"È nata in Canada e si guadagna da vivere insegnando il greco antico", recita la modesta biografia di Anne Carson. Modestia che ben si sposa con la grandezza della scrittrice, che si è inventata un genere letterario – forse più generi – in un esperimento formale continuo e meraviglioso.
In casa, i molti libri sono ordinati lungo gli scaffali secondo diverse categorie. Poesia, narrativa, saggistica, critica letteraria, linguistica, fotografia, cataloghi di mostre, fumetti; ciascuna sezione viene poi ulteriormente organizzata per ordine alfabetico e casa editrice, qualche volta per colore. Nulla di strano, esistono molti modi di catalogare e conservare i libri, basta poi trovarli quando ci occorrono. C’è poi un numero ristretto di autrici e autori che si sono guadagnati uno scaffale personale. Saramago, Bolaño, Oates, Onetti. Soprattutto: Anne Carson, la scrittrice del miracolo.
1.
“A seconda delle vostre coordinate, potreste guardare nel cielo notturno una stella che ha cessato di splendere millenni orsono. A seconda del vostro alfabeto, potreste guardare una parola in una poesia che è già finita. E tuttavia resta la domanda: dov’è l’umano deposito in cui sedimenta tutto questo?”.
Su alcune delle edizioni italiane dei libri di Anne Carson, nello spazio riservato alla biografia, leggiamo: “È nata in Canada e si guadagna da vivere insegnando il greco antico”. Di primo acchito la frase fa sorridere, specie se la si paragona ai lunghi paragrafi biografici di scrittori molto meno significativi. Dopo un attimo però siamo portati a pensare che in quella semplice frase sia racchiusa tutta la verità e molto del senso dell’intera opera di Carson. Sì, è nata in Canada e sì, insegna il greco antico – ha insegnato in diversi atenei americani, tra cui Princeton e Berkeley – ma si guadagna da vivere anche attraverso i libri che scrive, in cui ogni parola, riferimento, ragionamento, affonda le radici nell’Antica Grecia e nel Mito. Perciò, in un certo senso, potremmo affermare che Carson insegni il greco antico anche alle sue lettrici e lettori sparsi in tutto il mondo; il greco antico, la lingua, il mito, al pari della matematica, della scienza, della poesia rappresentano l’origine di ogni cosa. Carson, con la maestria con cui padroneggia quell’epoca storica e filosofica portandola nel presente trasmette un nuovo modo di pensare; fa tornare la voglia di studiare. La biografia di Anne Carson è vera.
Di lei Harold Bloom affermava che era un’autrice eccezionale, dal mio modesto canto, mi sento di affermare che è una sorta di miracolo letterario. Sebbene sia considerata una classicista, leggendola verrebbe da dire modernista, ultra-contemporanea, avanguardista ma in un senso che la pone già oltre ciò che in letteratura consideriamo elemento di rottura, oltre l’esperimento. In una lettera datata 1870, Emily Dickinson scriveva che vita ed esperienza coincidono in un “esperimento non ci lascia mai”. Ecco, Carson è l’esperimento continuo. Il primo verso di una poesia incantevole di Giovanni Giudici dice: “Parlo di me, dal cuore del miracolo […]”. Ecco, è così che immagino l’origine della scrittura di Carson. Lei, a differenza di Giudici, non parla mai di sé nemmeno quando attinge alla sua biografia. Le sue parole sembrano sempre provenire da un punto nascosto, un bagliore: quello è il cuore del miracolo.
2.
“Le città rappresentano l’illusione che le cose si tengano insieme, la mia pera, il tuo inverno”.
Per arrivare a cogliere il senso liturgico di Carson bisogna investigare la corrente sotterranea che attraversa la sua opera e che lega assieme il mito greco, le scene domestiche, Simonide, un amore perduto, Saffo, la pioggia e il dolore. Bisogna entrare nel mistero sapendo che non saremo mai in grado di rivelarlo, eppure non perderemo mai la fede.
“Ogni volta che vado da mia madre / mi sembra di diventare Emily Brontë”.
La maggior parte dei libri di Carson in Italia sono pubblicati da Crocetti e Utopia, e curati e tradotti splendidamente da Patrizio Ceccagnoli, che con il suo lavoro riesce a ricamare silenziosamente un’opera all’interno dell’opera. E io mi sono innamorato in un novembre di qualche anno fa quando ho letto Economia dell’imperduto (Utopia). Si presentava come un testo che metteva in relazione l’economia e la poesia, Marx e Simonide. Era invece un flusso sintattico che scorreva fino a raccontarti l’importanza del nulla, dell’impercettibile, spingendosi fino a Celan, alla perdita di una lingua in luogo di un’altra. A pagina dieci ero incantato, non ho più smesso.
“La grazia è una moneta con più di due facce. Nella quale noi crediamo”.
L’imperduto cos’è? Ciò che resta quando tutto è sottratto. Quando pensiamo alle cose che restano le immaginiamo subito essenziali, eppure non è così, non è sempre così. L’imperduto per Carson coincide proprio con l’inessenziale, una scoria del niente, un’altra definizione del nulla. L’inessenzialità della cosa imperduta si muove nel quasi invisibile, (come un bellissimo titolo di Mark Strand) un luogo dove risiedono cose come – certe volte – la poesia. Secondo Carson resta nulla perfino dell’arte, della parola, della memoria. La risposta non taciuta è che il nulla sia qualcosa, a volte più di qualcosa. L’imperduto è ciò che si manifesta, per esempio, nei passaggi da un’epoca all’altra, da una lingua all’altra – quanto nulla c’è nel traduttore che mette mano e trasforma –, da una forma d’arte conosciuta a una sua nuova ed ennesima trasformazione in qualcosa di ignoto. La donna che osserva il capolavoro in un museo, folgorata, il nulla che non coglie conta quanto tutto il colore che vede. Il ragazzo che incappa per la prima volta in un grande poeta, legge – è successo a molti noi – senza potersi staccare: ciò che lo incatena è quel che non afferra, che forse non afferrerà mai.
E poi c’è il passaggio dall’economia del dono all’economia mercantile. Nessuno lo spiega bene come Carson, che lo fa con precisione e grazia, usando Marx, il poeta Simonide (il primo a farsi pagare per un testo poetico), e infine Paul Celan. I due poeti transitano da un mondo all’altro, in un certo senso da un modo di essere all’altro, ma le loro poesie non cambiano pur mutando lo stato dell’arte. Simonide si muove e varca un confine, quello tra dono e merce. Non vuole più omaggi, pretende denaro per ogni verso che andrà a scrivere. Carson evidenzia come questo nuovo scambio non renda meno bella e riuscita la poesia di Simonide, lo fa analizzando passaggi biografici e vari testi, verso per verso, un lavoro esemplare. Nel passaggio tra dono e merce cosa si perde? Questa è una domanda cui Carson prova a rispondere. Si perde, in teoria, quel legame emotivo che riguarda l’accoglienza e la gratitudine e che il denaro rimuove. Il testo poetico e il suo valore (al di sopra dell’economia) però rimane. Ed ecco poi Celan e la perdita, l’abbandono, la profonda solitudine, l’esilio e naturalmente la poesia. Celan si muove lungo un altro confine, quello tra due lingue. Come Simonide transita da un mondo all’altro: Celan quando scrive – contemporaneamente – traduce. Perciò inventa e reinventa, lavora su un doppio binario, ha in mano sempre due chiavi, due codici. È da qui che scaturisce la fatica di Celan, la sua bravura, che Carson ci mostra con l’analisi profonda dei suoi testi. Per lei, Celan è uno straniero in entrambi i suoi mondi. Simonide e Celan rappresentano due esperienze solitarie, eppure Carson le lega, le incastra, le rimodula, le mescola a teorie economiche, spunti poetici, banchetti nella Grecia antica, passeggiate tormentate nel cuore di Parigi.
3.
“È sempre un rischio; la domanda è se leggere l’opera dell’autore alla luce della sua vita oppure no”.
Carson è mossa dall’inquietudine, dalle enormi possibilità del linguaggio, dal modo attento con cui osserva le cose. Usa la cultura, la tradizione antica anche per raccontare i turbamenti sentimentali o i disagi di un viaggio on the road in Nord America. Soprattutto, Carson è mossa dal desiderio: quello che innerva i versi impeccabili con cui racconta l’Albertine di Proust, fino a renderla la sua Albertine e, di conseguenza, la nostra. Oppure il desiderio nei versi meravigliosi di La bellezza del marito.
Come abbiamo accennato in precedenza, Carson gioca la sua letteratura sulla sottrazione dell’Io anche quando scrive del proprio Io. Lo si nota in tutte le sue opere ma in particolare nei volumi Vetro, ironia e Dio e Come l’acqua (editi da Crocetti) e in Decreazione e La norma sbagliata (editi da Utopia, il secondo proprio alla fine del novembre 2025).
“In ogni storia che racconto arriva un punto in cui non riesco a vedere oltre. Odio questo punto”.
In Decreazione, l’autrice porta a termine un complesso studio sull’Io. L’auspicio è condurre l’individuo a sbarazzarsi del sé, e mettersi a guardare lo stato delle cose in altro modo, seguendo un’altra prospettiva, in modo poi da confluire nel noi, in quel discorso ampio e più sensato dove tutte e tutti risiediamo. Questa indagine si realizza attraversando la vita e l’opera di Saffo, Margherita Parete e Simone Weil. Nel caso di Saffo, ciò che può strappare dall’Io, dall’individualità, è l’amore che si fa estasi. Nel caso di Parete e Weil è la ricerca spirituale – declinata in secoli e modi molto diversi – che le conduce alla sottrazione totale dell’io. La conclusione che affiora a pelo d’acqua è quella dell’inevitabile riaffermazione dell’io attraverso la scrittura. Le autrici falliscono nel loro tentativo di dissolvimento nell’esatto istante in cui scrivono, poiché l’atto della scrittura riporta sulla scena, pagina dopo pagina, la loro identità. Spiegano perché non sono e, mentre lo fanno, nuovamente sono. L’Io sottratto, sparito, è anche una delle chiavi di lettura di Vetro, ironia e Dio. Qui Carson non manda mai l’io da solo, fa sì che venga accompagnato, che sparisca, che si scomponga nel paesaggio, che si guardi, che perfino quando piange, le lacrime che arrivano – prima di essere sue – sono lacrime portate da pagine di letteratura. La prima parte del libro, Il saggio di vetro, è considerata una delle opere chiave di Carson e uno dei vertici poetici del Novecento. È un saggio lirico, un saggio in versi, che nel tempo è diventato un genere. Si tratta di una profonda riflessione sul dolore dopo la fine di un amore che si intesse nel racconto delle visite all’anziana madre. Il dolore emerge dai loro dialoghi che compaiono nei versi, dai gesti a tavola durante i pasti. Oppure dalla descrizione del paesaggio che diventa anch’esso correlativo oggettivo della mancanza. E poi ancora dai libri di Emily Brontë che accompagnano Carson nel viaggio verso la madre, insinuandosi nei dialoghi fino a far affiorare il trauma.
4.
“Ci sono città regolari e città irregolari, ci sono città ferite e città sobrie e città ricordate con fierezza, ci sono città inutili ma appassionate che continuano a lottare, ci sono città dove la neve scivola dai tetti delle case con tale forza che le vittime ne muoiono, ma non ci sono città vuote (solo studiosi vuoti) e non c’è rimorso. Ora potete procedere”.
In Come l’acqua – uno dei due libri usciti in questo autunno – il soggetto finisce per diventare goccia nell’acqua. Chi legge si fa suono, dettaglio di un quadro, un passo lungo il cammino di Santiago, un lampo di invidia che si accende tra pittori del Rinascimento, un orecchio a una conferenza di fenomenologia. In queste pagine, forse in maggior misura rispetto ad altri libri, Carson mette in relazione la tradizione classica con la modernità, tenendo insieme – grazie a una lingua mutevole e straordinaria – il mito greco (si leggano le interviste a Mimnermo) Gertrude Stein, Parmenide, Camille Claudel, Kafka e più avanti il Perugino e Michelangelo, la storia di un dipinto e della sua protagonista, uno studio breve ma efficace sulle città, Monna Lisa e Sylvia Plath, gli amori, i genitori, l’edonismo, fino al Cammino di Santiago e il viaggio on the road, in cui mentre si monta una tenda, si osserva un tramonto, si rompe una macchina, si parla di religione, di mito, di penitenza, scomodità, peccato, praticità. Carson si muove dalla scrittura in versi a qualcosa che somiglia a un testo teatrale, a delle pagine di saggistica, fino alle prose poetiche, alle accelerazioni composte da un’unica frase. Un vortice.
“Una volta Conrad si sparò al petto. Non si sa molto al riguardo.
Una volta un mio studente, che traduceva Euripide per un esame di metà semestre, s’inventò “selvaggio nelle grinfie di un dio”. Quelli sì che erano tempi”.
Sulla copertina de La norma sbagliata, l’ultimo libro arrivato in Italia (e anche opera più recente di Carson) ci sono delle gocce d’acqua che sembrano frammenti irregolari di un puzzle impossibile eccezion fatta per la goccia centrale, l’unica che può combinarsi armoniosamente con ciò che la circonda. Qui l’intera esistenza dell’essere umano si muove in due direzioni: lungo il passato che lo fa disgregare in milioni di frammenti che si ricompongono solo quando ci si proietta nel futuro. L’uomo, per Carson, non può fare a meno di guardare all’indietro, nelle particelle scomposte della memoria. Solo partendo da quella conoscenza, dall’esperienza, si può immaginare il futuro; ed è ciò che fa Carson quando scrive. Un futuro che viene da lontanissimo ed è l’oggetto di tutta la sua ricerca. La condizione umana in questo volume meraviglioso è colta in ogni suo dettaglio da testi che – apparentemente – non seguono alcuna logica tradizionale. Pagine che sembrano racconti brevi, versi tradizionali che mescolano ancora Paul Celan, Joseph Conrad, Virginia Woolf, Godot. Carson procede per frammenti, il suo mosaico attinge a tutto ma non ambisce a contenere niente. La sua opera è fatta di indizi, luminose epifanie. Avanza per intuizioni, come assecondando una visione nutrita dallo studio e dal talento.
Le sue opere colpiscono i sensi prima di essere comprese.
Carson, dal cuore del suo miracolo, conduce in luoghi dove si è già stati e luoghi in cui non avremmo mai pensato di approdare. E, dopo averla letta, rimane il sospetto di trovarci un altro luogo ancora, un terzo spazio, invisibile eppure reale.