"Diciannove" racconta la Gen Z senza giudicarla - Lucy
articolo

Ivan Carozzi

“Diciannove” racconta la Gen Z senza giudicarla

Prodotto da Luca Guadagnino, l’esordio di Giovanni Tortorici racconta con originalità ed efficacia una generazione a cui troppo spesso gli adulti guardano con sufficienza.

Un pregio del film Diciannove è l’orecchio, come si dice a volte di quegli scrittori e scrittrici capaci di replicare fedelmente il parlato, senza esprimere un giudizio e senza muovere da un pregiudizio. Un esempio su tutti: il modenese Walter Siti, classe 1947, che ne Il contagio riproduce il fraseggio delle nuove borgate romane, anche se in Diciannove non siamo nella truce via Vermeer di Siti, ma in luoghi apparentemente più quieti e ordinari. La storia raccontata in Diciannove – opera prima del palermitano Giovanni Tortorici, prodotta da Luca Guadagnino e presentata nella sezione Orizzonti a Venezia– si svolge nel 2015. Leonardo, il protagonista, un tizio alto alto e magro magro, con l’aria da ragazzo gentile e perbene, ha diciannove anni ed è pronto a lasciare la città di origine, Palermo, per iscriversi all’università. Se ha diciannove anni, significa che è nato nel 1996. È un Gen Z, uno di quelli che a suo tempo vennero definiti “sdraiati” (in un romanzo di Michele Serra) e dei quali si parla e si scrive spesso in merito a presunti disturbi di ansia, eco-ansia o per dipendenze varie dovute all’abuso di tecnologia. 

Negli ultimi anni, per lavoro o per studio i Gen Z sono partiti dall’Abruzzo, dalla Toscana, dalla Sicilia e si sono trasferiti a Milano, a Roma, a Bologna, a Torino. In Diciannove Leonardo compie una scelta più discreta e fuori moda: si iscrive alla facoltà di Lettere di Siena, dopo una breve e inconcludente parentesi a Londra. A Siena condivide un appartamento con due ragazze, ama la città, la sua architettura, la sua scultura, i suoi monumenti, la Torre del Mangia, ma esce poco di casa, ha zero amici, non parla granché con le coinquiline, le schiva, le evita, resta volentieri e senza grandi rimorsi chiuso in camera da letto, dove consuma pranzo e cena, costruisce la sua comfort zone e passa un sacco di tempo a fare ricerche on line, sempre in tuta e calzini di spugna. Cerca libri rari su Mare Magnum. È amante di autori desueti e dimenticati. “Dai, vai a goderti internet”, mormora la voce di una donna che deve aver intuito l’intimo ed esclusivo rapporto di Leonardo con il computer. Ciò che Leonardo digita sulla finestra di ricerca di Google toglie il velo ai suoi veri pensieri, alle sue reali ossessioni e pulsioni, al di là di ciò che nelle sue comunicazioni e interazioni dice o dissimula. Leonardo zooma sui genitali pixellati di Justin Bieber e lo spettatore, in sala, è testimone delle sue curiosità. Il monologo interiore di Leonardo contrasta con l’apparente pacatezza esteriore, come provano le note lasciate su un quaderno a quadretti. Per esempio: “Questo nuovo rap è ingurgitazione di vomito americano”; “Un colpo in fronte”; “Sono un povero disperato”.

Ma attenzione. Leonardo non è un hikikomori, un frustrato, un discepolo di Evola o un potenziale mass shooter. È solo un diciannovenne, forse uno dei tanti, tantissimi, che non trova validi motivi per mettere il naso fuori di casa e incontrare altre persone. A un certo punto l’azione si sposta. Leonardo se ne va a Milano per un weekend, a visitare il cugino. Palermitano come Leonardo, il cugino studia Giurisprudenza alla Bocconi.

“È sublime la conversazione tra i due che apre il capitolo milanese, quando Leonardo raggiunge il cugino. Il dialogo convince e seduce per il suo riuscito e magnifico naturalismo”.

Se Leonardo, benché siciliano, viene scambiato per “uno di Torino” e, per aspetto e contegno, sembra un lord inglese, il cugino, piccoletto e con i capelli rossi, ha l’aria di un paggetto preraffaellita. Si tratta di una scelta di casting non scontata. Rifiuta il cliché del meridionale olivastro e sensuale e si muove in direzione della bianchezza, una interessante bianchezza, non solo di incarnato, ma culturale, simbolica, antropologica, in risonanza con i polverosi interessi letterari e gli antiquati valori estetici coltivati da Leonardo. La camicia e bretelle indossati dal cugino per andare in discoteca esprimono un’aspirazione a diventare, prima o poi, classe dirigente. Ma il cugino è pentito di aver scelto Giurisprudenza.

È sublime la conversazione tra i due che apre il capitolo milanese, quando Leonardo raggiunge il cugino. Il dialogo convince e seduce per il suo riuscito e magnifico naturalismo. I due discutono di trap. Ne parlano con sconcerto e amarezza, come due adulti maturi che non riescono più a capire i gusti delle nuove generazioni. Eppure tra un diciannovenne e un ragazzino di 13, 14 anni, lo scarto anagrafico è minimo. E invece no. Come dire: il tempo accelera, accelera sempre di più e ogni generazione invecchia e scolora prima del tempo e prima del tempo sprofonda nell’incomprensione di un mondo che corre troppo. Siena, dice Leonardo, “è super-bella”. Il bocconiano, sorpresa, tiene sul comodino gli Scritti corsari di Pasolini, la famosa raccolta di articoli pubblicati sul «Corriere della Sera» fra il ’73 e il ’75, dove Pasolini analizza in presa diretta le trasformazioni della società italiana. “Sono super-interessanti”, dice. Forse perchè il vecchio Pasolini, con le sue riflessioni sulla mutazione antropologica, gli sembra attuale, uno scrittore che ancora oggi coglie nel segno. Leonardo non è d’accordo, è di diverso parere: non ama Pasolini. Pasolini non sa scrivere, dice.

Ma ciò che è significativo è come il disaccordo, che è tutto stilistico, viene comunicato, ovvero con imbarazzo e un timido e preliminare “secondo me”. È l’esitazione di chi è consapevole di esprimere una “unpopular opinion”. Di chi sa di avere passioni diverse da quelle che vanno per la maggiore. Sul Novecento, bisognerebbe metterci una x sopra, aggiunge. E allora per chi batte il cuore di lettore di Leonardo? Per la letteratura italiana minore del Trecento, per il gesuita Daniello Bartoli, per Pietro Giordani, per Niccolò Tommaseo e per Giacomo Leopardi. Lo ripugnano, inoltre, certi meme con l’immagine di Leopardi che gli arrivano dai compagni di corso su WhatsApp. Leonardo, insomma, vive un po’ fuori dal mondo. Non sa nemmeno che cos’è la candida e pensa che ricevere un pompino con gli occhi bendati, com’è capitato a una sua vecchia conoscenza di Palermo, è una roba da ragazzini. In conclusione, il protagonista di Diciannove ha gusti un po’ passatisti, per non dire conservatori. O forse no, è un eretico e ha ragione da vendere. Scavare nel passato è più sano che frequentare il presente.

Alberto Piccinini sul «Manifesto» e Francesco D’Alò di «Bad Taste», hanno accostato l’esordio di Tortorici a I pugni in tasca, il primo film di Marco Bellocchio. Il paragone è suggerito da una vaga somiglianza fisica tra il bravissimo Manfredi Marini, l’attore esordiente che recita nei panni di Leonardo, e il Lou Castel del film di Bellocchio. Ma se nel 1965 I pugni in tasca fu anticipatore della rivolta anti-autoritaria del Sessantotto, Diciannove è più il racconto di una rinuncia e di una sconfitta. A meno che non si vogliano prendere sul serio le passioni e l’eresia di Leonardo e provare a non giudicare ideologicamente la sua solitaria controrivoluzione.   

“È la Nouvelle Vague più la vita online, descritta con naturalezza, senza timori, attraverso il continuo dettaglio di schermi, digitazione e finestre di ricerca”.

Bellocchio o non Bellocchio, dal punto di vista visivo e formale Diciannove sembra effettivamente rifarsi alla cinematografia degli anni Sessanta e a una certa vena di sperimentalismo che aveva caratterizzato quella stagione. Gli zoom in avanti, bruschi e improvvisi, per stringere su un primo piano con effetto drammatico, gli inserti a disegni per intervallare qua e là la narrazione, i ralenti enfatici, gli incubi di una notte rappresentati attraverso  la chiave pop dell’animazione, l’uso di frasi virgolettate sovraimpresse sullo schermo come espediente per dare voce ai pensieri di Leonardo, uno strano font che un po’ ricorda quello usato nella tradizione dello spaghetti western: Tortorici, insomma, si prende la libertà di giocare con il mezzo, proprio come la generazione della Nouvelle Vague fece negli anni Sessanta – e se a quegli autori Tortorici sembra guardare con ammirazione, lo fa anche con freschezza e originalità. Lo stesso eclettismo ispira la selezione delle musiche originali, dal barocco Pergolesi e Igor Stravinskij a Ghali e Tedua, la trap di una stagione fa, mentre la sequenza di una spesa al supermercato diventa un momento alto e solenne grazie all’uso di un brano di musica classica. Si potrebbe dire che Diciannove è Nouvelle Vague più Gen Z. È la Nouvelle Vague più la vita online, descritta con naturalezza, senza timori, attraverso il continuo dettaglio di schermi, digitazione e finestre di ricerca. Ed è la vita on line che incrocia il mormorio di rivoli dimenticati della nostra letteratura.

Diciannove non è perfetto, ma è un film diverso dagli altri. Fino ai titoli di coda non rinuncia a scelte sghembe. L’ultimo personaggio del film, infatti, è una vera sorpresa. Si tratta evidentemente di un non attore. È un certo Sergio Benvenuto. Nella vita reale è uno psicanalista, filosofo e scrittore, nato a Napoli nel 1948, allievo di Roland Barthes e Lacan, Professor Emeritus di Psicoanalisi presso l’Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev.

Appare nella sua bella e grande casa, circondato da opere d’arte e di design. Investe Leonardo con un brillante, acuto, intelligentissimo monologo, che forse, però, è una sorta di ennesimo mansplaining, di racconto dell’universo mondo visto con gli occhi di un intellettuale della generazione dei baby boomer. È il Novecento che parla in faccia ai Gen Z e al nuovo secolo. Se il baby boomer non rinuncia a esprimere un giudizio implacabile sul Gen Z, il film, com’è giusto che sia, non giudica, né l’uno né l’altro, e lascia lo spettatore solo con i suoi dubbi.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è scrittore e autore. È stato caporedattore di «Linus» e ha scritto per la televisione, per la radio e realizzato podcast. I suoi ultimi libri sono Fine lavoro mai (Eris, 2022) e, assieme a Enrico Deaglio, i primi due volumi del progetto C’era una volta in Italia (Feltrinelli, 2023).

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