Valerio Lundini
01 Marzo 2023
I fan di Bruce Springsteen farebbero qualsiasi cosa per il loro idolo. Ma proprio cose matte, sacrifici enormi, come ad esempio… non possiamo dirlo, sennò non leggete il racconto però fidatevi: sono disposti a tutto.
Bruce Springsteen: l’uomo che non lesina
Di Bruce Springsteen tutto si può dire tranne che sia uno con la fretta di chiudere i suoi concerti.
E quando dico che tutto si può dire intendo dire che siamo in un paese libero, noi nella nostra Italia e lui nei suoi U.S.A. (se non ricordo male in un suo vecchio singolo diceva appunto di avere lì i natali), e che a conti fatti si possono dire tante cose su una persona, in questo caso Springsteen, tenendosi chiaramente lontani dalla diffamazione e dall’offesa. Ma se proprio bisogna scegliere una cosa da non attribuirgli, allora è facile: per andare sul sicuro garantisco che Springsteen non smania per arrivare all’ultimo brano di un suo show.
Il Boss non è uno che lesina e, nonostante in questi tempi la gente abbia una soglia dell’attenzione sempre più bassa, continua a far dei live da quattro ore, ossia tre ore più di quanto dovrebbe durare un qualsiasi live di un qualsiasi artista: dagli Strokes agli Skunk Anansie, passando per Principe e Socio M (un duo che partecipò a Sanremo nel 2001 e che mi rimase simpatico).
Poco fa, come avrete notato, mi sono lasciato andare a un’amichevole, seppur reverenziale, epiteto nei confronti dell’artista: l’ho chiamato il Boss.
Ebbene sì!
Chiamarlo così è una cosa che ho notato fare a dozzine e dozzine di suoi fans e, negli ultimi anni, credo se ne sia accorto anche lui stesso, spero senza rimanerci male (mi rendo conto che è un termine che sovente associamo, ahimè, alla mafia).
Perché i fans lo chiamano così?
La ragione è chiara a chiunque lo segua assiduamente: ci si mette meno tempo. E in più non si rischia (come spesso accade anche a lui) di sbagliarsi e chiamarlo Springsteeng, con quella G alla fine che sa tanto di ipercorrettismo di chi si ritrova a salvare i gerundi dalle elisioni finali.
Più volte, anche io stesso, per paura di sbagliare, dicevo “Devo andare al concerto di Bruce Springst…” per poi fermarmi e iniziando a simulare un pianto o una contrizione improvvisata per un brutto pensiero affinché qualcun altro, al posto mio, si prendesse la briga di concludere correttamente il cognome del Boss: “Springsteen!”
Per gran parte della mia giovinezza non ho saputo molto del mondo springsteeniano. Sapevo giusto che era una rockstar statunitense (lui negli Stati Uniti ci è nato, lo ricordo perché lo dice in una canzone) e che negli anni ‘80 somigliava all’attore porno anni ‘90 Adam Glasser.
Ovviamente conoscevo i suoi due brani più celebri ossia Tiger Rose e Lonely Night in the Park, costantemente presenti nelle playlist di Mtv e nei cori delle gite in pullman alle elementari con le suore salesiane che ci traducevano il testo in tempo reale, sempre cantando.
Fu a venti anni che approfondii Bruce e scoprii con entusiasmo che le sue radici musicali affondavano nel rockabilly e nel rock’n’roll anni ‘50. Io avevo la sua medesima passione, nata non certamente per motivi geografico-cultural-anagrafici analoghi ai suoi, ma per via delle cassettine di Chuck Berry, Gene Vincent e Eddie Cochrann che uscivano in edicola quando ero piccolo e che accompagnarono la mia infanzia suscitando in me la stessa passione di Springsteen.
Insomma, quando seppi che il Boss da piccolo si appostava nottetempo sotto casa di Elvis pensai: “Springsteen mi sa che mi sta simpatico!” Ricordo che pensai proprio così, senza la G alla fine di Springsteen, ma non perché sapessi con certezza che non ci andava, quanto perché avevo vent’anni e, si sa, i giovani, quando c’è da elidere, elidono.
Cominciai ad ascoltarlo con maggiore attenzione e così scoprii altri classiconi come Cowboys Of The Seas (anche usata come sigla dell’ultima stagione di Velisti per Caso) e If I Was The Priest (pubblicità del Galbanone).
Avevo capito quanto il chitarrista di Long Branch fosse un tosto, ma per imparare a difenderlo da quegli snobetti fan degli Afterhours che lo associavano a un vaccaro sudista cafone dovevo scoprire i suoi concerti.
È lì che il Nostro dà il suo meglio: interazioni col pubblico, affiatamento fraterno con ciascun componente della sua E-Street Band, mocciosi che salgono sul palco a cantare le canzoni, e coppie di innamorati che gli chiedono di sposarli come se fosse un qualsiasi prelato (sì, cose di questo tipo accadono anche ai concerti di Vasco, ma quelli che si fanno unire in matrimonio da Bruce ci giureresti che non finiranno a scannarsi per la custodia dei figli di lì a sette mesi).
Springsteen sul palco è come uno zio lontano a cui vuoi bene, un americano buono, un padre di famiglia di una sit-com carina, uno che se a fine concerto gli arriva il manager desolato spiegandogli che per quella data purtroppo non ci saranno soldi, lui è capace che gli risponde con un “eh vabbè”, perché tanto gli andava proprio di suonare quella sera, mica per altro.
Groupies? Forse sì, qualcuna ce ne sarà nel suo backstage, ma noi siamo sicuri che lui non le sfiora neanche con un mignolo perché è fedele a sua moglie; concede loro un sorriso di ringraziamento e le rispedisce ai loro fidanzati in attesa fuori dal camerino reggendo borsette e cappotti profumati.
Un grande.
Conosco gente che è andata a Zurigo per vedere Bob Dylan, altri che hanno preso un aereo per la California per assistere a uno spettacolo di Little Richard, alcuni amici ogni anno si fanno non so quante centinaia di chilometri per raggiungere vari festival di musica elettronica.
Io di pazzie del genere per un concerto non le ho mai fatte tranne che per Bruce Springsteen.
Per lui, io, il 16 luglio del 2016, arrivai addirittura al Circo Massimo di Roma, che non era certamente dietro casa mia! Tutt’altro!
Già, perché io all’epoca abitavo a Via Pandosia 20, sempre a Roma, e sapete quanto distava dal Circo Massimo? Non uno, non due, ma ben MILLE E NOVECENTO METRI dal palco, ovvero circa uno virgola nove chilometri italiani!
A conti fatti si trattava di accollarsi un viaggio di più di venti minuti (quasi ventuno, non voglio esagerare) e, considerando che ci tenevo a stare lì almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del concerto, dovevo uscire di casa verso le (giuro su Dio che non sto esagerando) ore venti!
Ce l’avrei fatta? Impossibile, ma per Bruce questo e altro: lui non è uno che lesina!
Ricordo che presi dall’armadio una maglietta con scritto BRUCE SPRINGSTEEN in stampatello e me la misi addosso sapendo che, se il cantante l’avesse vista, avrebbe capito che non stavo lì per caso.
Uscii di casa non prima di essermi messo in tasca un paio di Sofficini crudi per evitare attacchi di fame durante lo show.
Il viaggio per raggiungere la mèta fu incredibile, ma ne valse la pena.
Ricordo che l’ascensore che mi avrebbe portato dal quarto piano (dove all’epoca vivevo) all’atrio del condominio non arrivò subito, tutt’altro. C’era una signora che prima di me lo aveva prenotato dal quinto piano, dovetti aspettare che raggiungesse terra per poi chiamarlo a mia volta. Alla fine riuscii a prenderlo. Guardai la pulsantiera: c’erano vari numeri sopra, ma io, secondo le istruzioni, dovevo premere il tasto T per raggiungere il piano terra.
Una volta lì incontrai la figlia del mio dirimpettaio, le dissi “Anche tu stai andando dal Boss?”, ma lei non rispose e mi guardò come si guarda il piolo di una scala che non usi. Raggiunsi il portone e lo spalancai. Non ero neanche a metà del viaggio.
Il cielo era ancora azzurro e luminoso ma sapevo che da lì al grande evento mi separavano ancora un sacco di minuti (ventuno, stando a quanto avevo letto su alcuni siti specializzati in itinerari).
Feci a piedi più di cento metri (sono mille centimetri!), quando all’improvviso fui colto da un improvviso attacco di sete.
Cosa potevo fare? Ritornare a casa e prendere una bottiglia d’acqua mi avrebbe fatto perdere decine e decine di secondi, se non addirittura minuti. Dovevo trovare una soluzione alternativa. Mi guardai attorno: a cinquanta metri c’era un bar e a sessanta c’era addirittura una fontanella; fissai entrambi i target cercando di capire quale scelta sarebbe stata la migliore per non rischiare di perdermi il concerto.
Andando al bar avrei corso il rischio di aspettare il resto da parte del cassiere e così optai per la fontanella. La raggiunsi cercando di allungare il passo e impiegai circa trentotto secondi prima di riuscire a bere.
Alla fine ce la feci, ma realizzai che se me la fossi fatta tutta a piedi sarebbe stata un’ammazzata (va bene tutto, ma la salute viene prima di questo Springsting) e così cercai di intercettare un qualche mezzo di superficie. In questo viaggio della speranza ebbi un colpo di fortuna quando pochi secondi dopo vidi un autobus che mi avrebbe reso più facile il tutto.
Ma c’era un problema! Si trattava di spendere un euro e cinquanta centesimi di biglietto. Aggiungendo questa somma a quella dei centotrenta euro già spesi per il biglietto del concerto più prevendita, avrei fatto una spesa totale di centotrentuno euro e cinquanta centesimi.
Pensai: al Diavolo! Si vive una volta sola, almeno qui in Italia e lì negli Stati Uniti (Springsteen lì c’è nato, lo dice dentro un disco). Salii sul mezzo.
Sopra questo autobus ci rimasi per addirittura sette minuti, un lasso di tempo nel quale conobbi Diego Galuppi, Silvia Hoffman, Francesco Gualtieri, Valerio Coladonato e Carla Varano, cinque fan di Springsteen che come me stavano facendo quel folle peregrinaggio solo per il loro idolo.
Uno di loro mi raccontò di essere partito addirittura dal quartiere EUR, una zona di Roma che dista una roba come novemila metri dal Circo Massimo. “Sto facendo questo viaggio per il mio Boss”, mi disse il tizio mostrandomi il tatuaggio che aveva sul braccio (una cornacchia).
“Chiaro che avrei preferito se avesse suonato sotto casa mia, ma la data più vicina era questa di oggi”.
“Da quanto sei in viaggio, amico mio?” gli chiesi. La sua risposta mi fece capire quanto pura fosse la sua passione per Bruce:
“Sarà una mezz’oretta buona”.
Non ero solo io il pazzo. Tutti noi fan di Springsteen siamo degli appassionati, innamorati del rock e del suo capo, commilitoni sodali pronti a rinunciare a porzioni considerevoli della nostra vita, a infiniti quarti d’ora della nostra esistenza solo per poter raggiungere dei posti mal collegati dove il nostro eroe metterà mano alla sua chitarra.
Per farlo accettiamo anche lunghi tratti di strada a piedi o coi mezzi, saremo capaci di uscire dai nostri appartamenti anche con la signora delle pulizie del condominio che ci dice di aspettare perché il pavimento è bagnato. Ma noi no! Noi non aspettiamo che si asciughi quel pavimento, perché c’è Bruce! Rimandiamo a un altro giorno la nostra litigata con la signora!
Facile andarselo a vedere al Madison Square Garden quando abiti al civico 5 di Madison Square Garden. Troppo facile prendere un biglietto per il suo show in acustico a Broadway quando abiti al portone accanto a quello del teatro.
Io venivo da più di un CHILOMETRO dall’enorme prato in cui Bruce avrebbe suonato. E ancora non ero mica arrivato.
Tra ascensore, atrio, marciapiede, fontanella e autobus ero in viaggio da più di 9 minuti, piano piano avrei raggiunto addirittura i dieci!
Cominciavo a pensare che non sarei mai giunto a destinazione quando le porte del veicolo si aprirono alla fermata Circo Massimo. Io e i miei nuovi compagni di viaggio iniziammo a vedere sempre più da vicino la folla, erano tutti lì per il Boss (credo) tant’è che alcuni avevano addirittura delle sciarpe c la sua faccia, non più quella degli anni ’80 ma quella più recente che ricorda una versione giovanile del regista Gianni Di Gregorio. Tutti lì in mezzo fremevano per vedere il loro amico rocker dalle esibizioni lunghissime, il Boss, The man who doesn’t lesin.
Saluto i miei nuovi amici. Non avrei mai dimenticato quei sei minuti di autobus assieme a loro. Ci scambiammo i numeri con la promessa di rivederci (mai più rivisti).
Mi misi in fila e non avete idea di quanto tempo sono stato in fila: non scherzo se dico che saranno stati sei, se non addirittura sette minuti di orologio.
Alla fine mi metto sul pratone in mezzo ad altre migliaia di fan che sono le venti e un quarto. Di lì a quaranta minuti la E-Street Band e il suo leader sarebbero saliti sul palco per farci emozionare come non mai.
Quaranta minuti.
Non pochi.
Tornai a casa e mi rifeci vivo dopo un’oretta che tanto le prime canzoni non le conoscevo proprio bene.
Valerio Lundini
Valerio Lundini è comico e scrittore. Il suo ultimo libro è Foto mosse di famiglie immobili (Rizzoli Lizard, 2022).
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