Il popolo non esiste più. La Cina secondo Yu Hua - Lucy
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Giada Messetti

Il popolo non esiste più. La Cina secondo Yu Hua

Un'intervista a uno dei più importanti autori cinesi che, nei suoi romanzi crudi e implacabili, racconta un Paese in perpetuo cambiamento.

I suoi libri sono pieni di violenza, miseria, ingiustizie, follia, ma al tempo stesso sono ricchi di amore e amicizia, della forza dei legami familiari e di una densa e profondissima umanità. Yu Hua è l’autore-osservatore ideale da cui partire per avvicinarsi alla letteratura cinese contemporanea, andando oltre gli sterili luoghi comuni che finiscono per ingessare l’idea di Cina di molti occidentali

Il suo nome appare spesso nella rosa dei favoriti per il Nobel, e in Cina è ormai famosissimo grazie anche alla sua partecipazione al popolare reality show “Leggo su un’isola”, in cui quattro scrittori si trovano a gestire una libreria sull’isola di Hainan, mentre parlano di romanzi e scrittura. Al Salone del libro di Torino, qualche settimana fa, gli organizzatori sono stati costretti a cambiare all’ultimo minuto la sala per la presentazione del suo La città che non c’è: centinaia di giovani cinesi e italiani armati di cellulari, infatti, l’hanno preso d’assalto, come una rockstar. 

La prima volta che l’ho incontrato, ci siamo visti a Pechino. Era il 2009, l’anno successivo alle Olimpiadi. La Cina aveva appena dimostrato al mondo di essere una grande potenza mondiale – una fase molto diversa da quella odierna. In quell’occasione, profeticamente, Yu Hua predisse una serie di fenomeni che poi si sono effettivamente realizzati. Per esempio, l’alta disoccupazione giovanile. I giovani di quegli anni, mi disse mentre beveva the verde nel suo appartamento, non avevano vissuto periodi di difficoltà come quelli della sua generazione. Quando si laureeranno, profetizzò, si accorgeranno che non si trova lavoro, scopriranno che questo Paese è diverso dall’ideale che hanno studiato a scuola e cominceranno a interrogarsi sulle sue tante contraddizioni. Mi disse: “Io credo che quando arriverà questo momento, e a mio avviso non manca molto, il nostro Paese attraverserà una nuova fase di grande cambiamento”.

A distanza di quindici anni, qualche giorno fa, incontro nuovamente il suo sguardo e le sue parole. “Dopo la Rivoluzione Culturale degli anni Sessanta-Settanta, la scelta di fare le riforme e aprirsi al mondo era l’unica via possibile per la Cina, e lo è ancora oggi, perché ciò che da allora unisce il popolo cinese è il miglioramento costante della qualità della vita”, mi dice. “La Cina di oggi è piena di difficoltà e piena di vitalità allo stesso tempo. Ora l’economia cinese è entrata in un periodo di mutazione. Il modello di sviluppo del passato non è più sostenibile e stanno emergendo diversi problemi. Questa fase di trasformazione è molto complessa e determinerà la direzione della Cina nei prossimi dieci o vent’anni”. 

“I suoi libri sono pieni di violenza, miseria, ingiustizie, follia, ma al tempo stesso sono ricchi di amore e amicizia, della forza dei legami familiari e di una densa e profondissima umanità”.

Ai periodi di transizione dell’economia e ai grandi cambiamenti che hanno travolto la società cinese nel Novecento Yu Hua ha dedicato tutta la sua opera letteraria. Ha iniziato a pubblicare negli anni Ottanta, nel momento in cui la Cina si è aperta ai flussi commerciali e culturali provenienti dall’esterno, e non ha più smesso. “Dopo aver letto Cent’anni di solitudine di Marquez, ho sempre avuto l’idea di scrivere un romanzo che raccontasse un secolo di storia cinese, ma mi sono reso conto che per farlo avrei dovuto scrivere un libro molto più lungo di Guerra e pace, quindi ho preferito procedere per gradi”. I suoi primi romanzi raccontano la Cina dagli anni Trenta ai giorni nostri. In La città che non c’è, uscito per Feltrinelli il 7 maggio con la preziosa traduzione della sinologa Silvia Pozzi, Yu Hua parla invece di un’epoca storica che non aveva mai sfiorato in precedenza e sembra voler completare il suo grande affresco: i due protagonisti Lin Xiangfu e Xiaomei sono immersi nella Cina dell’inizio del Ventesimo secolo, dopo il crollo dell’impero dovuto alla fine della dinastia Qing (1911) e alla nascita della Repubblica (1912), un periodo di anarchia durato circa 15 anni.

Lotte intestine, eserciti allo sbando, razzie, torture di briganti fanno da sfondo alla vita dei personaggi e al loro essere vittime della società spietata in cui vivono, ma nonostante questo, come in tutte le opere di Yu Hua, c’è spazio per l’ironia, l’umanità e la dolcezza, fino ad un epilogo che regala al lettore pagine di grande commozione. “Il periodo al centro del mio ultimo romanzo ha segnato l’inizio della Cina moderna. Conoscere la fase storica seguita alla caduta dell’Impero aiuta a capire meglio la storia successiva del mio Paese. È stato un tempo di disordini, ma anche di grande apertura. C’è stato l’incontro con il pensiero giapponese e con il pensiero occidentale. L’ideologia comunista è arrivata da lì. Senza quel particolare momento storico la Cina di oggi sarebbe diversa”.

Yu Hua è nato nel 1960 ed è cresciuto in una piccola città chiamata Haiyan, nella provincia meridionale dello Zhejiang, zona che ha dato i natali a molti intellettuali cinesi tra cui lo scrittore Lu Xun, definito il padre della letteratura cinese moderna. All’epoca, la Repubblica Popolare era reduce dalla grande carestia seguita alla campagna del “Grande Balzo in avanti” lanciata da Mao Zedong nel 1958 ed era un Paese estremamente povero. «Chi è nato all’inizio degli anni Sessanta come me in Cina ha vissuto tante vite come nessun’altra generazione. Tra gli anni Sessanta e Ottanta abbiamo attraversato un periodo di estrema povertà e oppressione, poi abbiamo vissuto una fase di crescente ricchezza e libertà. È come essere passati dall’Europa medievale all’Europa moderna in soli 40 anni”.

La madre e il padre di Yu Hua erano entrambi medici, lavoravano nell’ospedale vicino a casa ed erano sempre impegnati. Il piccolo Yu Hua ha trascorso la sua infanzia in solitudine o in compagnia del fratello più grande. Ai due capitava spesso di trascorrere la notte da soli, chiusi a chiave in una stanza. Vivevano accanto a un bagno pubblico (fino agli anni Novanta in Cina non esistevano i servizi all’interno delle abitazioni), nei cui locali non era raro che le infermiere scaricassero gli scarti delle sale operatorie ospedaliere, come i tumori asportati durante gli interventi chirurgici. Yu Hua, quindi, fin da bambino si è abituato alla vista del sangue, degli organi del corpo umano e al loro odore. Ha acquisito presto familiarità anche con la morte, perché di fianco a casa sua c’era l’obitorio di zona in cui si rifugiava per riposarsi e proteggersi dal caldo afoso dell’estate. 

L’infanzia di Yu Hua si è intrecciata con un momento molto particolare della storia della Repubblica Popolare Cinese. Nel 1966, infatti, Mao Zedong, per riprendere il controllo del Partito Comunista, lancia la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (Wuchanjieji Wenhua Dageming), che per i successivi dieci anni ha gettato il Paese nel caos, causando una guerra civile. Milioni di giovani Guardie Rosse sono state incaricate di eliminare completamente i “quattro vecchiumi”, un termine che indica l’insieme delle vecchie idee, della vecchia cultura, delle vecchie abitudini e dei vecchi comportamenti. Si sono macchiate dei crimini più atroci: hanno picchiato, hanno umiliato pubblicamente e hanno ucciso concittadini innocenti, saccheggiato le case delle famiglie benestanti, distrutto il patrimonio culturale cinese. Si stima che il numero di persone perseguitate o imprigionate in questo decennio si aggiri intorno ai 30 milioni, e il numero delle vittime sia stato poco inferiore a 1,5 milioni.

Nelle interviste rilasciate negli anni, Yu Hua ha spesso ricordato come la vita in quella temperie fosse generalmente monotona, tranne quando un presunto criminale veniva giustiziato nella pubblica piazza: “l’intera città si trasformava e diventava vivace come durante le feste. Le scene più emozionanti della mia infanzia erano quelle in cui c’era un criminale inginocchiato a terra con un soldato che gli puntava un fucile alla nuca e gli sparava”. Ha più volte dichiarato che la violenza è una costante nei suoi scritti proprio perché strettamente legata alla sua esperienza di vita.  

Durante gli anni della Rivoluzione, la cultura era un problema. I libri erano ritenuti “erbacce velenose” e venivano bruciati. I pochi che sopravvivevano circolavano senza le prime e le ultime pagine: “non avevo altra scelta che inventarmi da solo un finale, e questo si è rivelato una benedizione, perché ho allenato la mia immaginazione fin dalla tenera età”. L’autore fa risalire la sua prima vera esperienza letteraria alla lettura dei Dazibao, i manifesti affissi sui muri delle città e dei villaggi, pieni di propaganda e attacchi ai “nemici del popolo”. “Erano pieni di bugie, accuse e denunce. La Rivoluzione Culturale ha fatto emergere tutto il potenziale della forza immaginativa cinese, perché le persone si inventavano continuamente crimini le une contro le altre. Ricordo che portavo con me la borsa dei libri tornando a casa da scuola e, mentre camminavo, mi fermavo a leggere ogni poster. Non ero interessato agli slogan rivoluzionari, ma ai dettagli con cui venivano raccontati e descritti i vari crimini”, ha detto nel 2009 al «New York Times».

Comincia a lavorare come dentista nel 1977, un anno dopo la morte di Mao Zedong, ma nel 1983 si licenzia. Nel 2004 ha confessato che quel lavoro non gli era mai piaciuto, perché “guardare dentro la bocca delle persone è lo spettacolo peggiore del mondo”. Inizialmente scrive di notte e di giorno estrae molari, poi finalmente la rivista mensile «Beijing Literature» pubblica un suo testo e lui ottiene il permesso governativo di lasciare il suo impiego di odontoiatra per lavorare presso gli uffici culturali delle istituzioni cittadine. “Allora tutti ricevevamo lo stesso stipendio, dal medico all’impiegato; quindi ho rinunciato a fare il dentista per lavorare nel centro culturale senza soffrire nessuno stress emotivo o economico”.

I primissimi scritti risentono della grande passione di Yu Hua per lo scrittore giapponese Yasunari Kawabata e sono caratterizzati da uno stile lieve e malinconico, che si trasforma dopo il 1985, quando, grazie al suggerimento di un amico, Yu Hua legge Kafka e arricchisce la sua scrittura di dramma, violenza e brutalità per riflettere il lato più oscuro della natura umana, senza mai, però, essere giudicante. Nel 1992 esce quello che si rivelerà il suo primo grande successo editoriale. Vivere racconta la vita del figlio di un ricco proprietario terriero che va in rovina dopo aver perso tutta la sua fortuna al gioco. La sua storia attraversa le tragiche vicende della Cina dagli anni Quaranta agli anni Ottanta del Novecento: guerre, carestie, la Rivoluzione Culturale e i grandi cambiamenti economici dovuti alle riforme e all’apertura di Deng Xiaoping. Perde tutti i suoi affetti, ma nonostante questo mantiene un atteggiamento positivo nei confronti dell’esistenza. Vivere diventerà anche un film di Zhang Yimou, acclamato dalla critica e vincitore del Grand Prix al Festival di Cannes del 1994. 

“Inizialmente scrive di notte e di giorno estrae molari, poi finalmente la rivista mensile «Beijing Literature» pubblica un suo testo e lui ottiene il permesso governativo di lasciare il suo impiego di odontoiatra”.

In Cronache di un venditore di sangue (1995) Yu Hua – narrando le peripezie di Xu Sanguan, che è costretto a vendere il suo sangue per sopravvivere e sostenere la famiglia durante gli anni in cui Mao Zedong è al potere (pratica diffusa in Cina fino a non molto tempo fa) – consolida il suo stile letterario capace di spaziare dal tragico al comico, dal violento al grottesco e dall’ironico al commovente. Sarà il marchio di fabbrica di tutte le sue opere successive. Brothers, pubblicato in due volumi usciti nel 2005 e nel 2008, descrive cinquant’anni di vita di due fratellastri, fino agli anni 2010, e già dalle prime pagine dimostra di essere la consacrazione della personalissima forma espressiva tragicomica e paradossale di Yu Hua. I caratteri dei due protagonisti Song Gang e Li Testapelata vengono introdotti grazie ad un paragone con quelli dei rispettivi padri: “tale padre, tale figlio”. Song Gang è bravo e onesto, mentre Li Testapelata svela la vera natura di teppistello quando a 14 anni viene beccato nei bagni pubblici a guardare il sedere di cinque donne. Suo padre naturale, morto il giorno della sua nascita, infatti, è “affogato nella fossa di scolo dei gabinetti pubblici, dove era scivolato mentre spiava, imprudentemente, il deretano delle donne”. 

Segue un’esilarante disamina sull’abbondanza di immagini di sederi di donne reperibili nella Cina capitalista di fine anni 2000, paragonata all’epoca in cui erano un tabù: “[di sederi delle donne] oggi ce ne sono di tutti i tipi: d’importazione e made in China, bianchi, neri e marroni, grandi, piccoli, enormi, secchi, lisci, ruvidi, giovani, vecchi, veri, finti. Un’autentica festa per gli occhi, tanto che i due che abbiamo non bastano. Oggi il sedere delle donne non vale più un fico secco. Ti stropicci gli occhi e ne vedi uno, fai uno starnuto ed eccone un altro, sei per strada, svolti l’angolo e per poco non ne calpesti un terzo. Ma una volta era un tesoro che valeva più delle pietre preziose, dell’argento e dell’oro. Una volta lo si poteva vedere solo di nascosto, nei gabinetti pubblici”. 

Anche nelle pagine di Il settimo giorno (2015) il grottesco, l’assurdo e il metaforico travolgono il lettore. Nell’incipit del romanzo, il protagonista Yang Fei riceve una telefonata dalla camera ardente. Gli addetti pronti ad eseguire la sua cremazione sono scocciati per il suo ritardo. In un lasso di tempo di sette giorni – in Cina si crede che l’anima dei morti, prima di lasciare il mondo dei vivi, rimanga sulla terra una settimana (da qui il titolo del romanzo) – il protagonista incontrerà conoscenti e non, anch’essi morti, protagonisti di storie tragiche e cupe. Le avventure di Yang Fei prendono spunto dalla cronaca e diventano per Yu Hua un escamotage per rivelare i soprusi e le prevaricazioni della Cina contemporanea: la corruzione delle autorità, la povertà, il consumismo incontrollato, le demolizioni forzate delle abitazioni etc. Nell’aldiquà, le persone sono sole e abbandonate, ed è la morte, paradossalmente, a offrire loro la possibilità di capire l’importanza della solidarietà e del senso di comunità.

La potenza dell’opera di Yu Hua vive nell’incredibile capacità di restituire un resoconto sfrontato e crudo della realtà, rielaborata attraverso i suoi ricordi e la sua esperienza di vita. È il motivo per cui lo scrittore non ha mai pensato di lasciare il suo Paese, perché, dice, “solo stando in Cina è possibile sentire e raccontare i cambiamenti della società cinese”. I suoi personaggi sono travolti dalla Storia e dai suoi vertiginosi stravolgimenti, e cercano di rimanere a galla nonostante le storture e le ingiustizie. 

Il popolo non esiste più. La Cina secondo Yu Hua -

Lo sguardo dell’autore è crudo e implacabile, ma anche pieno di misericordia; e forse è per questo che, nonostante la feroce critica della società cinese, i suoi libri hanno sempre superato la censura governativa. Tranne una volta. Il saggio La Cina in dieci parole, uscito nel 2011, in Cina non è reperibile perché inizia citando il massacro di piazza Tiananmen del 1989, per condannare il processo che nei decenni ha portato la parola “popolo” a svuotarsi di significato, un grande tradimento: “In passato era una parola importantissima: il nostro Paese è la ‘Repubblica del popolo cinese’, il presidente Mao diceva di ‘servire il popolo’ e il ‘Quotidiano del popolo’ era il giornale più importante. E noi, che appartenevamo al popolo, ripetevamo, ogni giorno: ‘Dal 1949, comanda il popolo’. Quando ero piccolo, ‘popolo’ era una parola portentosa, esattamente come ‘presidente Mao’, le prime due cose che ho imparato a leggere, solo in un secondo tempo ho imparato il mio nome e quello dei miei genitori. […] Credo che piazza Tiananmen sia stata lo spartiacque per una totale ridefinizione di ‘popolo’ e, se si preferisce, il ‘popolo’ ha subìto una riorganizzazione del capitale, visto che è stato privato del suo significato precedente per dare spazio a contenuti diversi. Nei quarant’anni trascorsi dall’inizio della Rivoluzione Culturale a oggi, ‘popolo’ nella realtà cinese sembra un termine vuoto”.

Quando gli ho chiesto del suo rapporto con la censura, mi ha risposto: “il segreto è non pensarci mentre scrivo, perché altrimenti non sarei in grado di lavorare. Se poi riuscirò a farmi pubblicare l’opera una volta finita, è tutta un’altra questione”.
 

Giada Messetti

Giada Messetti è sinologa e autrice Tv. Il suo ultimo libro è La Cina è già qui – Perché è urgente capire come pensa il Dragone (Mondadori, 2022). Ha condotto la trasmissione CinAmerica, disponibile su Raiplay.

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