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Valentina Pigmei

Come si raccontano le donne delle pulizie?

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In "Una volta alla settimana", romanzo di Mária Agúndez, Sol è una donna che adora fare le pulizie per conto suo finché non rimane incinta ed è costretta ad assumere un aiuto domestico. Comincia così a porsi domande sul lavoro di cura, i pregiudizi che lo ammantano, le ingiustizie che lo caratterizzano. Ma Agúndez non è sola: sempre di più le donne riflettono sui ruoli di genere e il lavoro domestico che, in barba al femminismo, resta ancora un impegno esclusivamente femminile.

“Quando non pulisco, penso a pulire”. A dirlo è Sol, una giovane donna spagnola. Sol vive in una grande città, ha un compagno, un lavoro precario e un cane. È femminista e progressista. Fin da piccola adora pulire, o meglio, è ossessionata dalle pulizie. Passare lo spazzolino tra le fughe delle piastrelle del bagno la fa sentire realizzata. Quando rimane incinta decide di farsi aiutare per pulire la sua di casa, una volta alla settimana. Verranno due donne latinoamericane che preferiscono lavorare insieme. “Il mio ragazzo è felicissimo perché così non gli faccio pesare che sono incinta e pulisco casa. Ora gli rinfaccio solo che io sono incinta e lui no”. Eppure, Sol si sente in colpa. “Immaginavo gli sguardi dei vicini di fronte, affacciati alla finestra mentre pensavano: Guarda quella! La casa gliela puliscono due latine!”. Dopo la nascita della figlia, Sol è stanchissima e molto sola, visto che il compagno ha orari di lavoro impossibili. Anche nel tempo libero o nella socialità si accorge che la bambina è sempre a carico suo: “Seduti a tavola, ci sistemiamo così: da una parte noi donne con le bambine, dall’altra loro, i papà. Sei super femminista e super di sinistra, ma ti ritrovi sempre seduta a tavola vicino ai bambini e loro sempre lontani, per inerzia, come se i corpi si muovessero da soli verso il posto che sanno che gli spetta”. Sol è felice e insieme disorientata. In un generale ripensamento della sua esistenza dovuto alla maternità, si confronta inevitabilmente con le donne della sua famiglia:

A volte mi terrorizza l’idea di accontentarmi di essere “solo” una madre mentre allo stesso tempo non mi dispiace. È perché non ho assolutamente nessuna ambizione lavorativa? Ho paura di passare la vita senza altro scopo e allo stesso tempo pensare di vivere così mi dà paaaace. Forse è solo una scorciatoia per evitare di riflettere su ciò che chiamano “scopo nella vita”. Quindi, invece di pensare al mio, ripasso gli obiettivi delle donne della mia famiglia: l’obiettivo di mia nonna è sempre stato essere indipendente, quello di mia zia vivere in pace (cioè avere sempre soldi), e quello di mia madre essere lasciata in pace. La maternità, tuttavia, è qualcosa a cui né mia nonna né mia madre hanno dato grande importanza, come se fosse una semplice conseguenza della vita; pim pum pam, e via; né troppo madri né poco madri.

Sol è la protagonista di Una volta alla settimana di María Agúndez (Piemme), scrittrice e conduttrice radiofonica. L’autrice ha raccontato in un’intervista di aver avuto l’idea per questo romanzo un giorno a casa di un’amica, quando “all’improvviso, è saltato fuori il fatto che nessuno dei ragazzi aveva il numero della donna delle pulizie salvato sul telefono; solo le donne l’avevano”. Una statistica amatoriale, eppure veritiera, se pensiamo che, i dati Istat del 2018 dicono che le donne impiegano tre ore in più degli uomini ogni giorno nella cura della casa e delle persone della famiglia. Secondo il Gender equality index dell’Istituto europeo per la parità di genere (Eige) il 72% delle donne svolgono lavoro domestico su base quotidiana contro il 34% degli uomini. Nel saggio Dopo il lavoro: Una storia della casa e della lotta per il tempo libero di Helen Hester e Nick Srnicek (Tlon) si insiste molto sulla differenza non solo temporale ma anche qualitativa del lavoro di cura: “E sia chiaro, la disuguaglianza temporale all’interno della famiglia non è solo una questione di minuti e ore. Dato che alcune forme di lavoro sono più gravose di altre, ci sono differenze qualitative cruciali da considerare quando si tratta dell’organizzazione del lavoro non retribuito”. Perché c’è lavoro di cura piacevole (cucinare, portare i bambini al parco) e lavoro di cura un po’ meno piacevole (pulire i sanitari, svegliarsi di notte per coccolare un neonato). E qui arriva il dato più inequivocabile: nel 94% dei casi il bagno lo puliscono le donne.

Provocatorio e leggerissimo, il romanzo di Agúndez ha il grande pregio di reinterpretare con un’ironia beffarda e molto molto spagnola (se conoscete i film di Pedro Almodóvar o anche soltanto la serie tv Machos Alpha o sapete di cosa parlo) alcune questioni fondamentali: la doppia contraddizione di chi, pur ritenendosi femminista, delega il lavoro domestico (noi tutte, in pratica); l’eredità emotiva del patriarcato si traduce in aspettative interiorizzate silenziosamente e un’acuta vigilanza su di sé da cui consegue un senso di inadeguatezza e più in generale il fatto che l’emancipazione di alcune donne che si regge sulla subalternità di altre: María Agúndez ci ricorda con amarezza e un certo divertimento che un femminismo che ignora tutto ciò non è femminismo. Si può darle torto?

Del romanzo colpisce anche il modo in cui l’autrice ha scelto di raccontare quel retaggio fatto di tabù, pregiudizi, ma pure semplici abitudini, che impone alle donne una costante ricerca della perfezione accompagnata dalla consueta sensazione di non riuscire mai a realizzare nulla e di non fare mai abbastanza. D’altronde si diventa madri dentro un sistema che non prevede ancora un’alternativa diversa che sostituisca ciò che rimane del patriarcato. E alla fine il grosso del carico mentale e del lavoro di cura sono ancora sulle spalle delle donne. Dove è finita la responsabilità condivisa? Perché non riusciamo davvero a dividerci i compiti? Tutte sanno che anche soltanto organizzare o pensare a ciò che c’è da fare è di per sé un lavoro. 

Agúndez sostiene che è importante il linguaggio che usiamo, perché spesso si tende a deresponsabilizzare gli uomini rispetto al lavoro domestico, come se quest’ultimo venisse naturale alle donne. Ho letto su Reddit un thread intitolato “Odio come le donne finiscano per personificare il lavoro domestico al punto da cancellare la responsabilità degli uomini”. Ecco alcune frasi riportate dagli utenti:“La casa è un casino”, invece di “Non si è preso la briga di mettere i suoi vestiti sporchi nel cesto della biancheria”. Oppure “La casa non è mai pulita” invece di “Nessun altro la pulisce”.“I piatti continuano ad accumularsi” per “Nessuno si preoccupa di lavarli”. Sembra quasi che queste cose succedano magicamente, dal nulla, quando invece sappiamo bene quali sono le cause. In altre parole: invece di rendere gli uomini responsabili, preferiamo usare queste affermazioni ambigue. Per un attimo mi è venuto il dubbio: ma quindi siamo sempre noi a sbagliare? 

L’altro enorme tema che Una volta alla settimana ambiziosamente affronta è quello che del lavoro domestico come degradante e svolto quasi esclusivamente, in Spagna come in Italia, da donne immigrate, pagate nella maggior parte dei casi in nero, che spesso hanno abbandonato a casa figli e figlie per venire a lavorare nel nostro paese. Possiamo dirci femministe e assumere una donna delle pulizie senza contratto? Magari evitando di pagarla in agosto “perché non ci siamo e non abbiamo bisogno”. O lamentandoci se la “signora” si è licenziata per andare lavorare in hotel con i contributi pagati? “La donna che viene da me a pulire guadagna più di me”, dice la mia amica V. che ha 38 anni,lavora nel sociale e ha due lauree. “Non è vero che mi sento in colpa… lavoro fuori casa dal mattino alla sera”, dice B. che è titolare di una piccola impresa ed è madre single. Ho anche tante amiche che si rifiutano – per principio, per senso di colpa, perché preferiscono spendere in altro modo, perché non amano avere un’estranea in casa – di assumere una donna delle pulizie. Personalmente non le capirò mai. Perché, di contro, se possiamo scrivere saggi, se possiamo andare agli scioperi femministi, se possiamo viaggiare per lavoro è perché qualcuna pulisce il bagno al posto nostro.

Anticipazione: Sol alla fine del libro deciderà di mollare il suo lavoro, solo apparentemente soddisfacente, e fare la domestica, prima a casa della madre e poi da un cliente vero e proprio. Con grande disappunto del fidanzato e di tutta la sua famiglia: “Quel lavoro non ci appartiene” o “È un lavoro per chi non ha niente nella vita” sono alcuni dei commenti che riceve.

Ma perché il lavoro di cura che è così fondamentale è considerato qualcosa che “non ci appartiene”? Eppure, lo sporco è il nostro, i figli sono i nostri. La scelta di Sol è importante e personale, è un lavoro utile, che lei fa bene, la fa stare in pace e le permette di stare con la sua bambina. Perché non dovrebbe appartenerle? Forse, mi interrogo, perché un mestiere che nessun uomo realizzato farebbe non è considerato “di successo” neanche per le donne emancipate. Come se la questione di genere lo rendesse automaticamente irrilevante.

La giornalista Amanda Hess nel suo saggio Un’altra vita di (Einaudi) scrive: “L’unico motivo per cui potevo permettermi di pagare altre donne per prendersi cura di mio figlio, mentre io lavoravo era che il mio lavoro era considerato di maggior valore rispetto al loro. Il mio stipendio era superiore alla retta dell’asilo, anche se avevo ben chiaro che il valore reale del lavoro di cura era superiore a quello del mio”. E questo è l’altro punto: l’invisibilità sociale del lavoro domestico. Invisibile perché sommerso (circa il 50% delle persone – che sono per l’88% donne – lavora in condizioni di irregolarità nel nostro paese) ma invisibile anche perché considerato non dignitoso, qualcosa di cui vergognarsi, in pratica. Ricordo bene una conoscente che venne per un periodo a fare le pulizie a casa mia perché al momento disoccupata: F. mi chiese di non dirlo a nessuno e io mantenni il segreto. Mai più nessuna ha pulito la mia casa come lei.

“Del romanzo colpisce il modo in cui l’autrice ha scelto di raccontare quel retaggio fatto di tabù, pregiudizi, ma pure semplici abitudini, che impone alle donne una costante ricerca della perfezione accompagnata dalla consueta sensazione di non riuscire mai a realizzare nulla e di non fare mai abbastanza”.

La vergogna sembra essere molto interiorizzata anche tra gli addetti al marketing editoriale. Perché tradurre il romanzo di María Agúndez che in spagnolo si intitolava Casas limpias (‘Case pulite’) con Una volta alla settimana?

E ancora. Per l’indimenticabile libro della scrittrice americana Lucia Berlin A Manual for Cleaning Women è stato scelto il titolo La donna che scriveva racconti (Bollati Boringhieri). Il titolo originale – ironico, caustico, modernissimo – che riprende uno dei racconti contenuti nel volume, non regge il paragone con quello italiano, inutilmente edulcorato. 

Anche perché ho riletto la title story, “Manuale per donne delle pulizie”, e rimane un racconto durissimo, indigeribile. È la storia di Maggie, una donna di cinquant’anni di Berkeley che deve nascondere la propria istruzione per trovare lavoro come donna delle pulizie. “Pulisco con Windex lo specchietto che usano per la cocaina”, dice Maggie. La donna elenca gli oggetti che pulisce: pianoforti, borse di lamè, “trenta bottiglie di vino Lancers”. Il lusso diventa reale, tangibile. “La voce delle signore si alza sempre di due ottave quando parlano con le donne delle pulizie o con i gatti”. Maggie ruba i sonniferi delle sue datrici di lavoro, e intanto noi ci chiediamo con angoscia crescente che cosa se ne farà di quelle pillole. 

Lo spazio delle donne, e in questo caso lo spazio delle “donne che puliscono”, è sempre stato conquistato grazie alle storie. Agúndez ha aggiunto un tassello a questo mosaico, che però ne conta infiniti. Penso a Diana, la donna delle pulizie logorroica e moralista di Sol. Penso a Jéssica, la giovane badante latina che soffre di attacchi di panico e costringe così i suoi datori di lavoro a prendersi cura di lei, e non viceversa. Penso anche a Elena, la co-protagonista della serie tv Your friends & neighbors (Apple TV +). La serie è la storia di manipolo di ultraricchi che vivono in una close community di lusso, un’enclave di fatto. Uno di loro perde il lavoro (un favoloso Jon Hamm) e si mette a rubare nelle case dei suoi amici. La sua partner in crime sarà Elena, una giovane domestica. Elena è opportunista, scaltra e ambiziosa. Sexy. Tutti i personaggi femminili della serie sono ugualmente detestabili e fintamente emancipati, ad esclusione di Elena, unica vera eroina dello show. Da domestica invisibile diventa protagonista assoluta: ladra, come vuole il cliché, ma anche preziosa custode dei segreti di quelle case. Pulite, naturalmente.

Valentina Pigmei

Valentina Pigmei è giornalista e consulente editoriale. Ha fondato l’associazione femminista “La città delle donne” e collabora a diverse testate.

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