Il problema della mente - Lucy
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Paolo Pecere

Il problema della mente

Come nasce il pensiero? Perché sogniamo? Cosa ci distingue dagli animali? Il mistero della mente è antico quanto l'essere umano, eppure la sua natura continua a sfuggirci.

“L’uomo conosce sé stesso conoscendo altre cose” 

I. Kant

“Come posso sapere cosa penso finché non vedo cosa dico?” Sono parole dello psicologo britannico Graham Wallas, in The Art of Thought (1926), che rovesciavano la tesi di senso comune secondo cui la propria mente è la cosa più intima e trasparente.

È una convinzione radicata nella tradizione filosofica: per conoscere la propria anima basta volgersi “all’interno dell’uomo”, scrive Agostino. Non deve sfuggire il paradosso: si parla di scrutare quello che siamo come fosse un oggetto, altro da noi. Ma che cos’è la mente e come la conosciamo, in noi e negli altri? Impossibile riassumere in poche righe millenni di indagini sul tema, ma proverò a fissare alcuni punti.

Fin dall’antichità, l’attività umana di pensiero è stata fatta risalire a un’entità fisica, ma al tempo stesso si è spesso sostenuto che esista anche un principio del pensiero che trascende il corpo e può sopravvivere a esso.

Per esempio, nella Grecia antica la psyché (che traduciamo “anima”) è originariamente ‘soffio’, ‘respiro’, sostanza aerea che rende possibile la vita, ma alcune tradizioni sapienziali e filosofiche la considerano distinta dal corpo e immortale. Nella Cina antica, il po’o è un principio materiale scaturito dallo sperma, lo hun è il principio dell’intelligenza, che si sviluppa solo a un certo punto dello sviluppo e può sopravvivere al corpo. 

Nella filosofia europea, con la formazione e il consolidamento della nuova fisica meccanicista (da cui discende la fisica odierna), si ripropone il problema di come l’anima sussista in un mondo fatto di particelle materiali.

Cartesio preferisce parlare di “mente”, non di anima, per sottolineare che non si tratta più del principio della vita: le funzioni vitali di un corpo infatti si possono spiegare con le leggi del movimento della materia, senza chiamare in causa alcuna anima; ma la mente cosciente – la “cosa pensante” che ”dubita, intende, afferma, nega, vuole, non vuole, immagina, inoltre, e sente” – è essenzialmente diversa dalla materia. 

Cartesio è ancora legato all’idea dell’interiorità come dimensione perfettamente accessibile ed evidente, e considera la mente come una sostanza immateriale, distinta dal corpo anche se unita a esso. Ma anche quando queste tesi sono state messe in dubbio o accantonate, scienziati e filosofi hanno continuato a trovare difficile, se non impossibile, capire come un processo fisico possa dar luogo all’esperienza soggettiva.

Nel tardo Ottocento, il pensatore darwinista Thomas Huxley esprimeva così la difficoltà: “Come avvenga che qualcosa di così sorprendente come uno stato di coscienza sia il risultato della stimolazione del tessuto nervoso è tanto inspiegabile quanto la comparsa del genio quando Aladino, nella favola, strofina la lampada”.

Questa distinzione tra la mente cosciente (o esperienza) e i processi cerebrali, oggi ancora diffusa, sembra presupporre che si tratti di realtà distinte, benché associate. Le cose quindi andrebbero così: la nostra propria esperienza ci darebbe l’idea di cosa intendiamo per processi mentali; in seguito, a partire dalla conoscenza immediata della nostra mente, attribuiremmo la mente agli altri.

In particolare, poiché la mente degli altri esseri non si presenta ai sensi così come fanno i corpi, dobbiamo sempre inferirne l’esistenza a partire da alcune specie di fenomeni fisici: il comportamento, l’espressione linguistica, la somiglianza del corpo o del cervello. In questi casi, però, è facile trovare motivi (spesso infondati) per dubitare che gli altri abbiano qualcosa di simile alla nostra mente. 

Questa prospettiva contrappone ancora la trasparenza della propria mente all’opacità e all’accessibilità solo indiretta delle altre menti: la prima si conosce immediatamente, le seconde devono essere inferite e interpretate.

È questo il tipo di premessa che la frase citata all’inizio intendeva mettere in discussione, e ci sono buone ragioni per farlo. Per introdurle racconterò alcune storie esemplari di rapporto con le altre menti, tornando infine al problema di conoscere la propria.

Quando Cristoforo Colombo approdò in America e incontrò gli uomini che abitavano quelle terre non dubitò che avessero una mente come la sua, benché non vestissero come lui e non ne comprendesse la lingua. Eppure, quando negli anni successivi si aprì una controversia intorno alle violenze commesse sugli indios – come in Europa si chiamavano quelle popolazioni – molti sostennero che la loro mente era diversa da quella umana.

“Questa distinzione tra la mente cosciente (o esperienza) e i processi cerebrali, oggi ancora diffusa, sembra presupporre che si tratti di realtà distinte, benché associate”.

Secondo il resoconto d’epoca dello storico Pietro Martire D’Anghiera (1511), i conquistatori li consideravano come “animali non razionali”, perciò li facevano a pezzi come carne da macello. Questo linguaggio implicava che l’anima degli indios fosse simile a quella degli animali non umani (“i bruti”, “le bestie”), che secondo la filosofia scolastica mancavano di ragione.

Nel 1550, a Valladolid, ebbe luogo perfino una pubblica controversia tra il filosofo scolastico Ginés de Sepulveda e il domenicano Bartolomé de Las Casas sul tema dell’uguaglianza o ineguaglianza naturale tra indios e spagnoli. Per Sepulveda, gli indios erano inferiori agli spagnoli ”come i bambini sono inferiori agli adulti e le donne agli uomini […] la stessa differenza, oserei dire, che intercorre fra le scimmie e gli uomini”. Perciò gli indios si potevano considerare così come Aristotele aveva considerato gli altri animali: “schiavi per natura”.

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La tesi dell’ineguaglianza giustificava non soltanto la schiavitù, ma anche il genocidio che cominciò subito dopo l’arrivo degli Europei. Tra le cause di quel genocidio vi furono le violenze commesse dagli spagnoli, denunciate da de Las Casas e documentate da altri testimoni e protagonisti.

I resoconti di quelle violenze – torture e massacri a sangue freddo – oggi ci sembrano abominevoli e a tratti incredibili. Ci vollero interventi delle autorità per ispirare, se non pietà, almeno moderazione. Soltanto nel 1537, una bolla papale di Paolo III stabilì che gli indios erano “uomini come tutti gli altri”. 

Tzvetan Todorov, che analizzò queste discussioni in un libro memorabile, La conquista dell’America (1982), accostò questa degradazione degli indios alla mancata percezione dell’“altro” da parte degli Europei.

Colombo stesso oscillava tra due atteggiamenti: li considerava identici, per cui gli indios erano descritti schematicamente come “buoni”, o a volte “cattivi”, comunque anime ingenue in attesa della rivelazione cristiana (lo stesso faceva perfino il loro difensore de Las Casas); oppure inferiori, e potenzialmente “buoni servitori”.

Quello che gli mancava era la capacità di concepirne la diversità specifica, lo sforzo di interpretarne i diversi pensieri. Questa mancata messa a fuoco, tra le altre cose, mostra che la nozione generica (e metafisica) di un’anima, o mente, di una cosa che si possiede o no, risulta inadeguata a riconoscere la varietà delle menti. Il problema si ripresenta quando dai rapporti tra umani ci rivolgiamo al caso delle menti delle altre specie viventi.

I massacri degli indios nei territori americani avvennero lontano dalle città, e se ne parlò soprattutto per conoscenza indiretta. Ma fatti simili sono avvenuti nel cuore della civiltà urbana e industriale in diversi genocidi del Novecento, seguendo un simile processo di degradazione: così gli ebrei furono paragonati a ratti e i tutsi, sterminati in Ruanda negli anni ’90, a scarafaggi.

Questo rimanda a un altro problema: quello della mente degli altri animali, che per un pregiudizio diffuso si assume essere del tutto diversa da quella umana e, pertanto, esclusa dall’orizzonte etico.

In realtà scienza e filosofia moderna hanno messo sempre più in luce quanto sia implausibile che la mente umana e quella degli altri animali siano realtà gerarchicamente distinte, dato che risultano dalla stessa materia e da una comune storia evolutiva.

Darwin riconobbe con chiarezza che la ragione e la capacità morale negli umani non comportano una cesura netta rispetto al resto del vivente. L’orango che osservò nei giardini della Società zoologica di Londra “scalciava e piangeva come un bambino cattivo”; un’altra, chiamata Jenny, era “curiosa”, “gelosa”. Si convinse che gli oranghi capiscono il linguaggio umano.

A maggior ragione la biologia e l’etologia suggeriscono una prospettiva gradualista, in base a cui le capacità umane devono essere considerate come una varietà specifica di caratteristiche ampiamente diffuse tra gli organismi. 

Eppure ancora oggi una doppia miopia, simile a quella che abbiamo trovato in Colombo, caratterizza l’approccio del senso comune alle menti animali: per un verso, si dubita o si ignora che gli animali abbiano una mente simile alla nostra, per esempio che siano intelligenti e capaci di sentire dolore e piacere, e questo li riduce a merce o mezzi per gli scopi umani di cui si potrebbe disporre indiscriminatamente; per l’altro verso, gli animali vengono spesso umanizzati, alla maniera delle fiabe o dei fumetti: sono oggetto di un’affettività e una confidenza non minori di quella riservata agli umani, ma si ignora la differenza delle loro menti. 

Negare che gli altri animali abbiano una mente cosciente, o ritenere che questa sia un’ipotesi che non siamo in grado di provare, è una posizione più volte difesa nella nostra tradizione filosofica e scientifica, dal meccanicismo di Cartesio fino all’etologia di un secolo fa, e ancora dibattuta nelle neuroscienze cognitive. Questa tesi contraddice il senso comune, per cui non dubitiamo che una gatta provi una certa gioia quando la accarezziamo e un cane sia felice quando ci salta addosso leccandoci e scodinzolando.

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Sul piano scientifico, alla luce della continuità biologica, l’onere della prova ricade su chi vuole negare del tutto la mente in organismi più o meno simili a noi. Per sostenere questo salto evolutivo bisogna individuare specifici fattori discriminanti che stabilirebbero la presenza o l’assenza di esperienze coscienti come le nostre. 

Ma la questione è più radicale e complessa, e richiama quella che ho introdotto sopra: non basta chiedersi se la mente c’è o non c’è; si tratta di riconoscere che quello che chiamiamo in noi “mente cosciente” non è che la varietà di qualcosa che può presentarsi diversamente negli altri esseri viventi.

Per esempio – come ha sottolineato il filosofo Dale Jamieson – è sbagliato immaginare che i pensieri di un altro animale siano perfettamente rappresentabili in forma proposizionale, come fossero parole in una vignetta.

Questo pregiudizio, del resto, è stato alla base dell’antica contrapposizione filosofica tra uomini come “animali razionali”, dotati cioè di logos, e gli aloga, gli “animali non razionali”: infatti per logos s’intendeva indiscriminatamente ragione e linguaggio verbale, assumendo che gli animali che non parlano come noi non avessero pertanto capacità linguistiche – un fatto oggi ampiamente smentito – e quindi fossero privi di intelligenza.

Il filosofo Peter Godfrey-Smith ha sostenuto, nel suo libro Metazoa (2020), che molte specie di organismi – come alghe, protozoi, meduse, polpi, squali – possiedono soltanto “una parte o un frammento delle caratteristiche che per noi formano l’esperienza”.

Bisogna precisare, per escludere il ritorno a una infondata visione progressiva e antropocentrica dell’evoluzione, che posseggono certamente alcune caratteristiche mentali in grado superiore (si pensi all’olfatto dei cani) e altre che a noi mancano del tutto (come la capacità degli squali di percepire oggetti in movimento attraverso la pressione dell’acqua o mediante campi elettrici). Il concetto di “mente”, insomma, diventa generico quanto quello di “corpo”, e le varietà morfologiche del vivente suggeriscono la presenza di diverse forme di esperienza. 

Quindi ci sono altre forme di percezione e intelligenza, altre forme di gioia e dolore, amore e piacere. È un’intuizione che si trova già Spinoza, per il quale non c’era dubbio che ”i cosiddetti animali irrazionali” abbiano una mente, ma questa doveva essere diversa a seconda della conformazione del corpo: ”Infatti, il cavallo e l’uomo sono entrambi trascinati dalla Libidine di procreare; ma il cavallo da una Libidine equina, e l’uomo da una Libidine umana. Così anche le Libidini e gli Appetiti degli insetti, dei pesci e degli uccelli devono essere diversi gli uni dagli altri”.

In questa prospettiva, il campo degli animali a cui dobbiamo senz’altro attribuire capacità mentali come sentire piacere e dolore (ed elaborate capacità intellettive) è molto ampio. Si riproduce così una concezione molto diffusa nella filosofia, per esempio tra i platonici, e in moltissime culture antiche e moderne; e si pone l’esigenza di riconsiderare le nostre azioni che coinvolgono gli altri animali in base a una riflessione etica.

Anche se appare impossibile eliminare ogni sofferenza recata dalle nostre azioni agli altri esseri senzienti (cosa che già vale per l’intera popolazione umana), possiamo almeno prestare attenzione al pianto, al grido, al gesto di ringraziamento dell’animale, all’esperienza che esso rivela: assumerci la responsabilità di una relazione con individui di altre specie.

Naturalmente, a causa della diversità biologica e della mancanza di una comunicazione verbale, è in molti casi difficile individuare queste altre forme di esperienza, e impossibile immaginare esattamente cosa si prova a essere animali di altre specie.

Quel che possiamo fare è osservare strutture fisiche e comportamenti, e esercitare in vario modo quella specie d’inferenza non dimostrativa a cui ricorriamo sempre quando si tratta di sondare realtà remote e trascendenti: l’analogia.

In certi casi, l’ipotesi della gradualità ci porta a parlare senz’altro di “mente”, “intelligenza”, “sentire”, “amore”, “amicizia”, applicando agli altri animali le parole che usiamo per gli umani. In altri casi l’analogia è molto remota: è il caso della cosiddetta “cognizione minima”, categoria-limite definita per caratterizzare quei casi, come le piante e i batteri, in cui si osserva un’interazione tra organismo e ambiente che non è puramente meccanica, ma appare anche estremamente diversa dalla nostra. 

In questi casi, per molti scienziati è la mancanza di sistema nervoso a decidere l’assenza di capacità mentali vere e proprie. Ma questo “vere e proprie”, di nuovo, sottolinea che consideriamo le cose (com’è inevitabile) dal nostro ristretto punto di vista, e dobbiamo ricordare che l’assenza di prova non è prova di assenza.

“Ci sono altre forme di percezione e intelligenza, altre forme di gioia e dolore, amore e piacere”.

Per esempio, Darwin stesso parlava di intelligenza delle piante, e ipotizzava che potessero avere delle capacità sensoriali benché mancanti di un sistema nervoso, e questo tipo di ipotesi è oggi oggetto di rinnovate indagini.

Un caso a parte è quello delle macchine: stavolta è l’assenza di origine biologica, il fatto che questi enti non nascono e non si sviluppano come i viventi, mediante un codice genetico, a far dubitare che, per quanto siano capaci di risolvere problemi e elaborare dati, insomma di riprodurre in forma più perfetta alcune nostre capacità cognitive, le macchine possano mai avere qualcosa di paragonabile alla nostra esperienza soggettiva.

Si tratta di una conclusione che trovo plausibile, almeno in riferimento alle macchine oggi esistenti. Il nostro sentire, il nostro provare gioie e dolori, ansia e esaltazione, non sono separabili dal nostro corpo con i mal di pancia, le scariche chimiche e i brividi sulla pelle, la consapevolezza di esser nati da altri corpi.

Le nostre decisioni non sono mai perfettamente razionali ma sono radicate anche nelle emozioni, in una dimensione corporea e viscerale. Questo forse non chiude la questione: infatti, se la vita si basa su elementi fisici del tutto omogenei a quelli che compongono gli enti inorganici, resta la possibilità logica di casi intermedi tra vivente e non-viventi – laddove il progetto riproduca alcuni aspetti dell’organizzazione biologica.

Un caso estremo di questa possibilità è quello degli androidi immaginati in Blade Runner, che infatti sembrano fisicamente indistinguibili dagli umani.

A parte queste speculazioni, c’è un fatto su cui riflettere: la conformazione dei sistemi nervosi degli altri animali mostra che in essi manca quasi sempre la peculiare integrazione unitaria dell’esperienza, la caratteristica per cui in un normale individuo umano i dati visivi, i suoni, la propriocezione, i ricordi, l’umore, le fantasie e i piani per il futuro rientrano tutti nello stesso campo d’esperienza.

Gli scienziati cognitivi parlano di “moduli” che svolgono diverse funzioni, come “sorvegliare il campo visivo alla destra del nostro corpo”, e che nella mente dell’homo sapiens sarebbero singolarmente connessi tra di loro e integrati in un unico “spazio” di elaborazione.

La disunità anatomica e funzionale, per contrasto, ha suggerito che animali intelligenti come i polpi possano avere fino a nove menti coscienti. 

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Ma davvero la nostra mente si distingue per una perfetta integrazione di tutti i suoi contenuti? Ecco che, di fronte a queste differenze e congetture, finiamo col mettere in questione il punto di partenza di tutto il discorso: siamo certi di sapere di cosa parliamo quando parliamo della nostra mente? La storia naturale della mente degli altri animali, come una Sfinge, pone un enigma che riguarda la nostra identità mentale.

“Il nostro sentire, il nostro provare gioie e dolori, ansia e esaltazione, non sono separabili dal nostro corpo con i mal di pancia, le scariche chimiche e i brividi sulla pelle”.

La mente degli animali si è sviluppata di pari passo con la struttura corporea, presentando vantaggi evolutivi come la capacità di coordinare il movimento muscolare.

Ci sono in noi anche processi mentali che non riguardano immediatamente l’interazione con l’ambiente, il flusso di azioni. In processi come il sognare, l’immaginare, il ricordare, lo scorrere del tempo s’interrompe o si riavvolge, il soggetto si distacca dal qui e ora, e incontra molte cose che sembrano sfuggire alla normale integrazione della nostra esperienza.

Anche la capacità di sognare sembra condivisa con altre specie prive di coscienza unitaria, e lo stesso si può ipotizzare riguardo all’immaginazione e al ricordo. Casi come questi sono un indizio che nella nostra mente esistono esperienze escluse dall’integrazione unitaria.

Si tratta ancora una volta di un’intuizione antica, che la scienza contemporanea ha gradualmente portato a riscoprire e giustificare. I personaggi dei poemi omerici attribuiscono molte delle loro azioni a un accecamento, ascrivendone la responsabilità agli dèi.

L’anima è un “mostro a molte teste […] di animali domestici e selvaggi”, scriverà Platone. In molte culture queste forme di incoerenza e perdita di controllo sono state e sono attribuite alla possessione effettuata da spiriti. Dèi, animali, spiriti: diverse personalità si contendono un medesimo corpo. 

Anche senza ipotesi politeiste o animiste, l’ipotesi che nella mente vi sia una intrinseca disunità è riconosciuta fin dagli albori della psicologia scientifica.

Perfino Immanuel Kant, secondo cui ogni esperienza presuppone logicamente un io, che sintetizzi tutti i vissuti, riconosceva che negli individui reali questa unità può mancare. Non c’è ancora nei neonati, e si perde transitoriamente in stati di ebbrezza, nello sconvolgimento di forti passioni, in casi di malattie mentali.

La norma non esclude l’eccezione, che non coincide affatto con la mancanza di contenuto mentale, anzi coincide di solito con sensazioni intense. Su questa linea, nell’Ottocento, si svilupparono diverse ricerche scientifiche.

“Siamo certi di sapere di cosa parliamo quando parliamo della nostra mente? La storia naturale della mente degli altri animali, come una Sfinge, pone un enigma che riguarda la nostra identità mentale”.

In primo luogo, la teoria cellulare ravvivò un problema che era già noto ai naturalisti: se gli organismi sono composti di parti discrete, e se queste parti sono considerabili come esseri viventi, da cosa ha origine la coscienza unitaria? Non è forse, essa, la rappresentazione che emerge da un tessuto disomogeneo di parti? In questa direzione andarono pure le osservazioni psichiatriche.

Pierre Janet si concentrò sui casi di personalità multiple, che potevano essere portati alla luce mediante specifiche tecniche di osservazione, e da questi studi ricavò l’importanza di indagare la zona della mente che chiamò “subconscio”.

Tra i filosofi che rifletterono su tutte queste ricerche scientifiche vi era Friedrich Nietzsche, che già si era interessato al “dilagare fuori della persona” dell’estasi dionisiaca, quindi a un a caso notevole, e per lui prezioso, di disgregazione della coscienza individuale.

Secondo Nietzsche, ispirato dalla teoria cellulare, la coscienza è formata in realtà da “tante coscienze quanti sono gli esseri […] che costituiscono il suo corpo”. L’io – in linea con le indagini degli psichiatri a lui contemporanei – è “una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l’una ora l’altra vengono alla ribalta, come ego, e guardano alle altre come un soggetto guarda a un mondo esterno ricco di influssi e di determinazioni”.

Si trattava di temi che dall’Ottocento si sono poi diffusi nella cultura popolare – basti pensare a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) di Robert Stevenson – anche attraverso l’ulteriore mediazione della psicoanalisi, in cui la scomposizione della psiche in diversi principi o istanze personali è fondamentale.

“In processi come il sognare, l’immaginare, il ricordare, lo scorrere del tempo s’interrompe o si riavvolge, il soggetto si distacca dal qui e ora, e incontra molte cose che sembrano sfuggire alla normale integrazione della nostra esperienza”.

Nietzsche usava anche un’altra metafora per esprimere la molteplicità interna della mente, scrivendo che il soggetto umano è come un’“organizzazione sociale di molte anime”. Questa metafora, di origine antica, induce a riflettere sul fatto che giudizi e decisioni risultano da processi di mediazione o contesa tra diverse parti di noi. 

Tutto questo suggerisce un’altra analogia con il caso degli altri animali: la stessa disaggregazione che attribuiamo, come stato normale, alla mente di specie come rondoni e polpi, è tipica di molti nostri stati.

Insomma, in noi riconosciamo qualcosa di loro. Spesso la sintesi per cui ci crediamo perfettamente coerenti è l’effetto della semplice unità corporea: il nostro corpo è uno e svolge azioni di cui normalmente possiamo fornire dei resoconti e delle spiegazioni, di cui pertanto siamo ritenuti socialmente responsabili, e tutto questo occulta il processo spesso largamente inconscio o non integrato che contribuisce a queste azioni.

Tornando all’anatomia, troviamo un nesso tra queste intuizioni psicologiche e la distribuzione del nostro sistema nervoso. La separazione degli emisferi cerebrali è un caso vistoso: l’esperienza dei pazienti col “cervello diviso”, che un tempo erano prodotti da interventi chirurgici per curare gravi epilessie, è stata paragonata a quella di animali privi di coscienza unitaria, che mancano normalmente di robuste connessioni tra gli emisferi. 

Ma c’interessa soprattutto il fatto che quella disunità, in forme meno vistose, riguarda ognuno di noi anche in mancanza di patologie del sistema nervoso.

A parte il riferimento alla psicoanalisi col suo inconscio dinamico (prodotto dalla rimozione), bisogna qui ricordare che le scienze cognitive negli ultimi decenni hanno sottolineato la natura “subpersonale”, quindi inconscia, di gran parte delle nostre operazioni mentali. Sono inconsci, quindi, gran parte degli impulsi e motivi che ci portano a fare una cosa piuttosto che un’altra, ma anche molti contenuti e processi che stanno alla base delle nostre normali prestazioni cognitive.

Peter Carruthers è tra gli studiosi che hanno sostenuto, in base a un ampio repertorio di dati sperimentali, che la presunta trasparenza della mente a sé stessa è un mito sostanzialmente infondato. Secondo Carruthers – in libri come The Opacity of Mind (2011) – noi conosciamo la nostra mente facendo delle ipotesi a partire da osservazioni, non diversamente da come conosciamo la mente degli altri.

Quanto all’interiorità, essa non è che un flusso di fenomeni a partire dal quale facciamo queste congetture. Il nostro pensiero è una sorta di discorso silenzioso, e ascoltandolo elaboriamo queste congetture, senza avere un perfetto controllo sulla sua composizione e sulla sua origine: sondiamo noi stessi.

Va nella stessa direzione una considerazione del già citato Jamieson, che vuole rovesciare il presunto primato epistemologico della conoscenza della mente umana rispetto a quella degli animali: “talvolta conosciamo le menti degli altri meglio della nostra, e talvolta siamo conosciuti meglio dagli altri di quanto conosciamo noi stessi”.

Insomma, noi dobbiamo sempre interpretare i pensieri a partire da qualcosa di esteriore, che si tratti di umani o animali, di altri individui o di noi stessi. Questo è evidente nel caso in cui, come fanno molti cittadini delle società contemporanee, si consulta (e si paga) uno specialista per aiutarci a capire cosa pensiamo e cosa vogliamo, mettendo a disposizione le nostre parole, i nostri comportamenti, i nostri sogni.

Ma si tratta di una situazione che si trova al di fuori di un contesto medico in molte attività, che servono a capire meglio noi stessi attraverso l’interpretazione di qualcos’altro: per esempio osservando altri animali e ascoltando miti, leggendo romanzi e vedendo film, scrivendo – e anche semplicemente parlando, in pubblico, in dialogo, o tra sé.

“Spesso la sintesi per cui ci crediamo perfettamente coerenti è l’effetto della semplice unità corporea”.

In effetti, seguendo questo filo possiamo andare indietro fino alla preistoria, quando la nostra stessa identità di specie era appena distinta, per trovare la prova di un originario rapporto tra conoscenza della mente e interpretazione di quella degli altri animali.

La prima forma di espressione della nostra specie di cui abbiamo documenti, e che ad oggi è ritenuta da quasi tutti i paleontologi esclusiva della nostra specie, sono pitture rupestri e parietali, incisioni e manufatti di arte mobiliare.

In pareti rocciose di tutto il mondo, lungo un intervallo che va dal Pleistocene all’epoca storica, il tema dominante di queste figure sono gli animali non umani, che spesso sono fusi immaginariamente con l’umano in ibridi teriomorfi.

Non conosciamo il contesto di parole e azioni, riti e miti che certamente accompagnava l’esperienza di quelle figure, dipinte spesso in grotte profonde e inospitali, come quella di Chauvet, in cui si discendeva allontanandosi dall’esperienza quotidiana. Ma osservarne il gioco di accostamento e fusione tra umano e non umano basta a capire un’intuizione originaria della nostra specie: qualcosa degli altri esseri diversi è in noi, e noi siamo simili agli altri. 

La mente umana è stata, fin dall’inizio, teatro di questo confronto, che era certamente accompagnato dal linguaggio. Le grotte preistoriche erano un laboratorio di immagini e parole, come quello che ricostruiamo nel nostro discorso silenzioso e invisibile.

Psicologia e arte, mito e letteratura, non sono che ramificazioni di quell’originaria esperienza. Tracciando forme su una superficie, segni esteriori dei nostri pensieri, abbiamo forse cominciato a definire cosa siamo, e cosa ci distingue dagli altri.

Paolo Pecere

Paolo Pecere è filosofo e scrittore. Insegna Storia della filosofia all’Università di Roma Tre. Il suo ultimo libro è Il dio che danza (Nottetempo, 2021).

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