Controspazio - Lucy
racconto

Emmanuela Carbé

Controspazio

A rendere magica la nostra casa è il suo rapporto con l’esterno: è qui che torniamo quando vogliamo rintanarci ed è sempre da qui che, attraverso i sogni, ci proiettiamo verso l’esterno.

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L’intervallo di tempo in cui ognuno di noi è bambino è definito dal nostro percorso (solidale con la Terra) di circa 12 giri attorno al Sole. Dodici percorsi lungo una geodetica che rappresentano un evento spazio-temporale di carattere geometrico. Ne consegue, che fin dall’origine della nostra vita e nel suo periodo formativo di evoluzione adattativa, esiste una stretta connessione, insita nella natura umana (che risulta formativa e determinante per tutta la nostra vita), tra uno spazio topologico metrico della Terra nel suo viaggio attorno al Sole (e alla Galassia) e la fisicità del nostro corpo in relazione alla morfologia del territorio estetico in cui viviamo che è composto dalla totalità delle opere dell’uomo. […] Il compito affidato dalla storia ai contemporanei nelle varie epoche non è altro che quello di sommare (stratificare) il proprio apporto alle opere esistenti delle comunità precedenti. Dal punto di vista spaziale della località essi hanno la possibilità di sommarle al di sopra, al di sotto o a fianco dell’esistente.

Mario Galvagni , Poetica della Complessità

1. Missione Futura

Amore lento amore tenero amore mio, fermati, ascoltami: se fossero del 23 novembre 2014 le dieci di sera ora italiana o giù di lì, notte di luna, se noi non fossimo in Italia ma al cosmodromo di Bajkonur e se invece di avere avuto la vita che abbiamo avuto, e se la smettessi di chiedermi se è troppo tardi e se ho paura, se la piantassi di sfidarmi in continuazione, e se avessimo una laurea in ingegneria meccanica con specializzazione in propulsione aerospaziale e strutture leggere: allievi di un’accademia aeronautica, ufficiali piloti con addestramento da astronauti di riserva prima e capitani poi, adatti a sopravvivere in terra in cielo e in tutto l’habitat sottomarino, idonei a superare tragedie di ogni tipo, dal soffocamento per pistacchio all’attacco dell’orchessa fino alla bestia delle più bestie: il porrovio; in quell’accordo tra Agenzia Spaziale Italiana e NASA allora ci saremmo noi, e quel giorno saremmo sulla navicella Soyuz e forse prima di salire ti avrei baciato dicendo andrà tutto bene per forza, tenero invincibile amore mio. In piena notte un boato di fuoco avrebbe illuminato il Kazakistan e con il piccolo vascello avremmo solcato il mare etereo: aggirandoci nelle tenebre avremmo fatto pace e tu con i tuoi modi da bambina mi avresti mostrato il mondo per come lo vedi tu, dicendomi sai, noi vagheremo in questo vuoto per sempre.

La navicella fuori orbita sarebbe stata allora una sfera celeste luminosa e perfetta, andante senza fretta e senza rotta, e nell’angolo più remoto dell’universo mi avresti detto, sorridendo, noi siamo lì: mi avresti costretto a stringere bene gli occhi per abituarli alle tue oscurità, ma io non avrei visto nulla. Allora avresti preso da una sacca il cannocchiale, convincendomi prima che era un dono di Bartolomeo de Las Casas, poi che invece no, era Marco Polo in persona: ti avrei creduto come ho creduto sempre a tutto. Guarda il mondo, avresti detto, stringi bene. Avresti indicato la Groenlandia spostando leggermente il mio mento a destra, Islanda e poi Norvegia e Svezia, mi avresti portato giù e poi avresti detto ma no, non così, sei in Algeria, mi avresti allora comandato un po’ più in alto e avresti segnato con due dita a compasso il mare, poi la pianura e le luci a Milano. Con leggeri aggiustamenti oculari mi avresti condotto verso San Siro e Lampugnano e su una strada mi avresti fatto notare un cilindro con sopra scritto ‘Esso’. Il capannone con l’insegna Italmondo, Cornaredo Arluno Mesero Ossona Arconate. Poi, dopo una frazione di millisecondo e un chilometro appena, avresti detto guarda, qui c’è il vecchio oleificio, ma noi non siamo lì.

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Mi avresti per prima cosa fatto notare la geometria padana e le sue forme, le rotonde, l’antica spartizione dei campi a rotazione triennale e quadriennale. Mi avresti detto qui c’è il frumento, qui c’è il riso e il mais, e io avrei creduto a tutto. Se non rimanessi in superficie troverei anche la tua infanzia in paraffina, i resti degli antichi Galli, l’oro e il bronzo, ti vedrei cadere insanguinata nella battaglia di Magenta per poi rialzarti. Vedrei tua madre con le doglie e tu che nascevi già protetta da secoli di vittorie e sconfitte, e non piangi, sei una bimba, il Don è in chiesa a battezzarti: anche lui è del tutto ignaro degli strati bellici che nascondi. Ti vedrei crescere e girare in bici nel nostro paese a conchiglia, dove con virate sempre più strette arrivavi prima di tutti al cimitero, quel mollusco centrale e misterioso: noi invecchiamo e la gente muore, spiegavi a noi bambini, e il mollusco ingrassa. Un giorno per gioco hai deciso che mi saresti stata moglie, la tua mamma era felice e la mia mamma meno, basta che stia bene tu, diceva, staremo bene noi, mi assicuravi, e lo strato esterno del paese intanto si espandeva e si proteggeva con nuovi capannoni, vivai con palme adatte a giardini nelle nebbie, club tennis a terra rossa. Le più nuove fabbriche sono poco distanti: solo cinque appezzamenti di terra le distanziano dai morti. Con il cannocchiale posso vedere le tre grosse rotatorie e le rotonde più piccole che punteggiano la pianura come costellazioni. In una di queste, a piazza S. Martino, ci sei tu, astro leggero e insolente, e mi sei accanto. Due torri registrano i nostri spostamenti, sono l’opera lombarda e del buon Dio: mi piace il campanile, mi dici, ma la Tureta mi piace di più.

Dalla nostra navicella osserverei la scena: ignaro della tua complessità e del mondo sono accanto a te nella vecchia canonica della chiesa, che da poco più di due generazioni è diventata la gelateria Colombo. Ho ordinato caffè, tu bevi un prosecco e tieni stretta sopra le ginocchia la tua cartelletta rossa. Fumi MS gialle e non mi ascolti: la tua attenzione è tutta per ciò che accade attorno e che sta per accadere, come se della tua vita non ti importasse nulla. Giochi con una graffetta di metallo riducendola a pezzettini, hai continui spasmi che partono dal collo e corrono sulle braccia e poi nel resto del corpo, mi dici non è nulla, l’ha detto anche Mangiaglosse, è stanchezza – scatti da qualche tempo anche quando provo ad avvicinarmi a te. Se sei seduta o sdraiata soprattutto: senza preavviso una scarica elettrica ti attraversa dentro, a volte emetti suoni involontari e strazianti, come un animale colpito alle spalle. Quanti watt saranno? Aprirai una centrale elettrica? E ridi. Adesso stai fissando il tavolino accanto e mi dici senti questo, ha una barca a vela a Rapallo, e mi guardi, anche noi ne avremo una un giorno, è vero? Ti sposti da un filo all’altro e all’improvviso ti fai seria: dunque l’o.d.g. è questo, mi dici, Talpalesta e Mangiaglosse. Favorevoli? Contrari? Astenuti? Hai un altro spasmo. Talpalesta è il nome che hai dato al nostro agente immobiliare: nomini ogni cosa che vedi con un sistema disordinato di etichette. È tutto un gioco ai tuoi occhi, anche i medici esperti che ti hanno esaminato negli ultimi sei anni: Glandepiccolo, Mazzamartello, Stringibudella, Succhiasemi, e ora il primario della più grande clinica privata di Milano. La prima volta da Mangiaglosse ci sei andata da sola, mi hai chiesto se volessi accompagnarti ma non mi hai dato il tempo di rispondere, mentre cercavo le parole giuste tu avevi già fatto due volte il giro del globo terrestre e mi avevi detto che Testapelata non avrebbe gradito la mia assenza nel periodo di fusione delle fabbriche: in fondo, hai detto, sei l’unico figlio che ha. Sei tornata dalla visita dicendomi tutto bene e mentre io stavo ancora cercando di rispondere alla tua prima domanda, sì, voglio accompagnarti, tu già mi spiegavi che quel Mangiaglosse sembrava bravo, ti aveva dato una nuova lista di esami e vitamine, io volevo solo dirti che sì, ti accompagno a tutto, sarò presente a ogni singolo esame, ma ti ho riperso nelle pieghe del tuo tempo dove corri sparisci e riemergi, e riemergendo sei venuta in camera con una tazzina di caffè per dirmi tesoro mi spiace tanto, Testapelata è morto stanotte di infarto. Con gli stessi occhi di quando eri nella battaglia di Magenta mi spiegavi che avremmo fatto un monumento funebre per tutta la famiglia, un’enorme astronave a più piani proprio in mezzo al grande mollusco: tuo padre ha fatto tanto e tanto bisogna ricordarlo. All’architetto hai chiesto un putto di bronzo su ogni scalino, che segni con un dito il cielo e con un altro dito l’ingresso al mausoleo. Di ogni putto, hai detto, si dovrebbero vedere bene le chiappe dure, come Riace: Testapelata era molto sportivo, giocava ancora a tennis tre giorni a settimana. E mentre io pensavo al muschio che sarebbe cresciuto tra quei solchi tu eri già lontana: la nostra non basta più, adesso sei tu il dirigente; la casa caro, mi spiegavi più lentamente come si spiega a un bambino, adesso dobbiamo trovarne una più grande.

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2. L’ingegner Talpalesta de La Spiga S.r.l.

Dopo il funerale di mio padre chiamai l’agente immobiliare ingegner Talpalesta dell’eccellente agenzia La Spiga S.r.l. di Brera. Talpalesta ci aveva venduto la nostra casa sette anni prima. Arrivò immediatamente da Milano. Agenzia La Spiga buongiorno, urlò all’ingresso, ricordo questa villa come se fosse ieri, un gioiello, è vero? Spalancò le braccia e piegò lievemente il capo, come a voler raccogliere a sé tutti i lutti del mondo e ricordarci che la vita è dura, ma è pur sempre vita. Sembrava un po’ più basso della prima volta, ma portava la stessa valigetta marrone, ora consumata sugli angoli e senza più laccatura dorata sul gancio di chiusura. I mocassini in pelle erano un poco graffiati sul lato interno. Zoppicava leggermente, ma nessuno se ne sarebbe accorto se non osservandolo con molta cura. Insisteva con il peso sul lato destro e una scarpa sfiorava con l’altra. I pochi capelli che aveva erano lasciati leggermente lunghi: non poteva dirsi tecnicamente un riporto, sembrava piuttosto un tentativo disperato di aggrapparsi alla vita. La camicia era stata stirata con troppa fretta, era a righe azzurre e bianche con una cravatta blu mal combinata. Il nodo senza grazia, la giacca cerulea a spalle troppo larghe rendeva vano ogni tentativo di armonizzare la sua gestualità. Tu lo accompagnasti dentro come una perfetta moglie allestita per una riunione d’affari. In quelle occasioni i tuoi spasmi scomparivano e diventavi un’altra: posso offrirle qualcosa, non faccia complimenti, Angelina porta del Martini, Angelina i sandwich, il nostro caro Testapelata, sì, vuole noccioline?, e i sandwich non li assaggia? Le vacanze, vedremo, non andiamo a Torre da anni, vero caro? Un infarto, e così sportivo, ma abbiamo chiamato l’architetto, riposerà in pace. Talpalesta volle fare il giro della casa e prendere appunti. Si fermò con attenzione sul quadro sopra un divano, i suoi occhi stretti che perimetravano attentamente volevano trasmetterci la sapienza di oltre trentacinque anni di mestiere: aveva sì notato come qualche specialista d’interni avesse scelto la posizione del quadro per far risaltare le scanalature dorate delle finestre. Arte astratta, è vero? Sarà costata bei quattrini, ma come diceva la mia povera mamma l’arte è il nutrimento della vita. Batté le mani e passò al dunque. Signori, parliamoci chiaro, se mi conoscete sapete che non giro attorno, è vero?, il mercato è complesso, gli acquirenti non sono più le famiglie raffinate come voi, non capiscono nulla ed è tutta gente arricchita molto male con qualche startup, è vero? Sono giovinastri con soldi che vanno all’Ikea piuttosto di dare una lira a un architetto. Bisogna pazientare insomma, e capire quanto siamo disposti a tenere sul mercato questa casa senza svalutarla, ma capiamoci vanno discussi i tempi, le prospettive future, e io vi ripeto quello che dissi esattamente otto anni fa. Solo sette? L’ingegner Talpalesta tirò fuori il suo piccolo messale dal taschino. E cosa ho detto quel giorno, quale che sia? Che le nostre non sono solo case, l’ho detto, è vero, sono sicuro che l’ho detto, sono opere d’arte e dispositivi di reazione poetica al mondo. Questa poi, diceva sfogliando le pagine del suo piccolo quadernino, è davvero particolare, è vero. Avete ragione, sono sette anni, l’anno in cui morì la mia cara mamma.

Guardò fuori verso il giardino con fare assorto e poi tornò da noi. Ho tre proposte per voi, disse alzando le dita, anzi quattro. Alcune soluzioni più grandi se la famiglia si volesse allargare e speriamo che si allarghi presto, è vero, ma anche qualche soluzione più agile pur sempre adatta a incontri di rappresentanza, penso ai cocktail, penso alle colazioni di lavoro, ma penso anche alla signora. Certamente, è vero, staremo attenti come sempre alla vostra intimità, con soluzioni blindate all’esterno, non si capirà nemmeno che cosa c’è dentro. Potranno solo immaginarlo: la ricchezza è sostanza, non va mai mostrata, è vero? E spazi più comodi per la signora Angelina, certamente, è di famiglia, possiamo dirlo? La quarta proposta è un po’ più ardita, diciamo visionaria, anche pragmatica se volete, sono vecchio stampo, pane al pane, ma mi conoscete, è vero. Sono convinto che l’avete pensato subito anche voi: questa casa è un gioiello, lo sappiamo, e allora perché non allarghiamo il lato nord con nuovi moduli abitativi, è vero?

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Il giorno successivo il nostro giardino era pieno di buche. Quella notte Talpalesta era venuto a farci visita nel sonno. Ho provato a svegliarti, mi dicevi, ma tu dormivi, Talpalesta aveva premura di tornare a Milano. Mi ha detto che per trovare la casa giusta doveva sapere se sarebbero arrivati i figli e quanti, ho provato a svegliarti, ma io avevo con me la cartelletta di esami, gli ho mostrato tutto e gli ho detto di Mangiaglosse, si è scritto cose nel taccuino, ha detto che Mangiaglosse è in effetti il migliore di tutti: i Cavenaghi, i Bertoloni, i Doralice, sono tutti suoi clienti… tutti figli di Mangiaglosse si può dire, ma se Mangiaglosse ha detto che non possiamo avere figli… io ho dunque mentito, ho detto a Talpalesta che Mangiaglosse non ha del tutto chiuso le speranze, che poi è vero, giusto?, e comunque può sbagliare. Gli ho detto che i figli arriveranno, ne vogliamo almeno tre e questo è certo. Allora Talpalesta ha subito cambiato i modi, ha detto è sicuro che arriveranno, i Doralice non avevano proprio speranze e guardi ora, e quando arriveranno avrete già la casa giusta per voi e per i figlioli, perché non quattro, è vero, e per Angelina, e per gli affari del marito. Anche io e la mia signora, mi diceva Talpalesta, abbiamo fatto fatica, cosa crede? Ed erano altri tempi sa. Suo marito però lavora troppo, me lo faccia dire, lo stress incide, è vero, e voi ci pensate sempre?, perché non dovete più pensarci, è vero, il mio secondo maschio è arrivato in una tenera fuga a Bellagio, era settembre, la mia povera mamma viveva ancora con noi, avevo chiuso una trattativa complicata per alcuni uffici di Torre Velasca, la mia signora non ci sperava più, è vero, le ho detto non pensiamoci, ci penserà Dio, e infatti ci ha pensato bene, il nostro Silvio è al Politecnico, secondo anno, un metro e ottanta, tutti trenta.

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Poi, mi hai detto, Talpalesta mi ha portato a vedere le case. Mi hai detto non ci crederai ma è un esperto scavatore, e io ti ho creduto. Ha appoggiato la valigetta sul divano, mi hai spiegato, e mi ha portato in giardino, le sue mani erano artigli mostruosi, ho provato di nuovo a chiamarti mi hai detto, ma dormivi, e poi si è tolto i calzini: aveva zampe enormi. Si è inginocchiato e ha iniziato ad annusare i nostri ciclamini, ha urlato ecco qui, questo è ottimo, venga anche lei, e ha rotto il primo strato di terra con gli artigli affilati, buttando la terra dietro di sé. È scomparso ma l’ho visto riapparire dopo un’ora accanto all’oleandro, aveva due zanne enormi e masticava un verme che si dimenava ancora fuori dalla bocca scivolando sui suoi peli vibrissali. Mi ha detto venga signora, coraggio, venga che la accompagno alle sue nuove dimore, da qui si fa prima. I tunnel erano bui e ramificati, faceva freddo, abbiamo strisciato tutta la notte. Alcuni tunnel erano vicini alla superficie, altri più profondi, qui la mia gentile signora tiene la dispensa, mi diceva Talpalesta orgoglioso, queste sono invece le camerette di Carlo e Silvio quando vivevano con noi. Pareva molto felice. Mi diceva che anche Carlo è ingegnere, specializzato nei materiali. Se mi segue andiamo, mi diceva, sono tutte proprietà di altissimo valore, sono opere d’arte e l’arte è il nutrimento della vita, è vero, la mia povera mamma aveva proprio ragione.

Le foto all’interno sono di Allegra Martin e Francesco Paleari, che ringraziamo per la gentile concessione. Il testo è un estratto del racconto “Controspazio” di Emmanuela Carbé che, assieme alle foto, si trova nel volume “Templi per lombardi laboriosi. Architetture di Mario Galvagni a Inveruno” a cura di Elisa Di Nofa e Francesco Paleari da poco uscito per Humboldt. Ringraziamo l’editore e i curatori per la disponibilità.

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Emmanuela Carbé

Emmanuela Carbé è scrittrice, ricercatrice, esperta di archivi digitali. Il suo ultimo libro si intitola Digitale d’autore: macchine, archivi e letterature (Firenze University Press, 2023).

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