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Lorenzo Matteucci

Il culto di Metal Carter è più vivo che mai

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Autore di testi controversi, violenti e al limite del ripugnante, Marco De Pascale in arte Metal Carter ha un pubblico di affezionati di cui ha saputo incarnare il livore. Nella sua biografia, da poco uscita per Nero, ripercorre la sua carriera facendo emergere i propri lati più intimi e personali, quelli dietro la maschera.

Sarò onesto: ci ho messo un po’ a capire perché stessi scrivendo questo articolo. 

Del resto non sono uno scrittore né un critico musicale, e più volte mi sono domandato se ciò che stessi facendo avesse senso e, soprattutto, cosa davvero mi spingesse a farlo.


La verità è che Cult leader non è l’ennesima autobiografia, così come il soggetto ritratto non è un semplice rapper, piuttosto il figlio strano di una metropoli che lo ha visto crescere e, a suo modo, diventare una leggenda negli anni. Sulle pagine del libro edito da Nero, insomma, è stampato un pezzo di storia della mia città, e di chi, come me, ha vissuto la passione per il rap nella Roma dei primi 2000. 

Ci tengo a rimarcare l’importanza della mia provenienza, non tanto per senso di campanilismo, quanto perché credo che quello che è scritto in Cult Leader, e che per esteso accadeva nella capitale in quegli anni, possa essere capito a pieno solo da chi conosce quei luoghi e quel momento storico.

Lo ammetto: a Marco de Pascale, al suo alter-ego Metal Carter, e alla sua musica, voglio davvero bene. Credo sia questo, in fondo, il motivo per cui sono qui a digitare.

“La verità è che Cult leader non è l’ennesima autobiografia, così come il soggetto ritratto non è un semplice rapper, piuttosto il figlio strano di una metropoli che lo ha visto crescere e, a suo modo, diventare una leggenda negli anni”.

Se pensate di trovare in questo libro storie di eccessi, violenza, vite al margine, la soddisfazione sarà parziale. Ebbene sì. L’autobiografia di Metal Carter, del Sergente di Metallo, del Death King – noto per i suoi testi brutali e un’estetica che mischia rap, death metal e splatter movies nonché per essere membro fondatore dei Truceboys, il gruppo rap italiano più controverso di sempre – non è violenta quanto la sua musica. C’è, anzi, una certa riluttanza a indugiare in argomenti come la droga, gli eccessi, o i litigi che hanno portato allo sgretolamento della formazione di cui per anni ha fatto parte. Tutte cose che probabilmente avrebbero attirato un pubblico affamato di gossip che non aspettava altro. Ma questo è un libro su Marco, non su Carter. 

Nel raccontarsi, il protagonista è affiancato dal giornalista Riccardo Papacci. Ciò che ho davvero apprezzato, è il modo in cui i due prestano attenzione a sviscerare i motivi da cui scaturisce la violenza proverbiale dei testi del Sergente, piuttosto che decantarla. 

Mi spiego meglio: la musica di Carter è panacea e scappatoia al disagio di un ragazzo comune, cresciuto in un ambiente familiare difficile in una città peraltro non particolarmente clemente con chi non si mostra arrogante. È la rabbia in versi di chi non si sente esattamente a posto con ciò che ha attorno, eppure non vuole accettarlo.

Tra i tanti, forse “Violenza Domestica”, è il brano che meglio restituisce dall’interno la trasformazione di Marco da adolescente disadattato a Sergente di Metallo.

“La mia casa invasa di discordia

violenza che non si scorda.

Ricordo, ero un bambino

solo e abbandonato al suo destino”

E poi:

“Essenzialmente, odio e odiavo tutti

Senza differenza brava gente e farabutti”.

O ancora:

“Frustrazione significa confrontarsi con la gente

Capire quante cose non contano niente

Sono l’antieroe di questa vicenda

Sto tra il vero e il falso come una leggenda

Per strada costretto dalla violenza

Userò la mia clemenza

Si avanza come se Roma fosse la mia stanza!”

In queste rime è urlato tutto il senso di abbandono dell’infanzia unito a un odio insopprimibile da cui germoglierà il personaggio di Metal Carter.  

I primi capitoli di Cult Leader descrivono un ragazzino che cerca modi di evadere dalla quotidianità opprimente, fuori e dentro casa. 

La prima valvola di sfogo, nonché ossessione maniacale di Marco, è il death metal, un genere di metal particolarmente spinto di cui è stato cultore e pioniere in Italia, suonando la batteria negli Enthralment, poi divenuti Corpsefucking Art. Sorvolerò volontariamente sulla traduzione di questi nomi, ma credo sia chiaro da dove provenga l’immaginario di morte, orrore, cadaveri, sangue e occultismo che da lì a pochi anni confluirà nel secondo blocco del libro, quello che vede il futuro Death King avvicinarsi a rap e graffiti. 

Se prima la fuga dalla realtà era fatta di isolamento, cuffie e metal sparato nelle orecchie, in questa seconda fase diventa una reazione, un abbandono della casa e delle insicurezze: la volontà di stare in strada fino a notte fonda, nel buio di una metropoli che da qualche anno vedeva apparire al suo risveglio strani segni sui treni della città. Vorrei che questo non diventasse un pezzo autoreferenziale, ma non posso evitare di dire che i capitoli di Cult Leader scandiscono i passi della mia – e chissà quante altre – gioventù: quella di un ragazzo a cui piaceva il rap e che vestiva largo in un’epoca in cui non era comune farlo. 

Tutto ha inizio dalla fauna romana. 

Il coatto così come si legge nel libro, era l’esemplare alfa della Roma degli anni 90/00. Da non confondere con il boro, specie di origine più recente e contraddistinta dall’uso di tute in nylon; il giovane coatto aveva invece un look preciso: jeans stretti, bomber Murphy&Nye smanicato o no (a seconda della stagione), ai piedi anfibi Magnum, o classiche Nike Air Max. Sorta di divisa a cui si aggiungeva abbondante uso di deodorante Axe e qualche collana d’oro in vista. I suoi interessi principali erano il gel, la musica dance, i motorini. 

Le comitive di coatti imperavano in città ed era difficile restare fuori dai loro radar, specialmente se i tuoi interessi non coincidevano con i loro.

A ciò si collega un altro elemento chiave del racconto mitobiografico di Metal Carter: il bullismo.

Se nel libro si fa costante riferimento alla periferia, al quartiere di Primavalle, la mia vita, a isolati di distanza, non era troppo diversa. Anche in un quartiere residenziale e non lontano dal centro come l’Alberone ho imparato presto a riconoscere le stesse situazioni. 

Ero un ragazzino di 12-13 anni, esile e non esattamente scaltro, dunque non diverso dalle vittime preferite del coatto di turno. A limitare i danni credo sia stato il fatto di avere avuto una sorella maggiore di due anni, e che spesso riuscissi a intrufolarmi nei suoi giri. 

In generale, credo che crescere nella Roma di quegli anni ti portasse ad accettare la violenza, a considerarla parte del tuo quotidiano, a dover stare attento a determinate situazioni e, non ultimo, a cercare costamente vie per sfuggirle. Per tutta la mia gioventù, ho avuto l’impressione che Roma col suo tribalismo rendesse uno speciale tributo ai suoi figli più prepotenti.

Da qui quel senso di impotenza e inferiorità che si annidava in me. Il risvolto positivo è che c’era un mondo nascosto che condivideva con me quella rabbia e Carter, con le sue rime ultraviolente, era destinato a diventarne il cantore.

Il mio legame con il Sergente e i Truceboys si salda nell’androne del palazzo dove abitavo: è lì che avviene uno scambio tra la mia guida di Final Fantasy X (NDR: Piggyback, ufficiale, merce di qualità) e un cd contenente vari brani rap masterizzato da Manuel, un amico di mia sorella. Credo avessi tredici anni, o giù di lì, ma lui, più grande di tre, era già nel giro del rap e dei graffiti. Gli avevo chiesto di metterci qualche traccia di underground romano, e se avesse potuto aggiungerci un corso accelerato di graffiti: “quelli si imparano per strada” mi aveva risposto. Non esattamente un inizio hip hop il mio, ma che vi aspettate. Di certo per strada non c’ero mai stato: ero un ragazzino nerd, appassionato di fumetti e videogiochi, poco propenso alla vita sociale. 

Tra le tracce di quel CD, in mezzo a Colle Der Fomento, Piotta, Cor Veleno e qualche altro pilastro del rap locale, ce n’era una il cui titolo non passava inosservato: “Il Dramma”. 

Rime oniriche, citazioni dalla cronaca nera, un sacco di rabbia riversata in un modo crudo e mai sentito.

“Oh mio Dio, scoppia il dramma,

Vedo un cane che azzanna,

Ecco come muore una mamma.

Novi Ligure il loro programma

Ecco come uno psico si infiamma!”

Non spetta a me dire che Metal Carter e i Truceboys abbiano portato qualcosa di nuovo a Roma e in Italia ma vale la pena ripeterlo. In quegli anni, lo ricordo bene, il rap a Roma era un circolo piccolo e chiuso, e i dogmi dell’hip hop e le sue discipline dettavano ancora legge. Ricordo una scissione netta: da una parte c’erano basi con campioni funk, groove di batteria, testi perlopiù legati alla vita quotidiana o alla celebrazione del proprio stile, della propria crew e della propria città; dall’altra, un approccio più politico e legato ai centri sociali. Da un lato si prestava molta cura alle rime, allo stile e all’aspetto tecnico sul modello del rap americano, dall’altro si guardava più ai contenuti e al messaggio veicolato.

A un tratto gli ascoltatori del genere si ritrovano i Truceboys nel lettore CD. Quattro ragazzi a sputare nel microfono le prime cose che gli passano per la testa: rabbia, disagio, odio per la vita, generico cazzeggio senza filtri. C’è di più: il gruppo addirittura si diverte a dissacrare i cliché dell’hip hop.

Ricordo all’epoca chi li denigrava, chi vedendoli come profanatori del genere, chi considerandoli solo dei beceri provocatori. 

Sui forum di esperti del settore – commemoro volentieri il defunto Hip Hop Hot Boards – qualcuno li accusava di non andare a tempo o, peggio, di copiare i testi di Necro, un rapper di Brooklyn da cui è nato il sottogenere del Death Rap, rap violento che attinge a un immaginario horror e ai limiti del trash.

Onestamente a me poco importava di tutto questo, nelle mie cuffie da teenager incazzato (né più né meno di tanti altri, certo) quei brani suonavano benissimo. Nei primi anni di liceo ero talmente fissato con le loro rime, i loro video, il loro immaginario, da finirne protagonista in sogno. Nella realtà, mi ero beccato una multa sul bus diretto a Capannelle per non aver timbrato il biglietto. In sogno, però, il controllore era nientemeno che lui, il Cult Leader. Dopo avergli confessato che per me era un onore, e non senza avergli poi mostrato l’mp3 con tutte le sue tracce, il Death Master mi aveva revocato la multa, a patto che la mia mancanza non si fosse ripetuta. Non potevo non ringraziare prima di scendere dal mezzo ATAC: “Grazie Signor Sergente”, gli avevo detto a voce bassa. La cosa buffa, è che ricordo distintamente a distanza di anni, era che la sua apparizione ricordava perfettamente la sua recitazione nei video ironici e iconici dedicati a Otillaf, “fallito” al contrario, la macchietta del rapper convenzionale ideata da lui e Gel e ben approfondita all’interno del libro. 

Otillaf è in realtà Antonio, ragazzo destinato più o meno consapevolmente a diventare un’altra figura leggendaria per gli adepti del Truceculto. Cito:

“Uno dei nostri passatempi preferiti era girare piccoli cortometraggi con la videocamerina di Corrado (Gel), che tra l’altro in quel periodo aveva iniziato a lavorare per non so quale studio cinematografico e stava cominciando a impratichirsi coi ferri del mestiere – anche se, essendo comunque Gel, è rimasto un tipo sempre da ‘buona la prima’. E infatti quei corti erano quasi sempre delle cose sgangherate e sconnesse. Non solo perché erano girati in fretta: è che ci piaceva proprio quell’approccio cinematografico. Roba tipo Antonio che va in giro per i negozi di dischi a chiedere speranzoso ‘Ce l’avete il cd di Otillaf?’, e i commessi che rispondono ‘E chi cazzo è?'”.

Tra i Truceboys, proprio Carter e Gel si erano ritagliati un posto speciale nel mio cuore. Mi sbalordiva la capacità che avevano nel dire al microfono, senza soluzione di continuità, cose che potevano lasciarmi estasiato e inorridirmi allo stesso tempo. Humour nero, cinismo, provocazioni in abbondanza. Sembravano non avere freni, pareva non gli importasse niente di niente, anzi, facevano di tutto per andare contro il buon gusto e i canoni dell’epoca. Non a caso la mia traccia preferita di Sangue, il primo e unico album in studio dei Truceboys uscito nel 2003, era proprio Circo, che li vedeva protagonisti al microfono.

“Portatori di ideali rap con handicap,

All’Italia non conviene imitare l’America

Pensi che la vita sia una rap-predica

Con la tua metrica, sai, non salvi la tua etica”.

“Esistono altre cose, l’amicizia tra noi

Conta ciò che sei, e non il rap che fai”.

Credo che in queste rime ci fosse il nucleo della loro poetica: derisioni del rap all’italiana, del “mito americano”, ma soprattutto la volontà di fare le cose per come si è, di non farsi incasellare in qualche struttura, di impegnarsi, al massimo, ma nel prendersi poco sul serio. Era uno spirito rivoluzionario e iconoclasta per l’epoca. 

Alle persone che mi hanno chiesto cosa ne pensassi di Cult Leader ho risposto all’incirca: “c’è tutto quello che volevo leggere”. Che non significa che mi aspettassi di scoprire che Metal Carter ha realmente commesso atrocità in un bosco nei confronti di sua nonna come rappa in uno dei suoi pezzi più noti, quanto piuttosto che ha rimato tutto ciò fregandosene della morale, della tecnica e del contorno, travasando un immaginario metal e da horror di serie b in un ambiente, quello del rap romano, che all’epoca sembrava una gara a chi fosse più fedele ai classici americani. 

“L’autocelebrazione ostinata di personaggi con buona tecnica e zero contenuti ci sembrava ridicola”, dice nel libro. “Non ne potevamo più del «rap che parla di rap» che all’epoca andava per la maggiore – sai, quel genere di roba tipo ‘guarda come sono stiloso e senti quanto spacco’. Noi di stiloso non avevamo un cazzo – ma ci andava bene così e in un certo senso ne eravamo addirittura orgogliosi.”

Questo è lo spirito che ho amato, ed era ciò che gli invidiavo. Mi sforzavo di essere un ragazzino fuori dalla massa, ma allo stesso tempo ero pur sempre un borghese. Non mi sentivo davvero rappresentato da battaglie sociali, dal rap americano, o da chi provava a importarlo assimilandone le sonorità. E poi, sinceramente, a 14 anni è ovvio essere attirati da ciò che è sbagliato. E i miei idoli erano esattamente così: dei ragazzi di qualche anno più grandi, controversi, fuori luogo, sbagliati da ogni punto di vista. 

Credo sia questo il motivo del successo trasversale che hanno avuto Carter e i Truceboys. Non solo attiravano un pubblico fuori dal circolo dell’hip hop, ma i loro live erano una tana per chiunque volesse divertirsi senza pensare troppo al contesto, soprattutto per chiunque avesse qualcosa da recriminare alla vita. Non vigevano differenze di sottocultura, di classe sociale o di provenienza. 

E qui urge una specifica, che è sempre stata il tarlo più pungente della mia relazione con il rap: sono dell’idea che anche chi non vive il disagio della periferia criminale abbia diritto a sentirsi incazzato e manifestare la propria rabbia. E ho avuto diverse conferme di questa idea nel tempo, non solo perché è ben noto come molti personaggi del rap romano (e non) vengano da famiglie e quartieri benestanti, quanto perché alcuni tra i fan più sfegatati del Death King Carter (e della sua compagnia) che ho incontrato negli anni vengono da quartieri come Trastevere, Monti, Prati, Parioli. Figli di avvocati, registi, politici, ambasciatori, ognuno con il proprio nodo di problemi e la voglia di musica spinta per allentarlo.

Tempo fa leggevo un’intervista uscita su «Rolling Stone» a Gianpietro Vigorelli, uno dei grandi pubblicitari che ha cavalcato il periodo d’oro del settore negli anni ’80. Quello che ignoravo è che Vigorelli fosse anche il padre di Jake La Furia, rapper tra i più famosi in Italia, ex membro di Sacre Scuole e Club Dogo e con all’attivo trent’anni di rime.

Alla domanda sul rapporto con l’attività del figlio Vigorelli risponde: “I rapper avevano un disagio da veicolare. Ma non sempre perché venivano dalla strada, come mio figlio che è cresciuto in una famiglia con delle possibilità. Ma in casa si è trovato noi che discutevamo su tutto e probabilmente ha vissuto un disagio, come tanti figli di famiglie borghesi”. 

Se c’è una verità che ho avuto modo di esperire dal vivo e che emerge dalla biografia è questa, ed è quanto mai attuale: è importante scindere il personaggio pubblico dalla persona.

I Truceboys, tramite le loro maschere, incarnavano alter-ego fatti di ferocia e odio, ma le pagine di Cult Leader descrivono Marco, una persona pacata e di buon cuore. Dalla mente di Marco nasce un espediente per sfogarsi: Metal Carter, la maschera horror di un degenerato pluriomicida. Ed è magnifico come le due cose possano coincidere senza attriti.

Molti ascoltatori di rap, forse soggiogati dal credo americano del “keep it real” (‘sii onesto con te stesso’) tendono a dare per scontato, o pretendere, che tutto ciò che viene cantato in un pezzo coincida con la verità assoluta. Il discorso era già snocciolato alla perfezione in un’intervista culto uscita nel 2012 su «Vice» (commemoro con piacere anche lui). Carter e Noyz, altro membro dei Truceboys, sono intenti a pasteggiare al ristorante mentre ripercorrono la loro storia comune.

Il Sergente, Re della Morte, non solo rifiuta i peperoni poiché “pesanti a pranzo”, ma paragona la sua musica a un film dell’orrore con queste parole: “tu vedi questo film dell’orrore che ha una trama, vedi un po’ di sangue, e ti diverti. Esci al cinema divertito. Ovviamente la violenza è solo musicale, e il sangue è solo pomodoro.”

D’altra parte Marco lo esplicita nel ritornello di “Odio Cieco”.

Non tra le sue rime più enfatiche, ma dotate di una vena poetica, direi quasi di una delicatezza, che mi ha sempre colpito: 

“Molte delle cose che dico sono false,

Godo a vede’ la gente imparanoiasse.

Se servisse parlare d’amore per cambiare il mondo

Lo farei ogni secondo”.

Questa “costruzione narrativa” era un concetto fondamentale che avevo intuito quando da ragazzino ho incontrato Cole, quarto e ultimo membro dei Truceboys in ordine di apparizione, in una gelateria storica del quartiere in cui entrambi siamo nati e cresciuti. Lo stesso Cole che rimava di essere too fast for polizia ed era così aggressivo nei suoi testi stava leccando un cono alla stracciatella. Il velo di Maya era infranto. Avrei voluto recitargli la battuta “ma come, dovemo svortà e te pii er gelato” citando la troppo nota scena di Amore Tossico di Caligari, film che in qualche modo si è legato all’immaginario rap grazie alle molteplici citazioni in testi del gruppo, ma avevo troppo timore reverenziale per farlo.

Matteucci 2

Da vent’anni a questa parte ho seguito più o meno tutta la produzione musicale degli (aimhè) ex Truceboys, apprezzando diversi progetti solisti, e comprando talvolta qualche remaster in vinile. Ma la verità è che nel tempo la mia passione per il rap è scemata. La rottura dell’incanto è coincisa con il momento in cui, un po’ per moda, un po’ per fisiologica evoluzione dei tempi, le tematiche tipiche del genere Gangsta (legate a spaccio e criminalità) si sono infiltrate nelle liriche del rap dei Truceboys, e del rap italiano in generale. Ho avvertito di nuovo quel cortocircuito che mi aveva allontanato dal rap conscious, quella sensazione di essere fuori luogo: non mi sentivo più attratto da quella musica come non lo ero, al tempo, da quella dell’ormai “vecchia scuola”.

C’è molta sincerità in Cult Leader, e leggere che il Sergente di Metallo sia sereno e realizzato, non può che rendermi felice. È diventato un simbolo esprimendo se stesso e, a ragazzi come me, ha dato un immaginario in cui rifugiarsi. Ancora oggi mi capita di tornare ad ascoltare classici come La Verità su Metal Carter, Sangue, I più corrotti e ritrovarmi con la memoria che ripara agli anni in cui erano usciti. Anni che, tutto sommato, ricordo come felici.

In Cult Leader è stato fatto un lavoro particolarmente delicato per tirar fuori l’umanità che si cela dietro alla sua maschera inumana.

Su tutti, merita di essere citato il paragrafo dedicato a Matteo, in arte Trucebaldazzi, un ragazzo affetto da disturbo psicotico fin dall’infanzia e salito alle cronache per il suo amore per il rap dei Truceboys e per “Vendetta Vera”, un video in cui emulava i suoi eroi divenuto rapidamente virale per puro intento denigratorio. Di Trucebaldazzi, diventato lo zimbello di internet, Carter parla invece con affetto, e ricorda il supporto che ha dato a Matteo in quel periodo aiutandolo a realizzare il suo sogno di cantare assieme in un video girato con attrezzature professionali. Dalla lettura di questa autobiografia emerge un rispetto verso i fan non così scontato oggi, e una manifesta volontà di aiutare qualcuno con la propria musica assieme alla gioia che ne deriva. 

Come in quel mio sogno adolescente che altro posso aggiungere, allora, se non un timido e poco truce “grazie Signor Sergente”.

Lorenzo Matteucci

Lorenzo Matteucci è illustratore e art director di Lucy. Collabora con riviste e giornali in tutto il mondo.

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