Eleonora Dragotto
Malgrado i suoi benefici, di cui giovano vittime e colpevoli di reati di diversa natura, in Italia fatichiamo a implementare i percorsi di giustizia riparativa a causa di cavilli normativi e diffidenza culturale.
“Quel giorno avevo tanta paura, ma quando sono entrato nella stanza, lei mi ha guardato negli occhi e mi ha stretto la mano. Io mi aspettavo che mi guardasse come si guarda un animale. Invece no”. Fabricio ricorda in questo modo l’incontro con una vittima di violenza sessuale mentre era detenuto. Lo conosco nel suo appartamento al piano terra di una palazzina dell’hinterland milanese. Indossa una tuta nera, ha capelli corvini e un modo di parlare calmo. Mi racconta di quando è stato arrestato nell’aprile del 2013 e di alcuni momenti dei nove anni che ha passato in carcere. Non ha problemi a parlare dei reati per il quale è stato condannato: rapina, sequestro e violenza sessuale. Con altre tre persone caricava su un’auto alcune sex worker, le picchiava, le derubava puntandogli un coltello e poi le portava in un appartamento dove le violentava. Oggi dice di sentirsi libero, non solo perché nel 2021 ha finito di scontare la sua pena, ma anche in virtù di un lungo percorso di giustizia riparativa nel penitenziario di Bollate. Il faccia a faccia con una ragazza vittima di reato analogo gli ha permesso di capire a fondo le conseguenze delle sue azioni.
Quello di restorative justice, in italiano giustizia riparativa, è un modello di giustizia complementare e parallelo a quello penale, che individua il cuore del reato non nella violazione di una norma, ma nel danno inferto alle vittime e, più in generale, alla comunità. Per questo il suo obiettivo non è punire il colpevole infliggendo una pena, ma concentrarsi sulle conseguenze che il reato ha avuto su chi l’ha subito.
“La giustizia riparativa nella sua sostanza è un incontro dialogico, pensato prevalentemente per venire incontro alle esigenze delle vittime di reato e immaginare percorsi di riparazione”, spiega Grazia Mannozzi, docente di diritto penale e direttrice del centro studi sulla giustizia riparativa e la mediazione all’Università dell’Insubria. Questa pratica nel nostro Paese è stata regolamentata con la riforma Cartabia, entrata in vigore con il decreto legislativo n.150 del 10 ottobre del 2022, ma continua a essere poco diffusa per diverse ragioni. Le infrastrutture – ovvero spazi dove poter svolgere i programmi riparativi – al momento sono concentrate solo in alcune parti del territorio; in altre mancano del tutto.
C’è poi un’impasse burocratica: questa legge ha stabilito che la formazione dei mediatori, le figure professionali presenti agli incontri tra vittime e autori di reato, è di competenza delle università in collaborazione con appositi centri, che però sono ancora da istituire. A ciò si aggiunge il fatto che il governo Meloni non sembra considerare i programmi riparativi una priorità. L’opinione pubblica, poi, spesso vede in queste pratiche delle concessioni agli autori di reato, frutto di un approccio buonista. Questo succede perché al termine di un programma, che può durare anche anni, il giudice è chiamato a valutare se questo abbia avuto un esito riparativo soddisfacente e, in caso affermativo, può riconoscere al colpevole un’attenuante speciale, che prevede uno sconto fino a un terzo della pena. I critici della riforma dicono, legittimamente, che il rischio è che ci possa essere un uso strumentale di questi programmi da parte degli imputati. In Paesi come il Belgio, dove questi programmi hanno una lunga tradizione e servizi ben organizzati, è però stato dimostrato che di frequente sono le stesse vittime a chiedere di potervi accedere per ottenere le risposte che il processo non è riuscito a restituire, ma anche forme di risarcimento economico.
La giustizia riparativa nel mondo e in Italia
Questo modello, che in Italia ha trovato un riferimento legislativo solo recentemente, in realtà è molto antico. Il criminologo americano Howard Zehr, considerato uno dei pionieri della giustizia riparativa, ne rintraccia le origini nelle comunità indigene del Nord America e in quelle Maori della Nuova Zelanda, che la utilizzavano per mantenere stabilità e coesione sociale. Uno degli esempi più rappresentativi nell’utilizzo di queste pratiche a livello internazionale è quello del Ruanda, dove nel 2001, sette anni dopo il genocidio in cui vennero uccisi tra gli ottocentomila e un milione di tutsi e hutu moderati, i tribunali gacaca puntarono alla riconciliazione nazionale basandosi su forme di giustizia tradizionale, che nel loro caso segue il modello riparativo.
Anche nel Sudafrica post apartheid, nel 1995, venne istituita la Commissione per la verità e la riconciliazione, un tribunale straordinario che utilizzava la giustizia riparativa per andare oltre i crimini commessi durante il regime di segregazione razziale. Mentre negli Stati Uniti, a Chicago, dal 2017, le Restorative Justice Community Courts, tribunali paralleli a quelli penali, trattano i reati non violenti commessi da giovani tra i 18 e i 26 anni con programmi che prevedono assemblee riparative. Oltre agli autori e alle vittime del reato, partecipano familiari, amici e altri membri della comunità.
“L’obiettivo della giustizia riparativa non è punire il colpevole infliggendo una pena, ma concentrarsi sulle conseguenze che il reato ha avuto su chi l’ha subito”.
Per quanto riguarda l’Italia, prima della riforma Cartabia, il modello riparativo è stato applicato soprattutto nell’ambito della giustizia minorile dalla prima metà degli anni ‘90 ed è stato alla base degli incontri, avvenuti dal 2007 al 2014, tra alcuni ex militanti delle Brigate Rosse e le loro vittime, inclusi Agnese Moro e Franco Bonisoli (rispettivamente la figlia dello statista rapito e ucciso nel 1978 e l’ex brigatista che fece parte del commando responsabile del sequestro e dell’assassinio). Tre mediatori, il criminologo Adolfo Ceretti, la giurista Claudia Mazzucato e il sacerdote Guido Bretagna, raccontano questa esperienza ne Il libro dell’incontro (Il Saggiatore, 2015).
Come si applica la giustizia riparativa
“La giustizia riparativa è flessibile perché tiene conto dei bisogni delle parti. A seconda dei casi, si ricorre a una pratica piuttosto che a un’altra”, spiega Laura Hein, policy officer dello European Forum For Restorative Justice, network internazionale il cui obiettivo è rendere accessibili i programmi riparativi a sempre più persone. Il modello più noto è quello della mediazione penale, un incontro tra vittima e autore del reato, alla presenza di mediatori.
Per la legge Cartabia il termine giustizia riparativa indica ogni programma che permette a chi è stato coinvolto in una vicenda penale (autori e vittime di reato) di lavorare sulle conseguenze che la violenza ha avuto, con l’aiuto di un terzo imparziale, definito, appunto, mediatore. Queste pratiche permettono alle vittime di esprimere le proprie emozioni e necessità e di venire ascoltate non solo come mere testimoni. Il confronto dà anche modo agli autori di reato di acquisire consapevolezza delle proprie azioni e dei loro effetti. In alcuni casi provano a riparare almeno in parte al danno provocato, ad esempio rispondendo con sincerità alle domande delle vittime.
I dialoghi tra le due parti non devono per forza essere diretti e possono svolgersi attraverso lo scambio di lettere o venendo riferiti a voce tramite i mediatori. I responsabili dei crimini possono anche incontrare vittime di reati analoghi, chiamate anche aspecifiche o surrogate, una pratica che si è diffusa molto, ad esempio, in Francia. Anche nel caso di Fabricio, non essendo possibile un dialogo con le sue vittime dirette, si è scelto di coinvolgere una “vittima dalla forte funzione rappresentativa”, come spiega il mediatore presidente della cooperativa Dike Marcello Balestrieri, che ha organizzato l’incontro.
Oltre alla mediazione penale, esistono conferenze e cerchi riparativi che comprendono più autori e vittime di reato insieme, loro familiari e altri rappresentanti della comunità. In Italia un esperimento di giustizia riparativa allargata è stato condotto dal 2012 in Sardegna, a Tempio Pausania, dopo che c’erano state diverse proteste per l’arrivo nel carcere locale Paolo Pittalis di 250 detenuti, per la maggior parte provenienti dalla criminalità organizzata. “Si era creato un conflitto tra la popolazione locale, preoccupata per la presenza di queste persone, e i detenuti, a loro volta arrabbiati perché erano stati allontanati dalle loro famiglie”, ricordano Gian Luigi Lepri e Lucrezia Perella, psicologi del team di giustizia riparativa all’Università di Sassari. Attraverso delle conferenze riparative le due parti erano riuscite a dialogare, arrivando a capire che quelli che consideravano nemici, o addirittura mostri, non erano altro che persone come loro.
In base alla legge Cartabia i programmi riparativi sono consentiti in qualsiasi fase del procedimento penale, durante e dopo l’esecuzione della pena o a seguito di una sentenza di non luogo a procedere (emessa dal giudice per l’udienza preliminare quando l’azione penale non deve, appunto, procedere). L’unica condizione perché vengano attivati è il consenso delle parti, mentre la gravità dei reati non costituisce di per sé un limite. Dopo essere stati assegnati a un fascicolo da un magistrato, i mediatori (che in base alla nuova normativa devono essere almeno due) contattano vittime, indagati o condannati e li invitano a colloqui preliminari per informarli sui principi base della giustizia riparativa, i possibili programmi, e gli esiti.
La giustizia riparativa dopo la riforma Cartabia
Nonostante l’entrata in vigore della legge Cartabia, il ricorso alla giustizia riparativa rimane però estremamente limitato. Nel 2023 l’Osservatorio dell’associazione Antigone, nel ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione, registrava la presenza di programmi riparativi, in senso ampio, in soltanto 13 carceri italiane e con poche centinaia di detenuti coinvolti. Nella prigione di Busto Arsizio (Varese), ad esempio, uno di questi programmi coinvolgeva dieci detenuti sui circa 450 presenti; a Genova Marassi 15 su 690; a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) 55 su 990.
Le ragioni di questi numeri limitati sono diverse, dai requisiti stringenti che occorrono per partecipare, fino alla preferenza che molti detenuti hanno per le iniziative che, a differenza dei programmi riparativi, permettono loro di uscire per alcune ore dai penitenziari. Spesso, Antigone, avendo a disposizione solo informazioni generiche, non ha potuto nemmeno riferire il numero esatto di persone ammesse a queste pratiche e talvolta le attività segnalate dai penitenziari poco avevano a che fare con il senso della giustizia riparativa. Ad esempio al Luigi Bodenza di Enna si parla di alcuni detenuti, alle dipendenze dell’amministrazione, che si occupano della pulizia degli uffici della direzione, un lavoro socialmente utile “con modalità tali da essere una via di mezzo tra un’assunzione a lavoro e un progetto trattamentale di giustizia riparativa”, come si legge nel rapporto.
“Le pratiche alla base della giustizia riparativa permettono alle vittime di esprimere le proprie emozioni e necessità e di venire ascoltate non solo come mere testimoni”.
Secondo Marcello Bortolato, presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze, il fatto che il modello riparativo in Italia sia poco diffuso è dovuto a ostacoli di natura esclusivamente culturale. “La giustizia riparativa rappresenta un qualcosa di rivoluzionario perché, nella sua sostanziale contrapposizione alla giustizia punitiva, mette in crisi principi consolidati e molte delle nostre certezze e soprattutto rompe quella verticalità che da sempre assiste il processo”, spiega il magistrato.
Questo tipo di giustizia è spesso guardato con sospetto sia perché pone sullo stesso piano – quello del dialogo – vittime, autori di reato e comunità, sia perché si muove al di fuori delle logiche punitive, visto che il suo focus è sulle conseguenze del reato e il suo obiettivo è unicamente quello di promuovere percorsi di riparazione. Nel paradigma riparativo manca l’idea, centrale nel nostro sistema penale, che l’unica risposta al male sia infliggere un castigo. “La giustizia riparativa sconta purtroppo diffidenze e resistenze”, continua Bortolato, “ma è una risposta alternativa che ha risvolti sociali molto positivi. Si preoccupa innanzitutto della vittima, del suo bisogno di essere riconosciuta come tale e poi è fonte di pacificazione sociale, non c’è un giudice che applica sanzioni e dispensa nuovo male”.
Nel nostro Paese il modello riparativo rimane oggetto di forti pregiudizi anche perché è poco conosciuto. Lo dimostra il caso di Davide Fontana, il bancario di 45 anni condannato in primo grado a 30 anni di carcere, per l’efferato femminicidio di Carol Maltesi, 26 anni. A settembre del 2023 i giornali hanno riportato le polemiche sulla decisione della Corte di Assise di Busto Arsizio di ammetterlo a un programma riparativo. “Sono usciti parecchi articoli con toni scandalistici, come se ciò avesse a che fare con uno sconto di pena”, ricorda Ornella Favero, direttrice della storica rivista carceraria «Ristretti Orizzonti». Alcune testate hanno riferito delle reazioni indignate dei familiari della vittima, che comprensibilmente hanno rifiutato di incontrare Fontana, senza però informare i lettori sui reali contenuti e le conseguenze delle pratiche riparative. “Siamo in una fase in cui c’è pochissima informazione e manca una ricognizione seria su ciò che sta avvenendo. Ci sono anche resistenze rispetto all’applicazione della legge Cartabia, che non è certo nelle corde di questo governo”, aggiunge la giornalista.
Ma lo scetticismo nei confronti della giustizia riparativa non riguarda solo l’opinione pubblica. “C’è tutta una cultura della riparazione da costruire nella magistratura e nell’avvocatura che tende a ergere muri temendo un vulnus nelle strategie difensive, cioè temendo che la giustizia riparativa possa compromettere il diritto di difesa”, afferma la professoressa di diritto penale Grazia Mannozzi. “Spetta alle università formare giuristi che conoscano meglio questo strumento e lo considerino una risposta possibile”.
Oltre agli aspetti legati all’informazione e alla cultura, esistono ostacoli anche molto più concreti alla diffusione del modello riparativo in Italia. “La riforma ha legittimato i programmi, ma senza che ci siano i luoghi per poterli svolgere”, spiega Mannozzi. “In Norvegia, da anni, gli uffici di mediazione sono diffusi capillarmente su tutto il territorio. Qui la presenza è stata a macchia di leopardo, con alcune regioni totalmente scoperte”. Ora che la legge Cartabia è in vigore il compito di istituire un centro per ognuna delle 26 corti d’appello spetta a regioni ed enti locali, ma è difficile capire con che tempistiche riusciranno a provvedere. Secondo Mannozzi, se la riforma avesse riconosciuto da subito alcune realtà esistenti e avesse permesso agli atenei di formare i mediatori senza dover necessariamente operare insieme ai centri, i programmi riparativi sarebbero già partiti. Nell’attesa che il lungo iter amministrativo si concluda e che nuovi spazi nascano, gli enti pubblici e le associazioni continuano a lavorare sulla base delle decisioni dei giudici o di protocolli d’intesa con l’amministrazione penitenziaria.
“Questo tipo di giustizia è spesso guardato con sospetto sia perché pone sullo stesso piano – quello del dialogo – vittime, autori di reato e comunità, sia perché si muove al di fuori delle logiche punitive”.
Un’ulteriore problematica riguarda poi i mediatori iscritti all’albo. “Con la riforma si è creato un elenco di mediatori per rendere possibile l’apertura di questi centri, ma è un elenco numericamente insufficiente: ci sono solo 359 mediatori iscritti in tutt’Italia. Questo perché i requisiti in termini di formazione ed esperienza, per fortuna, sono molto stringenti”, afferma Maria Pia Giuffrida, mediatrice e consulente scientifica dell’associazione Spondé. Troppo pochi sarebbero anche i formatori individuati, cioè i professionisti che dovrebbero occuparsi di formare i mediatori. La legge prevede poi programmi di formazione piuttosto lunghi, per questo potrebbe volerci molto tempo prima che i centri entrino nel pieno delle attività.
Al momento la conferenza nazionale per la giustizia riparativa ha fissato i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) previsti dalla Costituzione e dopo una fase di ricognizione dei centri già esistenti dovrebbero essere individuati almeno 26 uffici di mediazione, uno per ogni distretto di corte d’appello, in tutt’Italia. “Siamo in attesa di essere convocati in riunione plenaria per l’insediamento degli uffici di mediazione”, riferisce il professore di diritto dell’Università Insubria Giovanni Angelo Lodigiani, tra gli esperti della conferenza nazionale per la giustizia riparativa. L’impressione, però, è che i programmi riparativi non siano esattamente in cima all’agenda del ministero di giustizia: l’assemblea, prevista inizialmente a metà novembre, non si è ancora tenuta.
“Io non sapevo nemmeno come esprimere le mie emozioni”, racconta Fabricio. “Un lungo percorso mi ha fatto comprendere per la prima volta cosa hanno provato le persone a cui ho fatto del male. Se non l’avessi fatto, sarei rimasto interiormente prigioniero”. Se il modello riparativo riuscisse a diffondersi rappresenterebbe un importante strumento di rieducazione per gli autori di reato. Ma i benefici riguarderebbero anche e soprattutto le vittime, che potrebbero conoscere la verità sulla propria storia e, superando traumi e paure, smettere di essere tali.
Eleonora Dragotto
Eleonora Dragotto è una giornalista freelance. Dopo anni dedicati a occuparsi di cronaca milanese, scrive di temi sociali e persone ai margini.
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