C'è così tanto "food" che non c'è più niente da mangiare - Lucy
articolo

Tommaso Melilli

C’è così tanto “food” che non c’è più niente da mangiare

28 Settembre 2023

Che differenza c’è tra “cibo” e “food”? E perché, se aprono di continuo nuovi ristoranti, è così difficile trovare un tavolo? Da Paolo Conte alle pokérie, come cambiano le nostre città e il nostro gusto.

Nei mesi scorsi ho deciso, dopo molti anni vissuti da lavoratore dipendente, di aprire con alcuni amici un ristorante, e di lavorare – come si diceva una volta –”senza padrone”. Il tempo che precede l’apertura di un locale è piuttosto insolito da vivere: si oscilla fra vago entusiasmo e un’agitazione difficile da orientare. Per quanto mi riguarda, sfogo questa angoscia raccontando, durante lunghi aperitivi, il progetto che ho in testa. Le persone a cui ne parlo sono curiose, e presto o tardi tutti pongono invariabilmente la stessa domanda: 

“E che tipo di cucina farai?”

È una domanda a cui non ho mai saputo rispondere. In questo caso, non so bene perché, cerco di cavarmela con una battuta.

“Guarda, abbiamo deciso di proporre un nuovo concept, decisamente dirompente, forse anche rivoluzionario, di cui c’è molto bisogno in città: un ristorante normale”.

La battuta a volte funziona, a volte no, ma penso nasconda un cuore di verità, una sensazione che sento come cuoco, come cliente e come persona che esce per strada in una grande città occidentale, che nel mio caso è Milano, ma potrebbe essere Parigi, Roma, Londra o Copenaghen. Non è una sensazione piacevole e non credo di essere il solo a provarla: nel giro di pochi anni, nelle strade e nei quartieri in cui abitiamo, stanno scomparendo i negozi “tradizionali”, quelli che vendono vestiti, detersivi, mutande, cibo per animali, libri, dischi, chiodi, viti, vernice per i muri, giocattoli. Questi negozi sono sempre meno, e guardando le vetrine del piano terra dei palazzi delle nostre città, ci rendiamo conto, spesso con amarezza, che è diventato tutto food

Non cibo, attenzione, perché sono diventati rari, o incomprensibili, anche i negozi che vendono beni essenziali, il pane, il latte, le uova, che troviamo solo nei supermercati, a condizione di capire su che scaffale sono stati nascosti. Un mio amico dice che ormai c’è talmente tanto food che non si trova più niente da mangiare. 

È una parola assai frequente, che innervosisce molti (per esempio me), perché diamo per scontato che serva a sostituire in modo più sostenuto (con un profumo di internazionalità) la semplice parola “cibo”, considerata noiosa. In realtà, secondo la relativa voce del vocabolario Treccani  – aggiornata l’ultima volta nel 2020  –  la parola food è un neologismo che definisce nel contesto linguistico italiano “il settore industriale e commerciale dell’alimentazione”. Il food, quindi, non sono le cose da mangiare: il food è quell’insieme di persone, aziende, ingredienti, supporti e messaggi funzionale a produrre, immaginare, desiderare, raccontare e, soprattutto, a vendere delle cose che forse, poi, possono essere mangiate. 

C’è così tanto “food” che non c’è più niente da mangiare -

Il food sono quindi le insegne dei ristoranti che hanno quell’aria un po’ antica, ma che in realtà sono state realizzate un anno fa o poco più. Il food sono i menu di varie pagine, con archeologie di forni a legna, trattati di zoologia dei polli, autobiografie di pomodorini, dissertazioni anche un po’ filosofiche che spiegano come e perché un certo tipo di ingrediente viene servito o non viene servito in quel posto. Il food sono, di nuovo, tutti i dispositivi di ordinazione e personalizzazione dell’alimento che intendiamo consumare, con caselle da compilare o da vidimare, salse a scelta, e altre operazioni che ricordano tremendamente una dichiarazione dei redditi. 

C’è una canzone del 1992 in cui Paolo Conte si applica, in pochi versi, in una straordinaria lezione di una microscopica e trascurata disciplina del sapere umano di cui sono personalmente molto appassionato: la critica culturale dei menu. 

L’ambientazione si può solo intuire: siamo in un hotel trasandato, con vecchi lampadari di cristallo che tintinnano. Ci sono alcuni clienti soli, dei venditori porta a porta, dei “viaggiatori di commercio”. Una volta descritto l’ambiente, però, Conte rende conto dell’esperienza gastronomica proposta dal ristorante dell’hotel in questione, è questa strofa che dà il titolo alla canzone. 

Pesce Veloce Del Baltico 

dice il menù, che contorno ha?

Torta Di Mais, e poi servono

polenta e baccalà.

Sono gli anni Novanta, forse –  conoscendo Paolo Conte – ci troviamo in una piccola cittadina di provincia. L’esperienza descritta è un piccolo esempio di dissociazione culturale: il menu di un ristorante promette un piatto con parole altisonanti, che raccontano di un lavoro raffinato, e invece ci ritroviamo nel piatto un antico e semplicissimo piatto contadino. La canzone prosegue con un giudizio molto amaro verso i gestori dell’hotel: “cucina povera e umile / fatta d’ingenuità / caduta nel gorgo perfido / della celebrità”. 

In buona sostanza, i titolari dell’hotel sudicio si sarebbero montati la testa, compromettendo così quel che restava loro di autentico e sincero. È forse questo l’effetto che fanno sul mondo periferico le mode e le tendenze di città. Ma è anche una vecchia storia, che ci ricorda che le cose che mangiamo, prima di essere buone da mangiare, devono essere buone da dire. Ed è curioso, perché ho la sensazione che oggi quel modo altezzoso di descrivere i cibi sia passato di moda, e che sia molto più snob scrivere nient’altro che “polenta e baccalà”, servendo magari – purtroppo – delle strane cose con delle palline di polenta e delle spume di pesci.

C’è così tanto “food” che non c’è più niente da mangiare -

Patrick Bateman, il protagonista di American Psycho, è, tra le altre cose, ossessionato dai ristoranti. Bateman e i suoi colleghi broker frequentano tutti i migliori ristoranti di New York: è un argomento a cui dedicano tempo, denaro, conversazioni, ragionamenti, giudicando più o meno duramente il servizio e l’arredamento. In un caso Bateman si ritrova a scrutare un menu stampato su una lastra d’acciaio cromato: dimentica quindi di leggere i nomi dei piatti, e rimane molti minuti a osservare la versione deformata e irriconoscibile della sua faccia.  Nel romanzo come nel film, ogni conversazione a proposito dei ristoranti ricade inesorabilmente su quello più lussuoso e tremendamente desiderabile, aperto da soltanto qualche mese, dove nessuno riesce mai a prenotare. Il ristorante si chiama Dorsia. 

All’inizio del romanzo, Bateman ha un appuntamento con una ragazza, che all’ultimo momento sembra non avere più voglia di uscire con lui. Bateman finge di avere una prenotazione al Dorsia, e la ragazza – come tutti sensibile al fascino del ristorante impossibile –  ritrova immediatamente tutta la sua motivazione. Bateman però stava bluffando, e deve rimediare: 

“L’istante successivo a quello in cui sbatto il telefono in faccia a Patricia mi fiondo attraverso la stanza e acchiappo la Zagat, sfogliandola freneticamente finché non trovo il Dorsia. Con dita tremanti ne compongo il numero. Occupato. In preda al panico, seleziono la ripetizione automatica della chiamata e per i cinque minuti successivi la linea non dà altro che il segnale di occupato, costante e sinistro, implacabile. Poi finalmente uno squillo, e nei secondi che precedono la risposta provo la più rara tra le sensazioni – una botta d’adrenalina. 

– Dorsia, – risponde una voce dal sesso indecifrabile, resa androgina dal muro del suono prodotto dal brusio in sottofondo. 

– Attenda, prego. C’è un po’ meno chiasso che in uno stadio affollato e devo fare appello a tutto il mio coraggio per restare in linea e non riattaccare. Rimango in attesa per cinque minuti e stringo il cordless così forte che la mano sudata mi fa male, con una parte di me che intuisce la futilità di quello sforzo, un’altra parte che malgrado tutto spera ancora e una terza che invece è incazzatissima perché avrei potuto prenotare prima oppure farlo fare a Jean. La voce torna in linea e sgarbatamente dice: – Dorsia. Mi schiarisco la gola. – Mmmh, sì, so che è un po’ tardi ma mi chiedevo se fosse possibile prenotare un tavolo per due per le otto e trenta, o magari le nove –. Lo dico tenendo gli occhi chiusi. Segue una pausa – con la folla in sottofondo che aumenta, facendosi assordante – e mentre una certa speranza si fa strada dentro di me riapro gli occhi, consapevole che il maître, dio lo benedica, sta probabilmente controllando le prenotazioni per vedere se qualcuno ha disdetto – dopo di che però sento una risata, prima sommessa e poi in crescendo, sempre più alta, finché sbattono giù il ricevitore e la comunicazione si interrompe.”

Questo passaggio, reso magistralmente da Christian Bale nell’adattamento cinematografico, è con ogni probabilità la migliore rappresentazione artistica di un’esperienza che quasi tutti hanno vissuto, e cioè non riuscire a ottenere una prenotazione in un posto dove ci piacerebbe tanto uscire a cena. 

Questa sensazione è diventata nell’ultimo decennio sempre più frequente, soprattutto nelle grandi città occidentali. “Non si può più mangiare fuori, bisogna prenotare chissà quanto tempo prima”. 

A molti di noi capita di pronunciare questa frase, e solo i più attenti e previdenti sembrano essere in grado di ottenere un tavolo dove vogliono, pur con fatica e sveglie impostate all’orario esatto in cui le prenotazioni di un determinato locale verranno rese disponibili, salvo poi esaurirsi nel giro di pochi minuti. 

La sensazione che “ormai bisogna prenotare dappertutto”, è chiaramente in contraddizione con l’altra sensazione, di cui parlavamo prima, e cioè di essere circondati da ogni tipo di luoghi variamente gastronomici in ogni angolo delle nostre città. Perché se aprono nuovi locali particolari e speciali ogni giorno, anche a discapito degli altri servizi essenziali dei quartieri in cui abitiamo, sarebbe logico aspettarsi di disporre, ogni giorno, di un’ampia scelta per i nostri pranzi e le nostre cene. Se l’offerta aumenta in modo così significativo, dovrebbe essere più facile esaudire la nostra domanda. 

In realtà, la maggior parte dei nuovi luoghi che propongono “food” falliscono miseramente e in silenzio nell’arco di un anno o poco più, venendo sostituiti da altre iniziative commerciali con concept raffinati, per i quali non c’è reale domanda. 

“La sensazione che ‘ormai bisogna prenotare dappertutto’, è chiaramente in contraddizione con l’altra sensazione, di cui parlavamo prima, e cioè di essere circondati da ogni tipo di luoghi variamente gastronomici in ogni angolo delle nostre città”.

Da cliente, condivido in parte questa esperienza spiacevole, ma lavorando nella ristorazione da tanti anni conosco anche molto bene il vissuto di chi riceve le prenotazioni. La delusione per un tavolo non ottenuto si trasforma a volte in  risentimento: per delle ragioni che mi sfuggono, molti clienti potenziali sono convinti che, se non riescono a prenotare, è perché il ristoratore non li vuole. Si è portati a credere che i software di prenotazione online, che richiedono sempre più dettagli e contatti diretti col futuro cliente, vengano concepiti e scelti per torturare il consumatore, che invece preferirebbe telefonare all’ultimo momento o semplicemente presentarsi lì chiedendo un tavolo senza alcun preavviso. 

Siamo portati a immaginare, come Patrick Bateman, una sorta di società segreta dei ristoratori cool e alla moda, che dispone di strumenti raffinatissimi che permettono di selezionare la propria clientela, escludendo inesorabilmente e a prescindere noi, colpevoli di non essere abbastanza cool. 

La cruda realtà è che se alcuni ristoranti sono sempre pieni e non riusciamo a prenotare non è perché i ristoratori sono cattivi: è invece, logicamente, colpa degli altri ristoranti, che non riescono, nonostante tutto, a risultare desiderabili come quei pochi dove invece vogliamo andare tutti. 

Il mondo descritto in American Psycho fa riferimento a un periodo storico e a un contesto socioeconomico molto specifici: quei giovani broker degli anni Ottanta rappresentano una generazione di nuovi ricchi che viveva un’abbondanza economica senza precedenti, un’abbondanza che, con ogni probabilità, non tornerà mai più. 

Siamo oggi molto più poveri: la ricchezza è sempre più concentrata in una percentuale del tutto trascurabile della popolazione, che non è numericamente sufficiente per sostenere un settore complesso come quello della ristorazione di lusso, che infatti –  salvo pochissime eccezioni –  annega nei debiti. I ristoranti “desiderabili” da molti sono quindi –  seppur non a buon mercato  – decisamente più accessibili, e corrispondono a una categoria fluida e confusa, nata poco più di vent’anni fa, e che nel discorso gastronomico viene definita fine dining informale. I luoghi dove davvero vogliamo andare tutti (e che sono sempre prenotati) appartengono a questa categoria: ma per raggiungere il successo e la visibilità con un locale di questo genere sono necessari, oltre a contatti e buoni rapporti con la stampa e i nuovi media, un certo tipo di sensibilità per i gusti contemporanei internazionali e una visione chiara e innovativa di ciò che viene proposto; insomma qualità non facili da reperire.  

L’unico altro modello commerciale di successo sono i locali dallo scontrino più basso, con grandi superfici e capacità di accoglienza, che necessitano invece di notevoli capacità logistiche e imprenditoriali, e di conseguenza, di ingenti capitali da investire. I capitali investiti sono piuttosto frequenti, l’esperienza di gestione molto meno. 

Tutto il resto, e cioè le centinaia di luoghi di food che spuntano ovunque come germogli di aglio orsino allo sciogliersi della neve, non sono altro che tentativi più o meno fallimentari di emulare questi due modelli commerciali. 

C’è così tanto “food” che non c’è più niente da mangiare -

Il sociologo Pierre Bourdieu, nel suo famoso saggio intitolato La distinzione (Il Mulino, 1995), scriveva che “in materia di gusto, più che in ogni altra, ogni determinazione è negazione; e i gusti sono senz’altro e prima di tutto disgusti, fatti di orrore e intolleranza viscerale per gli altri gusti, i gusti degli altri”. 

Sospetto che la frustrazione per i luoghi che ci propongono tutto questo food abbia origine in questo paradosso: questi luoghi, che cercano di riprodurre e immaginare imprese commerciali e gastronomiche di successo senza riuscirci, ci fanno credere di essere circondati da migliaia di persone invisibili e sconosciute, che amano e desiderano quelle insalate concettuali, quelle pasticcerie vegane, quelle pokérie con atroci giochi di parole nel nome, quei pastifici artigianali che aprono una volta ogni tanto. Vediamo locali, e diamo per scontato che abbiano dei clienti: disprezziamo quindi i gusti di persone che non esistono, o che se esistono vanno lì soltanto perché non trovano alternative, rassegnandosi a vivere “un’emozione da poké”.  

E diamo la colpa a questi clienti immaginari, che apprezzando quella roba ci sottraggono ciò di cui avremmo bisogno, e che continua sempre di più a mancare, un posto normale. 

1

B. E. Ellis, American Psycho, Einaudi, Torino, 2014, pp.88-89.

Tommaso Melilli

Tommaso Melilli è scrittore e chef. Collabora con il «Repubblica» e altre testate. Il suo ultimo libro è I conti con l’oste (Einaudi, 2020).

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