Nicola De Cilia
07 Febbraio 2025
Nella ricorrenza dei cinquant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, molto si parlerà del brutale assassinio di cui fu vittima. Non tutti sanno, forse, che la stessa sorte toccò al fratello Guido, vittima del più grave eccidio interno alla Resistenza.
Il passaggio dalla pianura alla montagna è brusco: appena superati i filari delle vigne, le strade si fanno tortuose e strette, si snodano tra boschi intricati, bordeggiano profonde forre scavate da torrenti che non si vedono. Siamo tra Tarcento e Cividale, nella Sclavanie, la Slavia friulana o Beneçija, ai confini con la Slovenia. Qui, tra il viluppo dei colli, è passato anche il groviglio della storia: per quanto la “cortina di ferro” oggi sia diventata una “cortina di burro”, porosa e facilmente permeabile, si ha a volte la sensazione che il tempo si sia ingorgato in questi labirinti di rocce e rami. Qui, ottanta anni fa, tra il 7 e il 18 febbraio 1945, si è consumato il più grave fatto di sangue interno alla Resistenza, l’eccidio di Porzûs: diciassette partigiani della Brigata Osoppo vennero uccisi da partigiani comunisti dei Gap (Gruppi di azione patriottica). Tra le vittime, Guidalberto Pasolini (il partigiano “Ermes”) e il comandante “Bolla”, Francesco De Gregori (zio del cantautore).
Si discuterà molto, in questo 2025, di Pier Paolo Pasolini, nel cinquantesimo anniversario del suo brutale assassinio. In queste righe, però, parleremo dell’assassinio di Guido, l’altro Pasolini, il fratello, nato nell’ottobre del 1925. La sua morte rappresenta un trauma che lascerà in Pier Paolo una traccia indelebile: “Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio, di una innocenza, che non si possono credere – scrive all’amico Luciano Serra, nel maggio del 1945 – E quanto è stato migliore di tutti noi; io adesso vedo la sua immagine viva, coi suoi capelli, la sua giacca, e mi sento afferrare da un’angoscia così indicibile, così disumana”. Ancora nel 1961, rispondendo a un lettore di “Vie nuove”, scrive così: “Io sono orgoglioso di lui, della sua generosità, della sua passione, che mi obbliga a seguire la strada che seguo”. E quando la madre interpreterà Maria sotto la croce, nel Vangelo secondo Matteo (1964), Pasolini, al fine di ottenere un’interpretazione di “sanguinante sincerità”, a lei che attrice non è, chiederà di rivivere il dramma della morte di Guido.
“Il passaggio dalla pianura alla montagna è brusco: appena superati i filari delle vigne, le strade si fanno tortuose e strette, si snodano tra boschi intricati, bordeggiano profonde forre scavate da torrenti che non si vedono”.
Non è questa la sede per dipanare tutti i fili che portano al dramma di “Porzûs”: tra i molti testi scritti sull’argomento, rimando almeno a Andrea Zannini, L’altro Pasolini (Marsilio, 2022) e Paolo Strazzolini, Guidalberto Pasolini: da Porzûs a Bosco Romagno, (Aviani e Aviani, 2023).
I dati, dunque: ai primi di febbraio 1945, un centinaio di partigiani italiani, per lo più gappisti inseriti nella divisione Garibaldi-Natisone, agli ordini di Mario Toffanin (“Giacca”), catturano a tradimento i partigiani della brigata Osoppo, i cosiddetti “azzurri”, di orientamento democristiano e azionista. Il comandante Francesco De Gregori (“Bolla”) insieme ad altri tre partigiani (tra cui una donna) vengono uccisi sul posto. Altri tredici vengono assassinati nei giorni seguenti. La loro colpa: rifiutarsi di passare sotto il controllo del IX Corpus sloveno e opporsi alle mire espansionistiche jugoslave.
Particolarmente crudeli risultano le circostanze della morte di Guido Pasolini: rientrato il giorno innanzi dalla località Musi, al momento dell’arrivo dei garibaldini si trova in una malga lontana dal comando, potrebbe fuggire all’imboscata, invece si precipita con pochi compagni in aiuto; è però circondato e catturato. Nei giorni seguenti, insieme ad altri prigionieri, viene condotto a Bosco Romagno, località vicina, e lì gli intimano di scavare una fossa. Guido però fugge, gli sparano, lo feriscono, riesce a raggiungere un centro abitato. Si fa medicare in una farmacia, poi riprende la fuga verso Udine. Stremato cerca riparo in una casa, dove un’anziana gli offre caffelatte e grappa. Entrano due partigiani estranei alla caccia all’uomo. Si offrono di aiutarlo, lo portano in un’altra casa dove viene fasciato. Il destino è davvero agro per Guido: è la casa di uno dei capi della Garibaldi. Riconosciuto, caricato su una bicicletta, riportato a Bosco Romagno, è fatto distendere sulla fossa precedentemente scavata. Il dodici febbraio 1945, un colpo alla nuca pone fine all’esistenza del partigiano “Ermes”. Non aveva ancora compiuto vent’anni.
Bisogna attendere il 2 maggio perché Pier Paolo e la madre Susanna, dopo un lungo periodo di incertezza, di voci contrastanti, di timori e speranze, ricevano la conferma della morte di Guido.
“Caro Guido,
ora che so che tu sei morto mi pare di conoscerti veramente; e so cosa vuol dire il nome fratello”.
È l’incipit di un testo in forma di lettera con cui Pier Paolo si rivolge a Guido (contenuto nella nuova edizione dell’epistolario, P. P. Pasolini, Le lettere, Garzanti 2021). Si sofferma poi a ricordare il giorno in cui il fratello si diede alla clandestinità, nel maggio dell’anno precedente: “Avevi in tasca un biglietto per Bologna. Chiunque ti credeva diretto là; e neanche io sapevo dove saresti veramente arrivato. Intanto il cielo era sereno, là in alto, tutt’intorno a noi; e sorgeva una mattina; fresca, pungente; avevamo le scarpe bagnate di rugiada. La valigia ti pesava. E avevi nel cuore lo strazio di abbandonarci. Ma si taceva. Ed io sentivo che quel sereno, quell’umido, quel chiarore dei monti erano tremendi”. Non si sarebbero più rivisti.
Guido, già all’indomani dell’8 settembre 1943, con un coraggio che sfiora l’incoscienza, ruba armi durante spericolate azione notturne, scrive proclami sui muri, boicotta i binari ferroviari. Nel maggio del ’44, appena diplomato, in una lettera al padre (prigioniero degli alleati), dice di non poter rimanere estraneo alla politica, di essere “terribilmente focoso” e aggiunge: “Pier Paolo fa il possibile per tenermi a freno ed in questa sua generosità (sono convinto che lo fa unicamente per evitare dispiaceri alla mamma) lo ammiro e sento di volergli molto bene, purtroppo molte volte mi lascio trascinare dalla passione”. Prima che arrivi la cartolina precetto della RSI, sale in montagna e si unisce alla brigata Osoppo, nel pordenonese, “con la leggerezza inenarrabile dell’adolescente, che crede la vita tutta nuova perché è nuova la sua”. Spedisce, quando può, lettere al fratello (firmandosi Amelia, avendo cura di mettere verbi e pronomi al femminile), a cui chiede di comporre qualche canzone in friulano, di inviargli poesie. Finalmente ne riceve una: “La poesia ha interpretato straordinariamente il mio stato d’animo di certe giornate ventose raddolcite dal sole: io ero lassù, e sotto di me la pianura […] Seguivo con gli occhi ansiosi il greto bianco del Tagliamento: ad un certo punto la campagna si intorbidiva in una tenue nebbiolina azzurrina… là eravate voi che forse mi pensate”. Chiede vestiti pesanti perché ha deciso di “dedicarsi agli sport invernali”: in realtà, sta per trasferirsi nella zona operativa del Friuli orientale, nei pressi di Tarcento. Chiude con una nota di speranza: “Non pensate male di me, mi sento protetta da una forza misteriosa: ci rivedremo! Ed allora saremo felici”.
“Se io paragono la mia imprudenza nello scrivere versi di quell’età con la tua, – risponde idealmente Pier Paolo nella lettera al fratello morto – vedo che sono la stessa cosa. Una stupida sicurezza di sé, delle proprie idee; un costruirsi idoli sacri e assoluti; un disprezzo esagerato per tutto ciò che esula dal cerchio della propria vita. È una forza invincibile che sale su dallo stesso corpo, che, il finire dell’adolescenza, dona ad una vera vita, che serba ancora, tuttavia, quell’ignoto e quell’indifferenza di favola con cui appare al fanciullo”.
Pasolini rifiuta ogni forma di rassegnazione: spacciata per saggezza, ritiene non sia altro che egoismo, crudele e disumano. “Bisognerebbe essere capaci di piangerlo sempre senza fine – scrive a Serra, nell’agosto del ’45 – perché solo questo potrebbe essere un poco pari all’immensità dell’ingiustizia che lo ha colpito. […] [L]’unico pensiero che mi conforta è che io non sono immortale; che Guido non ha fatto altro che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio. E che ora mi è così famigliare; la terribile oscura lontananza o disumanità della morte mi si è schiarita da quando Guido vi è entrato. Quell’infinito, quel nulla, quell’assoluto contrario ora hanno un aspetto domestico”.
Porzûs è, per dirla con Gadda, “come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”. Ricostruire le cause che hanno portato a Porzûs vuol dire fare i conti – prima ancora che con ideologie e calcoli politici – col cuore di tenebra degli uomini: come ha scritto lo storico Raul Pupo, la logica (se di “logica” si può parlare) che sta dietro i fatti di Porzûs è “altra”, va fatta risalire alla violenza della guerra in Jugoslavia, dove tedeschi e italiani applicarono con determinazione l’ideologia dello sterminio dei nemici mentre, a sua volta, l’esercito di Tito faceva tesoro del modello stalinista esercitando la violenza di Stato. Lo scontro tra comunismo e nazifascismo non prevedeva alcun distinguo, nessuna posizione intermedia, nessuna pietà e a farne le spese, nella Venezia Giulia e nel Friuli orientale, fu il movimento partigiano non comunista che ne rimase stritolato. I comunisti udinesi, prigionieri di una fedeltà ideologica cieca, si adeguarono, o non seppero ribellarsi, rendendosi complici di un crimine orrendo. Orrendo quanto inutile, visto che poi gli jugoslavi concentrarono le loro rivendicazioni su Trieste, trascurando la zona orientale del Friuli.
“Porzûs è, per dirla con Gadda, ‘come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti'”.
Tra il ’44 e il ’48, Pasolini è passato dal partito d’Azione a segretario del Pci di San Giovanni, creando scandalo e suscitando accuse di tradimento della memoria del fratello. L’8 febbraio 1948, tre anni dopo l’eccidio, disgustato dalle strumentalizzazioni democristiane come dalle rimozioni comuniste, sul “Il Mattino del Popolo” scrive che “interpretare” Porzûs è ancora un’operazione delicata, quasi intempestiva: “due partiti, sullo sfondo di uno sconvolto cielo di confine, si contendono la competenza richiesta per estrarre dalle tremende cronache del ’44-45 quei fatti e assumerli su un accomodante piano di storia o di leggenda. […] So infatti, senza timore di ingannarmi – per l’amore pudico e confidente che mi legava a Guido – che mio fratello e i suoi compagni osovani si trovano con i loro assassini in un rapporto che è semplicemente l’antinomia Bene-Male; così essi […] non sono morti in nome della “Patria”, ma in nome di quello che il simbolo “Patria” rappresentava nel 1945 per chi combatteva contro i Tedeschi: sono morti cioè in nome di quella spiritualità che essendo una categoria dell’uomo esisteva potenzialmente anche nei loro carnefici. Se dunque vogliamo che essi, in nome di quella Spiritualità, continuino a vivere, è a Loro che dobbiamo pensare e non ai caduchi simboli umani per cui hanno dato la vita”.
Pasolini, “non appartenente a nessuno / libero d’una libertà che m’ha massacrato”, si sottrae dunque al ricatto di ogni retorica, di ogni moralismo, rifiutando, in nome di un umanesimo radicale che non esclude la dimensione “sacra”, le rigide contrapposizioni ideologiche; come ha sottolineato Piergiorgio Bellocchio, resta profondamente refrattario alla politica: anche la “Patria” è un valore da reinventare, ma solo tramite la poesia. Ed è sempre attraverso “l’immaginazione poetica” che anche la memoria del fratello morto trascende la storia per iscriversi in un mito, prima ancora che familiare, universale:
“Spesso penso al tratto di strada tra Musi e Porzûs percorso da mio fratello in quel giorno tremendo; e la mia immaginazione è fatta radiosa da non so che candore ardente di nevi, da che purezza di cielo. […] Vedendolo camminare da Musi a Porzûs verso una morte che egli avrebbe scelta per essere fedele a una vita così breve ma così creduta, mi sembra di non resistere all’angoscia, e mi sembra che per lui sua madre, i suoi libri, i suoi divertimenti debbano avere più valore di qualsiasi altra cosa al mondo; e allora lo chiamo perché torni indietro verso Musi: “Guido!” lo chiamo. Ma Ermes continua a camminare dritto, sicuro, senza pentimenti”.
Nicola De Cilia
Nicola De Cilia è autore di un romanzo, ha scritto di diversi saggi di carattere letterario, è collaboratore de «Lo Straniero», e attualmente scrive su «Gli asini». Il suo ultimo libro è Giovanni Comisso. Un invito alla lettura (Digressioni editore, 2021).
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