuorisede, che vivevano parallelamente la loro Piccola Città a Misura di Studente”.

Con l’amico dell’amico dell’amico di Mario ci era andata a letto con un po’ di dispiacere. Quando lui si avvicinò al tavolo Lia protestava ancora per il karaoke. Non aveva intenzione di sedurlo, capì tardi e con disagio di averlo fatto: senza essersene resa conto aveva azionato la sua modalità seduzione che nemmeno lei sapeva bene come si attivava e in quali assurde circostanze; se solo avesse saputo come avviare il processo avrebbe deciso lei quando e come, e invece se si trovava nella situazione giusta, con la persona più adatta, scientificamente e chimicamente idonea all’unione, che rispondeva a tutto quello che era conficcato nel suo cervello con strati di esperienze pregresse, soprattutto quelle brutte oscene e vergognose, il bagaglio di orrore che non avrebbe mai saputo descrivere ma che era scolpito sulla pietra come dato oggettivo, lezione appresa da un cervello che sa applicare la disciplina ed è indisponibile a qualsiasi tipo di pericoloso deragliamento, capace di captare lucidamente tutto ciò che a ogni livello razionale ma pure irrazionale era compatibile in fisico atteggiamento carattere, calcolando (come tutti? ma più o meno astutamente di tutti?) nei primi momenti di conversazione di un primo incontro casuale, quando già l’algoritmo aveva stabilito tutto il ventaglio di vantaggi e svantaggi pericoli benefici anticipando le circostanze successive, dove tutto era già in potenza e sfiancato, previsto dal diapason interiore iperesercitato in modo innaturale all’estrema risonanza, in grado di definire almeno a grandi linee il passo, il percorso, superati tutti i cicli algoritmici senza incagliare nei se e allora e fino a che, se decideva che sì, era un uomo potenzialmente compatibile, anzi sessualmente compatibile, allora tutto si fermava, e non riusciva a fare niente (perché l’inconscio avrebbe dovuto forzarsi a far ciò che era già accaduto con una intensità così forte?).

In tutti gli altri casi, banali come questo appunto, di fronte a esseri senza alcuna possibilità statistica e fisica, di fronte al no evidente del proprio algoritmo, che aveva già detto impossibile, non è circostanza favorevole, e l’algoritmo per convincere ulteriormente esponeva con chiarezza un enorme problema in chi guardava o in chi era visto o nel quadro di insieme, ecco che si attivava la modalità seduzione, come con questo scemo di guerra che aveva avuto di fronte per poche ore e che l’aveva riportata in macchina nella Piccola Città a Misura Di Uomo.

Non era nei miei piani e nemmeno nei suoi, si era detta lei: eppure lui si è seduto nella sedia accanto alla sedia di lei, ma solo perché è un buon posto, si era detta lei, e perché io avevo un posacenere e un accendino, si era detta, e solo per un accendino è stato involontariamente innescato il tutto. E lui, creduto lo scemo di guerra più scemo di tutto il pianeta, o non era scemo per niente, oppure in seconda ipotesi come quasi tutti gli esseri umani era stato programmato per intercettare quel groviglio di atteggiamenti e compiacersene, e avendo capito che ci si poteva divertire, o semplicemente per curiosità su quella improbabile combinazione, o forse solo per una noia micidiale, o per quell’alto senso di democrazia sessuale per cui va bene qualsiasi cosa, si era detto okay. O forse ancora lo aveva intercettato lui stesso prima, il possibile gioco, e deciso lui tutto con quell’idiota idea di avvicinarsi e forse anche il resto successivo? Non importa.

Il problema ora era tirarlo fuori da casa sua. Quell’essere estraneo era ancora nel letto nonostante avesse puntato sul cellulare un’artiglieria di sveglie a partire dalle sei. Le spegneva e stava immobile, poi tornava a russare. Lia non era riuscita a svegliarlo. Gli aveva messo un biglietto accanto al comodino con indicazioni pratiche e qualche cordiale punto esclamativo, ti ho messo asciugamani in bagno – c’è uno spazzolino non usato sul lavello – in frigo yogurt greco e mirtilli, latte di soia, c’è del caffè se vuoi. Ci vuole sempre gentilezza prima di passare al dunque: esci dal ballatoio senza passare dal salotto perché ho un call di lavoro importante – grazie.

La sera prima Mario aveva capito quello che sarebbe successo appena Lia avviò a voce alta uno dei suoi monologhi interiori: “alle relazioni tra esseri umani preferisco le relazioni tra i dati”, aveva detto Lia davanti allo scemo di guerra tirando su una sigaretta con una velocità sgraziata, anche se ogni essere umano è produttore portatore e aggregatore di dati, che sono a loro volta complessi di informazione composta da più elementi disgregabili, scomponibili, ricomponibili, e dati che le macchine ricevono manipolano producono sono problemi da risolvere che quando sono risolti producono e smaltiscono molti dati insieme, ma è difficile anzi impossibile scomporre al minimo i nuclei di dati, difficile definire nuclei più profondi indissolubili di informazione, si tratta di livelli, di granularità, possiamo dire che a una certa quota riconosciamo dei nuclei fondativi, unità minime che possono arrivare ad agglomerati e semilavorati e poi complesse unioni e poi complessissime, non ci sono aggregazioni più importanti di altre, un dato vale l’altro, ma per alcuni dati passano e si aggregano più strade e dati insieme, succedono o possono succedere dunque più cose, in altre zone meno, è un po’ come la differenza tra vivere in città e in provincia. Alla fine anche le relazioni umane sono così, diceva Lia, scambi e continue elaborazioni di dati fino allo sfinimento.

Erano naturalmente tutte boiate sconnesse, Lia lo sapeva e anche Mario, ma lo scemo di guerra sorrideva. Lia aveva capito di poter arrivare al ridicolo perché Mario le aveva insegnato che non ha mai alcuna importanza quello che si dice, ma solo come lo si dice. Durante la call guardava la cam del suo computer e cercava una frase qualsiasi per intervenire e tornare a guidare il progetto, ma soprattutto un modo per dirla.

“Alla fine anche le relazioni umane sono così, diceva Lia, scambi e continue elaborazioni di dati fino allo sfinimento”.

Il dolore più grande, si ripeteva osservando i grafici sulle slide, è essere espulsi dalla vita di qualcuno che hai creduto per sempre aggregato a te. Insieme avevate creato un centro, e questo centro si era arricchito di dati e relazioni. Una scomparsa assimilabile a un lutto, ci si ritrova all’improvviso nei margini, nel nulla, con la fatica di dover creare da zero una nuova carta geografica umana.

Ora, a call finita, Lia vuole solo rientrare in camera e recuperare un altro Pantorc, ma non vuole entrare in camera, non vuole in nessun modo creare nuovi fili tra lei e l’estraneo. Dovrebbe lavorare. Apre invece una nuova mail: ti scrivo dalla cellula di miele.

Nessuna relazione finisce davvero. Continua sotterranea, in altre forme, si evolve al buio e cresce. La fine di una relazione non esiste: è un modo pratico per dirci che non si parla più, non ci si cura più dell’altro, non c’è condivisione di lenzuola. La contrattazione delle cose, degli spazi, non c’è più. Non c’è rumore, eppure la relazione continua, e si continua dentro l’altra persona, si fa parte di una nuova relazione, i tic vengono rimessi in scena altrove, le parole mischiate la notte in letti sconosciuti. Senza pensarci si cerca in un altro quel particolare modo di fare. L’altro fa lo stesso. La dispensa è il frutto di precedenti relazioni e l’ironia si evolve, il frigo mantiene lo yogurt greco della stessa marca e le cose hanno un nome simile a prima ma un poco più evoluto, traslato alla contingenza del presente.

Ma quando è iniziato tutto questo? La prima persona, il primo strappo serio, chi era? Ogni amore, e dolore: se oggi si concentrano gli strati di tutti i precedenti, se riemergono tutti i movimenti meccanici di un tempo, e tutti premono e comprimono nel movimento attuale, lo modellano, lo riempiono, cosa accadrà tra poco? quando smetteranno di starci tutti insieme? con che coraggio? I cereali biologici della coop, la bicicletta nella Città a Misura Di Uomo, la brioche di un’alba sul fiume. Non ci si accorge spesso mentre accade, a volte però il collegamento con oggi è così insopportabile che smetti di mangiare una cosa, di passare per quel posto. Alcune parole sono dismesse dal tuo vocabolario. Non puoi leggere certi libri, vanno evitate delle panchine.

E tutte le relazioni crescono e invecchiano con te, non sai più nulla veramente dell’altro, non sai nemmeno chi eri prima, non sai chi hai davanti ora e a chi ti mischia. Diventi a tua volta un contenitore di modi che non sai, e li assumi per tuoi, e li darai ad altri. E ci parli ai fantasmi a volte, con un nuovo modo, e li ami di nascosto, talvolta ricambiano, e poi li lasci lì senza troppa cura. Ogni nuova storia non è nuova. È solo evoluzione generata dalle precedenti, una variante alternativa che divora e nutre.

Lia manda la mail nel cestino. Dal cellulare un messaggio di Mario, hai visto che a Milano succedono cose pure se ci sei tu, passo stasera da te risponde Lia, basta che non frigni scrive Mario, emoticon di lingua fuori Lia, emoticon di bacio Mario.

Emmanuela Carbé

Emmanuela Carbé è scrittrice, ricercatrice, esperta di archivi digitali. Il suo ultimo libro si intitola Digitale d’autore: macchine, archivi e letterature (Firenze University Press, 2023).

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