Se il libro edito da Ponte alle Grazie è odioso, le ragioni che hanno portato a pubblicarlo meritano invece attenzione.
Sarebbe giusto fare un attento commento critico dell’ultimo saggio di Ferruccio Pinotti La Lobby Ebraica (Ponte alle Grazie), ma la mente corre rapida alla nota frase di Marx: la storia si presenta la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.
Non siamo davanti al Mein Kampf né ai Protocolli dei savi di Sion ma a una versione ben educata ed edulcorata della stessa pulsione antisemita. L’“inchiesta” di Pinotti è stata accolta tiepidamente, forse per non dare risalto a un libro simile. La casa editrice lo presenta nel sottotitolo come un’indagine su Mito e realtà di un “potere forte” in Italia e nel mondo. Ma la scelta grafica della copertina – una rete tentacolare che si estende su tutto il pianeta –, oltre al titolo, smentiscono il tentativo di schivare l’infamante accusa di antisemitismo. I vari “io non sono antisemita ma” non sono sufficienti ad allontanare i più che ragionevoli sospetti ”, ovviamente.
La prima parte del libro infatti serve a cercare – miserabilmente – di pararsi dai prevedibili attacchi, ricostruendo la storia dell’antisemitismo e le idee che lo hanno ispirato. Moni Ovadia, inoltre – tra gli ebrei viventi più noti in Italia –, compare nell’introduzione con un’intervista. Il senso è chiaro: io Pinotti non ho problemi con gli ebrei, apro con Moni!
Affrontare la questione delle lobby ebraiche non equivale a parlare “di un complotto, né di un’egemonia occulta”, ci rassicura Pinotti. “Nulla di più lontano dal metodo adottato nella presente inchiesta. Essa si attiene ai fatti, i quali svelano una realtà strutturata e interconnessa, dove la competenza, la rete diasporica, il capitale culturale e la solidarietà transnazionale hanno favorito una presenza ebraica di vertice in molti snodi decisionali italiani, europei e americani. E spesso con maggiore influenza di quanto si ammetta pubblicamente” (p. 35).
“La questione centrale” è come analizzare il potere ebraico. “La risposta che questo libro propone è una trattazione fondata su fonti pubbliche, rapporti ufficiali e documentazione internazionale, per unire l’analisi degli indiscutibili successi con quella delle ambiguità e delle controversie” (p. 30). Peccato che, come si impara a scuola, la correlazione non equivale alla causalità ed elencare non vuol dire spiegare il rapporto tra gli elementi citati. Perciò Pinotti può ben scrivere che “Case editrici come Einaudi, Mondadori, Bompiani e Giuntina hanno pubblicato con il dovuto rilievo autori ebraici italiani e israeliani, consolidando un canone di alto profilo culturale” (p. 33). Ma questo non dice nulla né delle capacità di lobbying, né di null’altro di ciò che vorrebbe, vanamente, dimostrare.
Qualora si volesse evitare di perdere tempo a sfogliare il libro, si può avere una breve sintesi del Pinotti-pensiero guardando l’intervista che gli ha fatto Francesco Borgonovo, il vicedirettore de «La Verità», nonché firma del «Primato Nazionale» (organo di informazione di Casa Pound) e, da ultimo, della prefazione a Remigrazione di Martin Sellner, pubblicato proprio quest’anno – ebbene sì – da Passaggio al Bosco. Giornalista del moderato «Corriere della Sera», Pinotti esordisce complimentoso:“Vi seguo con simpatia da molto tempo”. Borgonovo lo incalza, si fa per dire: “Posso farle una domanda scomoda? Esiste una lobby ebraica in Italia?”. Pinotti non ha dubbi: “Esiste in Italia e all’estero e non è una fantasia perché partiamo da dei dati oggettivi internazionali”. Secondo l’autore, quella ebraica “è una lobby che conta molto nell’economia, nella finanza, negli affari, nella cultura e sta determinando anche molti spostamenti interessanti di carattere geopolitico relativi al governo Meloni”. Infine, secondo Pinotti – dimostrando una certa ignoranza economica e debolezza logica –, ci sono “Capitali di matrice ebraica come Blackstone, BlackRock, Vanguard, Fidelity”. Queste idiozie Pinotti non le dice solo a Borgonovo: nel libro parla di “grandi fondi americani a forte presenza ebraica – come BlackRock, Blackstone, Citadel, Elliott, Goldman Sachs, Lazard, Kohlberg Kravis Roberts e Soros Fund” (pp. 31-32). E poco dopo, Pinotti, come ossessionato dal tema, ci ribadisce che Goldman Sachs è stata “fondata da una dinastia ebraica tedesca” – informazione evidentemente indispensabile per capire la finanza mondiale, ma se non è cosa nota è perché c’è una certa lobby che vuole nasconderlo, forse? Più avanti, tutti gli stakeholder di BlackRock diventano ebrei, assieme a quelli di Credit Agricole-Delfin: sono “fondi ebraici” (p. 117). Anche gli immancabili Rothschild sono ampiamente citati. Evidentemente a Pinotti sfugge il funzionamento dei fondi di investimento e del sistema bancario, dal momento che invece personalizza i fenomeni sociali e pensa che i soldi siano gestiti secondo i principi dell’Halakhah, l’etica ebraica, senz’altro luciferina – essendo in fondo gli ebrei gli assassini di Gesù, verrebbe da ricordare. Ma, per Pinotti, non è una questione di deicidio: il punto è che “attualissimo è il ruolo della finanza ebraica in Italia, che con discrezione e profondità sta ridisegnando lo scenario finanziario” (p. 31).
Pinotti conclude il libro non senza una certa soddisfazione scevra da senso del ridicolo, affermando che: “L’obiettivo di chi scrive non è stato di giudicare, ma di scavare e verificare” (p. 405).
L’odioso stereotipo degli ebrei come lobby tentacolare, capace di insinuarsi in tanti e cruciali settori della società, viene reso esplicito già nell’indice, dove compare una lista delle famiglie ebraiche più potenti. Ma a scanso di equivoci, Pinotti scrive: “in termini reali, la constituency ebraica – pur numericamente esigua in Italia, ma forte di ampie connessioni internazionali – ha saputo costruire nel corso dei secoli snodi cruciali di influenza nel mondo della finanza, della cultura e della comunicazione” (p. 31). L’autore però, nonostante cancelli l’eterogeneità sociale e politica ebraica e ribadisca i noti luoghi comuni, non ritiene, così scrivendo, di fare indebite generalizzazioni razziste.
In questo pastone tutti gli ebrei la pensano allo stesso modo, stanno dalla stessa parte, senza conflitti ideologici e senza perseguire interessi diversi oltre a quello dettato dall’ebraicità.
Gad Lerner e Enrico Mentana in quanto ebrei devono per forza avere le stesse idee. David Parenzo, Fiamma Nirenstein ed io pure. E soprattutto dobbiamo essere tutti parenti o amici, conniventi nei reciproci crimini: la difesa del genocidio a Gaza, la volontà di fare soldi a palate, di speculare in borsa, di accrescere il nostro prestigio pubblicando libri, andando in tivvù, investendo nel mattone, cospirando o prosperando nel commercio. E prendendo possesso dei mezzi di informazione, elemento fondamentale per consolidare la propria influenza: “c’è una sorta di lobby ebraica interna a Repubblica”, scrive Pinotti. D’altronde Elly Schlein, in quanto ebrea e di origine svizzera, è legata all’imprenditore e editore Carlo De Benedetti, dice l’autore nell’intervista a Borgonovo. E ancora: “Il potere ebraico nei media italiani non si misura tanto in termini quantitativi, ma qualitativi: direzioni editoriali, network culturali, orientamento del dibattito. In RAI, Sky e La7, molte figure di matrice ebraica – talvolta dichiarate, talvolta meno – orientano i temi e le narrazioni” (p. 33).
Essere ebrei rende più forti e permette di scalare il potere che poi si difenderà a tutti i costi. Una lobby opera così, d’altronde: permette di salire la scala sociale e rafforza la solidarietà dei potenti contro il resto della società. Gli ebrei anticapitalisti – da Marx a Rosa Luxemburg – o gli ebrei poveri non esistono, siamo, noi ebrei, tutti detentori di immani ricchezze e interessati ad accumularne sempre di più. Gli ebrei antisionisti? Non esistono, siamo tutti al soldo dell’ambasciata israeliana. Per avere una quota di Black Rock basta frequentare la sinagoga et voilà.
Pinotti ha il coraggio – assenza di consapevolezza o cinismo? propendo per la prima – di scrivere: “La mole di evidenza empirica emersa indica chiaramente che questo lavoro è destinato a costituire la base per ulteriori approfondimenti. Tuttavia è lecito affermare, in base a questo accurato lavoro di inchiesta, che la cosiddetta ’lobby ebraica’ non solo esiste ma è una realtà fondamentale con cui fare i conti, nella sua complessa articolazione” (p. 405).
Potrei continuare questo gioco di prevedibili citazioni ma forse è più importante arrivare alla questione di cui parecchio si è discusso. Non se questo libro sia o non sia antisemita – lo è, evidentemente; ma perché è stato pubblicato da una casa editrice di valore? Cosa non ha funzionato nella catena editoriale e culturale, che si suppone dovrebbe evitare che simili pericolose scempiaggini vengano pubblicate? Certo, segnali di un sistema non dei più sani erano emersi anche di recente – si pensi, da ultimo, al caso della rissa tra influencer, ampiamente pubblicate per le principali case editrici italiane.
Le 400 e più pagine scritte da Pinotti, capo servizio del «Corriere della Sera» e già autore di diverse inchieste più o meno scandalistiche, non bastano a compensare la rozzezza argomentativa – semmai gettano un’ombra sinistra sulla casa editrice Ponte alle Grazie e sui giornali nei quali l’autore si è formato e tuttora lavora.
Sempre per scomodare frasi e concetti triti e ritriti: il problema non è che il gerarca nazista Adolf Eichmann fosse terribilmente crudele, ma che fosse tristemente “normale”. Il libro di Pinotti si inserisce in un campo affine, quello dell’infelicemente banale e, forse, in questo caso, dell’inconsapevolezza. Non credo che Pinotti rappresenti lo spirito del tempo, non siamo nel ’38 e non ci sono le leggi razziali in vista – al contrario, se è vero che l’antisemitismo è cresciuto, a preoccupare di più in Europa sono islamofobia e razzismo istituzionale.
Tuttavia Ponte alle Grazie non è Passaggio al bosco – ossia una casa editrice fascista. È una casa editrice rispettabile e progressista. Pinotti lo dice: il titolo vuole essere provocatorio. Ma siamo alle solite: chi lamenta che non si può più dire niente, poi insulta le minoranze in virtù della prima parte del ragionamento – il vittimismo della maggioranza culturale e, talvolta, razziale. Egualmente, Pinotti dice di attenersi ai fatti ma poi scrive un libro dove le famiglie ebraiche sono classificate in termini razziali – De Benedetti, emblema del capitale “di matrice ebraica”, di ebraico ha solo il nome infatti, ma voleva licenziare gli operai e quindi è cattivo; in compenso il certamente capitalista Sergio Marchionne che estromise il sindacato metalmeccanico della Fiom si merita un “bravissimo” nell’intervista compendio di Borgonovo, degno spin-off del libro – a quando l’allegato cd con il testo?
Il mercato è una grande chiesa: tutti possono trovare quel che fa per loro. In libreria si può comprare tanto un elogio di Stalin quanto uno di Himmler. In mezzo si possono leggere pensose inchieste sociologiche sul fatto che i migranti siano predisposti a delinquere e quindi, perché no, si possono trovare risposte anche all’antica domanda: ma è vero che gli ebrei hanno più potere di quanto dovrebbero?
D’altronde, l’antisemitismo di sinistra, per quanto strumentalizzato e quantitativamente inferiore a quello della destra, esiste e lotta contro di noi – perdonate la scivolata identitaria. Questo non è antisionismo, ma una grossolana generalizzazione che guarda a tutti gli ebrei in termini negativi, con l’obiettivo di cancellare l’eterogeneità sociale che pure esiste – come per qualsiasi altra minoranza e maggioranza. Le ragioni sono molteplici e dentro la tradizione della sinistra, come in ogni corrente del pensiero, si trovano pensieri e pratiche contraddittorie. Così come nella sinistra latamente intesa c’è un problema di islamofobia, sessismo e omotransfobia, così questa non è, costituitutivamente, ontologicamente, immune da pregiudizi anti-ebraici. Ovviamente, il genocidio e la complessità della storia del conflitto per la Palestina non facilitano la possibilità di evitare demonizzazioni indebite e essenzializzazione negative a danno degli ebrei.
La storia del “socialismo degli imbecilli” (secondo la definizione di August Bebel), ossia dell’antisemitismo di sinistra, è antica e ruota intorno a un problema: come spiegare la concentrazione di ebrei in alcuni settori dell’economia. Come riconosce lo stesso Pinotti, bontà sua, una delle origini è nel divieto di prestare a credito da parte della Chiesa, nonché nella specializzazione nel commercio di diverse persone ebree nel corso dei secolo – favorite peraltro dalla dimensione diasporica della loro identità. Analisi più fini, da Theodor W. Adorno e Max Horkheimer a Moishe Postone, spiegano l’anticapitalismo antisemita di soggetti come il socialista non marxista Pierre-Joseph Proudhon così: dato che l’estrazione del plusvalore dai lavoratori da parte del meccanismo capitalista è astratta, difficile da cogliere, si colpiscono alcuni soggetti, attribuendo soggettivamente – e razzialmente – la responsabilità di un fenomeno oggettivo a determinati individui e popoli.
Non comprate dunque il libro di Pinotti, non fate vincere la scommessa all’editore che sperava che, a forza di avvelenare i pozzi – una provocazione qui, una battuta lì, un titolo infame là –, avrebbe potuto vendere qualche copia in più sull’onda della polemica. Ci sono tanti modi per impiegare quella risorsa scarsa che è il denaro. Non dico di comprare una delle tante storie dell’ebraismo o dell’antisemitismo o delle critiche fatte bene allo stato di Israele. Risparmiate, virtù che siamo sicuri che per Pinotti è innata tanto nei capitalisti quanto in noi altri ebrei. Magari un po’ del nostro potere potrà così, tentacolarmente, diffondersi.