Benedetta Fallucchi
06 Giugno 2025
La genealogia è diventata uno strumento per ritrovare se stessi e le proprie origini, e con esse provare a ottenere un passaporto europeo. Ma l’Italia, mentre promuove il turismo delle radici, chiude l’accesso alla cittadinanza.
La prima cosa che, sbarcato nel nuovo Paese, un migrante manda a casa non è il denaro; è una storia. Così lo scrittore indiano Suketu Mehta – che nel 1977 ha lasciato l’India per trasferirsi in America con la famiglia – nel suo libro-manifesto in difesa dei migranti, Questa terra è la nostra terra.
Le storie di chi lascia il proprio paese sono diverse ma si somigliano tutte: il freddo o il caldo inattesi, la lingua inesperta che inciampa nel nuovo idioma, la traversata estenuante, l’asetticità della burocrazia. Racconti che diventano i miti fondativi delle famiglie e che, attraverso le generazioni, connettono in modo sorprendente punti lontanissimi del planisfero.
Racconti che spesso però restano avvolti da una sottile caligine, la patina del tempo o dei segreti che non vogliono essere rivelati. Poi capita che qualcuno decida di mettere alla prova le mitologie familiari, allora un particolare tipo di detective entra in gioco: è il genealogista, ovvero colui che è in grado di studiare documenti e riprodurre accurati alberi genealogici e, all’occorrenza, di spulciare registri parrocchiali e comunali, al fine di raccogliere gli indizi per confermare o smentire le intricate vicissitudini di chi ha lasciato tracce di sé in più di un continente. Si tratta di una figura conosciuta in paesi fondati sulla migrazione – come gli Usa o Israele – meno nota invece in quelle realtà che si sono pensate per lungo tempo più come luoghi di partenza che di arrivo – è il caso dell’Italia.
“Le storie di chi lascia il proprio paese sono diverse ma si somigliano tutte: il freddo o il caldo inattesi, la lingua inesperta che inciampa nel nuovo idioma, la traversata estenuante, l’asetticità della burocrazia”.
Ma, anche se non ce ne rendiamo conto, la genealogia fa già parte dei nostri discorsi: a ridosso dell’elezione di Papa Leone XIV, sono comparsi molti articoli sulle sue ramificate origini familiari, in parte creole e in parte europee. Queste notizie, a una prima occhiata, possono apparire poco più che un “gossip degli antenati” eppure illustrano bene la storia dell’America e stridono con i provvedimenti anti-immigrati dell’attuale amministrazione.
Del resto, la ricerca genealogica è qualcosa di connaturato all’identità nazionale americana. Per i mormoni, che credono nel legame eterno tra i membri di una famiglia a cavallo delle differenti generazioni, è addirittura un dovere religioso: non a caso si deve a loro un imponente database di dati genealogici, Family Search, che copre più di 170 paesi e offre più di 20,5 miliardi di documenti, e il cui primo nucleo risale al 1894. Mentre Family Search permette una consultazione gratuita dei dati, nel tempo sono nate diverse aziende che offrono servizi a pagamento: dalla consultazione di archivi alla creazione di alberi genealogici fino ai test genetici su misura.
Non stupisce che una delle più grandi sia l’americana Ancestry, che è anche una prova concreta della progressiva espansione del mercato genealogico: fondata nel 1983, con un primo sito internet nel 1996, negli anni ha visto aumentare i paesi in cui opera al di fuori degli Usa – complice anche il boom dei test del DNA nonché la partnership con il programma televisivo Who do you think you are? che coinvolge attori e personaggi dello star system come Steve Buscemi o Cindy Crawford. Nel 2020 Ancestry ha annunciato di aver raggiunto la cifra di 3.5 milioni di iscritti e, nel 2025, quella di oltre 30 miliardi di documenti nel suo database online.
Gabriele Musumeci lavora come independent contractor proprio per Ancestry. Fa questo lavoro dal 2016 e mi spiega che il compito dei genealogisti è riportare alla luce non solo la storia di una famiglia ma anche i legami che si sono persi nel processo di emigrazione: “Cerchiamo di ricucire uno strappo all’interno del tessuto familiare: spesso è uno strappo di lunga durata, che magari si è protratto per più di un secolo”. Per farlo, i genealogisti non si limitano alla consultazione a distanza di database ma vanno di persona nei luoghi indicati dai committenti, magari piccoli paesi dell’entroterra o villaggi spopolati; confrontano vecchie foto; interrogano chi è rimasto e magari ha qualche ricordo di antica data. Talvolta le trame che si dipanano sono avvincenti e complesse quanto quelle di un romanzo.
Un caso emblematico che mi racconta Musumeci è quello di S.M.
S. è una donna inglese, nata nel 1946 in una località dello Yorkshire. Da che ne ha memoria, è stata sempre etichettata come “l’italiana”, un po’ malignamente e senza un motivo apparente. Ne scopre la ragione solo in età avanzata, alla morte della madre: tra gli oggetti lasciati dalla donna, S. trova una foto che la immortala, giovanissima, abbracciata a un ragazzo, in divisa. La didascalia recita: Io con F.M. dove M. sta per un cognome italiano. Parte così la ricerca: S. nel 2019 si rivolge ad Ancestry, effettua un test del DNA e trova un primo match con un individuo dal medesimo cognome dell’uomo in foto, il quale risulta figlio del fratello di un italiano che è stato preso come prigioniero degli inglesi in Libia. Seguendo le tracce degli archivi inglesi dei Prisoners of War, Musumeci ricostruisce gli spostamenti dell’uomo: dalla Libia finisce in Sud Africa e quindi nel campo inglese di Wakefield. Lo stesso della foto con sua madre che, guarda caso, ha lavorato lì per un periodo. A questo punto, S. dà mandato ad Ancestry per una ricerca in loco, ovvero nel paese in Campania da cui il padre naturale proveniva. Musumeci, grazie a un colpo di fortuna, riesce rapidamente a mettersi in contatto con quello che parrebbe il fratellastro di S., ovvero il figlio italiano di F. M. Costui in verità era a conoscenza dell’esistenza di una sorellastra inglese poiché il padre glielo aveva rivelato, ormai adulto, negli anni Ottanta. All’epoca avevano pensato di rivolgersi alla trasmissione televisiva Portobello per ritrovarla ma poi avevano rinunciato: oggi devono ringraziare la genetica e la ricerca genealogica per aver reso possibile quell’incontro.
Chiedo a Musumeci un profilo del cliente medio di Ancestry: “Io mi occupo per lo più di Usa”, dice, “quindi mediamente si tratta di una clientela con elevate disponibilità economiche e tempo a disposizione. Le loro motivazioni hanno a che fare con il desiderio di rispondere alla domanda: chi sono? Talvolta la ricerca è retrograda, ovvero va indietro nel tempo e nell’albero genealogico; altre volte invece i clienti vogliono riconnettersi a chi è ancora in vita: con la ricerca anterograda si trovano allora i discendenti, di solito cugini di secondo e terzo grado. Ma ci sono anche altri tipi di committenti, per esempio gli studi legali che cercano parenti per eredità non assegnate o quelli che vogliono ricostruire la propria storia familiare per chiedere poi la cittadinanza italiana”. Magari il proposito di diventare italiani nasce in seguito alle ricerche e da una sorta di “familiarità con l’Italia”, una specie di “ritorno a casa”: “Mi è successo di recente con una signora texana che, dopo aver rintracciato le sue origini pugliesi, ha deciso di prendere la cittadinanza e trasferirsi a Bisceglie. Proprio l’altro giorno l’ho sentita e mi ha detto, tutta entusiasta, che il mio lavoro le aveva cambiato la vita: ‘chi l’avrebbe mai immaginato’, mi ha detto, ‘che nel giro di un anno mi sarei ritrovata a Bisceglie a mangiare ricci?’. Quello che mi impressiona sempre è proprio il fatto che il nostro lavoro di ricerca si traduca in scelte così radicali, in atti che, appunto, ricuciono lo strappo di cui abbiamo parlato”, mi dice Musumeci.
È il potere delle narrazioni cui alludeva Mehta. Un potere che, però, ha una doppia faccia: può unire i continenti, ma anche dividerli. Esiste anche un racconto delle migrazioni completamente spostato sul baricentro della catastrofe anziché su quello della possibilità: è ancora Mehta a sostenere che il dibattito sulla migrazione è una “gara di storytelling” e che i populisti spesso non sono altro che storytellers molto dotati.
Da un lato quindi abbiamo l’epica di quanti lasciarono l’Europa in povertà sul finire del XIX secolo e l’inizio del XX, le loro sofferenze a causa di discriminazioni e pregiudizi che diventano il viatico verso il riscatto, il successo; dall’altro, abbiamo le parole con cui oggi vengono descritti i migranti provenienti da Paesi non occidentali, intessute di paura e insofferenza. Possibile che non riusciamo a vedere tra loro dei nuovi Sacco e Vanzetti, ma solo potenziali stupratori e criminali?
Lo scorso novembre la presidente del consiglio Meloni ha detto: “C’è un’incidenza maggiore, purtroppo, dei casi di violenza sessuale da parte di persone immigrate” – nascondendo in modo capzioso dietro a una frase apodittica la difficoltà di lettura dei dati disponibili (peraltro non aggiornati), i quali mostrano semmai come siano ancora poche le denunce per reati sessuali: più facile prendersela con lo straniero piuttosto che con il marito, il padre di famiglia. Analoghi commenti sono stati espressi da altri membri del governo, come Salvini o Valditara.
È un doppio standard che, mentre mitizza le passate migrazioni, tende ad accanirsi contro le attuali.
L’esecutivo italiano, soprattutto il suo partito principale Fratelli d’Italia, non è esente da ambiguità quando si tratta di maneggiare i concetti di origini, sangue, discendenza – così sensibili e ricchi di implicazioni ideologiche nonché pratiche. La cultura di destra si puntella da sempre su questi costrutti, a partire da Spengler fino ad arrivare a Steve Bannon e Trump.
Il governo Meloni ha dichiarato il 2024 “anno delle radici italiane nel mondo” e ha implementato una serie di iniziative volte a incrementare il numero dei turisti stranieri che visitano l’Italia cercando di ricostruire la propria genealogia familiare.
D’altra parte, giusto un anno dopo, nel marzo 2025, lo stesso esecutivo ha raffreddato l’entusiasmo e l’attaccamento di molti discendenti di oriundi italiani modificando in senso restrittivo i criteri per ottenere la cittadinanza italiana. Fino a oggi, in virtù dello ius sanguinis, era possibile per costoro avviare l’iter dimostrando di avere un antenato, anche remoto, emigrato dall’Italia, a patto che nessuno lungo la linea di discendenza avesse perso la cittadinanza; adesso devono dimostrare di avere un genitore o almeno un nonno italiano: si arriva dunque al massimo al secondo grado di discendenza.
Secondo Musumeci, in questa decisione c’è una ratio più pragmatica che ideologica: gli uffici di stato civile erano oberati di pratiche da evadere.
A guardare i numeri, ci si accorge in effetti che le acquisizioni di cittadinanza per italodiscendenti rappresentano un fenomeno considerevole: il report dell’Istat sui cittadini non comunitari del 2023 mostra il significativo incremento di procedimenti iure sanguinis nel 2023 rispetto al 2021 (+241%) e al 2022 (+31%).
«Il sole 24 ore» ha tentato di darne una mappatura e ha stimato, aggregando dati degli enti locali e dei consolati italiani all’estero, che solo nel 2023 le cittadinanze ottenute per discendenza sono state 190.000, superando quelle ottenute con le altre modalità – un numero enorme se confrontato ai circa 7.000 del 2016.
Sempre secondo l’Istat, un caso che salta agli occhi è quello degli argentini, che hanno visto crescere in modo esponenziale i casi di acquisizione di cittadinanza: passando da meno di 4mila nel 2021 a oltre 16mila nel 2023 e collocandosi al terzo posto in valore assoluto della graduatoria per singolo Paese. Molti anche i brasiliani; non molto tempo fa il piccolo comune di Zoldo, in provincia di Belluno, ha comunicato in modo singolare di essere sommerso dalle pratiche di iscrizione degli italo-brasiliani che vantano trisavoli italiani: il sindaco ha fatto esporre fuori dal municipio la bandiera brasiliana – un modo colorito per alzare bandiera bianca.
Pochi di questi nuovi italiani risiedono davvero in Italia. Il ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani, ancor prima dell’approvazione del decreto nel 2025, aveva parlato della necessità di ripensare l’acquisizione della cittadinanza italiana iure sanguinis per limitare una pratica strumentale volta esclusivamente al possesso del passaporto italiano – che è, in effetti, uno dei più “forti” al mondo, secondo l’Henley index 2025.
Elena Gissi è una genealogista indipendente e gran parte della sua clientela è formata da sudamericani aspiranti italiani. Il decreto approvato dal governo Meloni ha creato sconcerto tra di loro, nessuno se lo aspettava, mi racconta. Gissi mi dice che molti di questi clienti sono genuinamente interessati alle loro radici e sentono di avere un legame speciale con il nostro paese, ma mi conferma che in tanti vogliono soltanto recuperare i documenti che servono per il passaporto italiano: “L’obiettivo finale, infatti, non è trasferirsi in Italia, quanto ottenere un passaporto europeo con cui viaggiare nel mondo per lavoro o per studio. C’è chi vuole studiare negli Usa, chi già vive e lavora in altri paesi come l’Irlanda o la Germania. Si tratta spesso di persone con redditi medio-alti, che possono permettersi di pagare dei servizi onerosi come quelli dei genealogisti; certo non sono gli extra-comunitari a cui si pensa quando si discute di cittadinanza, questa è gente che fa un investimento, per sé o per i propri figli”.
Gissi mi spiega anche che, nel caso dei Paesi sudamericani, per i discendenti risalire con precisione alla propria origine è quasi sempre un vero grattacapo: “Mentre la schedatura di Ellis Island era minuziosissima, chi arrivava in Sud America dichiarava soltanto di essere italiano. In molte occasioni il mio lavoro è stato proprio quello di ricostruire il luogo da cui gli emigrati venivano: spesso nei documenti si legge ‘Genova’ non perché provenissero tutti da lì ma perché era il porto di partenza. Queste indagini con il decreto recentemente approvato cambieranno, o non saranno necessarie: è abbastanza facile risalire al luogo di nascita di un genitore o di un nonno; come non servirà più andare troppo indietro nel tempo, addirittura recuperare documenti antecedenti all’Unità d’Italia”.
Facundo Montero, 28 anni, di Córdoba, Argentina, per esempio mi racconta che il suo trisavolo Francesco Aquiles Maspero era fuggito dall’Italia in Argentina dopo aver combattuto contro gli Austriaci nelle Cinque giornate di Milano nel 1848. Tre anni fa Montero ha intrapreso un viaggio che lo ha condotto a Cantù, in Lombardia, dove ha riallacciato i contatti con quel ramo della famiglia italiana. Mi dice che quell’esperienza ha modificato la sua prospettiva tanto da voler avviare la pratica per la cittadinanza: “Dopo un’intensa ricerca sono riuscito a raccogliere tutti gli atti di nascita, matrimonio e morte necessari, soddisfacendo i requisiti. Ero pronto, con la documentazione in mano, quando il decreto del Ministro degli Affari Esteri ha cancellato la mia possibilità di ottenerla per la via che mi spettava”.
Oppure c’è il cliente di Gissi che voleva risalire al proprio avo, morto nel 1862 all’età di 104 anni – dunque ancora vivo al momento dell’Unità d’Italia, che era il requisito per avviare la procedura. La genealogista confessa: “Io stessa mi sono chiesta: considerando che il suo antenato è nato nel 1758, quale collegamento può esserci tra questa persona e l’Italia?”.
Eppure, sempre secondo Gissi, è improprio parlare di abusi, poiché, fino al decreto, si trattava di un diritto consentito dalla legge. Gissi mi chiede a metà tra il serio e il provocatorio: è vero che i comuni sono stati oberati, è vero che a volte la connessione con l’Italia era lasca, ma perché non pensare di “mettere a reddito” questo settore, magari imponendo una tassa più elevata?
Il ministro Tajani aveva parlato di abusi e aveva proclamato: “Essere cittadino italiano è una cosa seria”, alludendo proprio a quei casi in cui non c’è un legame effettivo e riscontrabile tra i discendenti e il nostro Paese. Ma se la cittadinanza è una cosa seria, perché allora non concederla in modo più rapido a chi in Italia vive, cresce, studia e lavora da anni? (sarebbe utile chiederlo allo stesso Tajani, che seppure di vedute più larghe in materia, ha poi invitato ad astenersi all’imminente referendum).
La storia dei migranti che diventano italiani troverebbe un punto di approdo sicuro: non necessariamente definitivo – forse la migrazione è un fenomeno consustanziale all’umanità – ma almeno giusto. Tanto più se consideriamo che molti dei Paesi di origine dei migranti odierni hanno alle spalle un passato di colonizzazione, o un presente di sfruttamento da parte dell’Occidente. Allora – usando di nuovo una frase di Mehta – chi arriva ha tutto il diritto di dire: “Noi siamo qui perché voi siete stati lì”, e, aggiungiamo, ha tutto diritto di vedersi garantita la partecipazione ufficiale alla comunità di cui è già parte attiva.
Alle generazioni future di genealogisti spetterà il compito di tracciare sul planisfero le nuove linee di congiunzione tra gli Stati e raccontarci un’altra volta quelle narrazioni che oggi ci rifiutiamo di ascoltare.
Benedetta Fallucchi
Benedetta Fallucchi è giornalista, scrittrice e lavora nella sede di corrispondenza romana del maggiore tra i quotidiani giapponesi. Il suo primo libro è L’oro è giallo (Hacca, 2023).
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