La lingua che abitiamo - Lucy
articolo

Nadeesha Uyangoda

La lingua che abitiamo

Se per alcuni la lingua è un luogo accogliente, per altri è invece un terreno insidioso. Considerazioni intime e politiche di chi ha saggiato le lame di uno strumento che all’apparenza non ne possiede.

“All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua. Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parole che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?”1

Le parole di Ágota Kristóf incorniciano la situazione in cui si trova la maggior parte delle persone: nascono e crescono in un contesto dove la madrelingua è un’esperienza immersiva. Per me, invece, la lingua è sempre stata un luogo di confine. O meglio, il confine non era determinato dallo spazio, ma dalla lingua.

Le persone mi dicono che parlo bene in italiano, quasi senza un’inflessione, quasi in dizione. La realtà è che, quando parlo ad alta voce, alcuni suoni si ingarbugliano, la lingua non tocca i punti giusti, le labbra non si muovono come dovrebbero. “Devi aprire bene la bocca quando pronunci le parole in italiano” – mi spiegavano quando ancora stavo traslocando da una lingua gutturale i cui suoni sembravano uscire direttamente dalla laringe – “Voi tenete le labbra incollate, l’italiano è pieno di suoni aperti”. L’italiano è come parlare con la bocca piena. Insomma, quando l’italiano mi diventa una lingua nemica, torno al 19832.

È la lingua a legarmi a un tempo in cui non sono mai stata, esattamente come mi riporta allo scontro tra gli ebrei Galaaditi ed Efraimiti, quando questi ultimi, per riconoscere i nemici che attraversavano il fiume Giordano nel tentativo di fuggire dal campo di battaglia, chiedevano loro di pronunciare la parola shibboleth, ‘spiga di grano’. I Galaaditi, che non erano in grado di pronunciare il suono /sh/, venivano catturati e uccisi.

Per raccontare quel che è successo in Sri Lanka alla vigilia della guerra civile si dice pogrom; una parola russa che descriveva gli attacchi antisemiti è finita a identificare anche le cicliche violenze da parte della polizia e della maggioranza singalese contro la minoranza tamil. Il termine shibboleth, per estensione, indica oggi una parola fonologicamente complessa e per questo molto difficile da pronunciare per qualcuno che parla un’altra lingua. Nel corso del Luglio nero di quell’anno, la folla ha utilizzato questa tecnica per identificare e attaccare le persone di etnia tamil: il shibboleth era baldiya, ‘secchio’.

A volte temo che, se la mia cavità orale non si comporta come l’italiano richiede, anche io verrò scoperta.

Le persone mi dicono che parlo bene in italiano, quasi senza un’inflessione, quasi in dizione. La realtà è che, quando parlo ad alta voce, alcuni suoni si ingarbugliano, la lingua non tocca i punti giusti, le labbra non si muovono come dovrebbero.

La lingua è utilizzata come strumento di potere da molti governi occidentali contro chi attraversa i confini: Eqvator e Sprakab sono due società svedesi specializzate in quella che viene definita “analisi del linguaggio”3. Serve, in poche parole, a determinare se il modo di parlare di un migrante aderisce alla storia che racconta. Mi capita di chiedermi se potrei superare un test del genere e se avrei potuto superarlo allora, quando ho attraversato il confine. Cosa dice la mia lingua di me? O meglio, cosa dice di ?

Le mie famiglie — quella materna, quella paterna e quella putativa — non hanno mai parlato la stessa lingua. Il sinhalese, quello formale, quello che mi è stato detto avvicinarsi molto di più al pāli, suona come una lingua arcaica: la parlano i politici, la burocrazia, i telegiornali — non la comprendo, e l’ho sempre associata a chi non vuole farsi capire. In Elogio del margine. Scrivere al buio, Maria Nadotti elabora il concetto secondo cui “servirsi di un linguaggio sempre più oscuro, di una scrittura sempre più metalinguistica” ha molto a che vedere con il “desiderio di legittimazione all’interno delle strutture accademiche patriarcali”.

Mia madre è cresciuta con il sinhala più popolare, quello legato alla terra, in cui esiste l’espressione “matrimonio d’amore” —  anche quella presa in prestito dall’inglese — solo come deviazione di quello combinato. A ogni lingua corrisponde un particolare modo di osservare il mondo. Il modo di una persona di relazionarsi all’altro è determinato in tutto o in parte dalla struttura della propria lingua madre. La lingua, in pratica, riflette la cultura che l’ha creata: questo dice l’ipotesi di Sapir-Whorf, ovvero la teoria del determinismo linguistico. 

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Quello dei miei genitori è stato un love marriage perché non era arranged, e mia madre per tutta la vita avrebbe poi inseguito quell’idea senza mai trovarla nel proprio dizionario, senza riuscire mai a tradurla. Quella lingua essenziale, asciugata della capacità di esprimere affetto, ridotta all’osso della più stretta necessità di comunicazione, si intravede ancora nella teatralità meccanica con cui mia madre esprime gioia, contentezza, sorpresa. I suoi wow!, no!, davvero?! sono mutuati dalle telenovele che guardava per imparare l’italiano: ma forse bisogna ammettere che esprimersi in una lingua che non ti è materna è sempre una performance, e la sua riuscita o meno dipende dalla capacità di adattare un codice di comunicazione a un altro.

L’italiano è la mia performance meglio riuscita, me ne sono resa conto in questi due anni di presentazioni: lo parlo velocemente per dare l’impressione di controllo, lo piego alle necessità della mia sintassi contorta, lo camuffo sottilmente quando dubito della pronuncia. L’accento in latino non risale mai più indietro della terzultima sillaba; in greco la sua posizione è determinata dall’ultima sillaba; In inglese è totalmente imprevedibile.

L’italiano ha per me una doppia natura — fluida nel passo con cui si fa strada nel mio subconscio, sfuggente per il modo chirurgico in cui lo utilizzo. Mi è stato insegnato a padroneggiare, dominare, avere potere su questa lingua, ma il suo lato più intimo continua a eludermi. “Non parlarmi come a un estraneo,” mi viene detto spesso, ma il mio italiano non ha un’inflessione.

Mia madre non mi ha mai imposto pubblicamente la sua lingua materna. Il perché non mi è difficile da comprendere: parlare una lingua come quella ti espone al mondo, ti rende un’immigrata e determina la percezione che gli altri hanno di te.

Anche se devo impormi di pensare in sinhalese, una volta acceso l’interruttore è come se non avessi smesso mai; è sufficiente però che mi lasci sfuggire un suono per far collidere le consonanti ravvicinate, le aspirate, un lessico che è sempre stato famigliare con persone che non lo sono più. I suoi shibboleth sono continue trappole per la mia cavità orale, ma non per questo ho paura di essere scoperta: non ho controllo sul mio sinhala, ma è una lingua che opera nel passato, senza il potere di incidere su chi potrei essere.

L’italiano è la mia performance meglio riuscita.

Mi fa sempre sorridere come, per raccontarmi un segreto in mezzo a tanta gente, mia madre bisbigli anziché dirmelo in sinhala. La lingua della nostra comunicazione è l’italiano — una lingua comune che, sebbene abitiamo a latitudini diverse, finisce per contaminarsi. Ho imparato a conoscere mia madre attraverso la sua lingua rotta, la capisco quando è incomprensibile ai più. È un codice privato e, quando mi diventa difficile da decrittare, mia madre mi riserva la stessa severità che ha verso chiunque non la capisca quando parla. “Non ho capito,” diciamo, e qualunque tono lei userà per articolare o qualunque tono io utilizzerò per semplificare, non sarà mai quello giusto per decodificare la nostra incomunicabilità.

Se tradurre una parola, un’idea o un sentimento implica una reinterpretazione, e quindi una forzatura qui, una sbavatura là, alla cattiva traduzione io ho sempre preferito l’incomprensione.

Ecco allora che, se da un lato non sempre capisco il suo italiano sgrammaticato quando si fa concitato, dall’altro, mi stupisce sentirla pronunciare parole come “cupola”: dallo spazio gerarchico occupato nel mio libro di storia dell’arte su cui mi interrogava, quella parola va trasformandosi in un significato diverso nella pronuncia incerta di mia madre. Non saprebbe neanche tradurla in sinhala — quella è per lei una lingua che non è cresciuta, cambiata, invecchiata dal 1998: la sua lingua materna è rimasta come la conosceva a ventotto anni, e a quel tempo nel suo vocabolario non c’era un termine che descrivesse esattamente un elemento architettonico del Rinascimento italiano. Quando mia madre dice “cupola”, io immediatamente la traduco con “pagoda”. Esiste in sinhala una parola che ricostruisca, in un’altra geografia, l’immagine della cupola del Brunelleschi? Chissà.

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Cinque anni dopo il massacro del 1983, la costituzione dello Sri Lanka avrebbe elevato il tamil allo status di lingua ufficiale e l’inglese sarebbe finito per diventare una lingua comune, di collegamento. Resta invece, ancora oggi, la lingua del potere. Sostiene il sociologo Pierre Bourdieu che ogni interazione linguistica — tra due persone, due amici o un ragazzo e una ragazza — è sempre, in qualche modo, “una forma di micro-economia”, a sua volta dominata dalle sovrastrutture che caratterizzano qualsiasi rapporto di potere. 

I miei cugini da parte di padre, che hanno sempre frequentato scuole private internazionali, fino agli otto, dieci anni non hanno saputo parlare altro. Prima dell’indipendenza, il paese aveva un doppio sistema d’istruzione: da un lato un’educazione limitata e gratuita nelle lingue vernacolari, dall’altra un’adeguata educazione privata inglese. È una lingua che resta fortemente legata ai concetti di “autorità”, “civiltà”, “cultura”, che ormai non è più riconducibile ai famosi versi della poeta Adrienne Rich “questa è la lingua dell’oppressore, ma ne ho bisogno per parlarti”4. Quando la femminista americana scrive quei versi sembra sottendere che, da un lato, la lingua è già codificata — è lo status quo — ma che, dall’altro, parlandola, e parlandola lei come donna lesbica, muta e risignifica la realtà.

L’inglese, in Sri Lanka, ha smesso di esistere nel suo binarismo di sistema già codificato, e di entropia capace di risignificare l’intera realtà. Mi sembra cioè che lo Standard British English, sull’isola, si sia sottratto a innovare se stesso e, soprattutto, non sia stato in grado di condividere saperi senza fondare poteri. Dunque quel che resta della mia famiglia paterna parla, per lo più, inglese. È una lingua che hanno imparato man mano che cambiava il circolo sociale in cui interagivano: in poche parole, più diventavano ricchi, meglio padroneggiavano l’inglese. O forse era il contrario. La lingua, per loro, è sempre stata una questione economica, di classe. La lingua, per me, è una trincea, una resistenza continua.

Ne consegue che i miei genitori, se anche sono riusciti a parlarsi, non sono mai riusciti a comprendersi. Ci si può poi, mi chiedo, amare in una lingua che per esprimere quel sentimento ricorre alle parole di un’altra? Quel che so di mio padre è stato mediato dalla lingua senza affetto di mia madre e dall’utilitaristico singlish di suo fratello.

Le lingue esprimono e costruiscono le identità: il passato dei miei genitori mi è inaccessibile perché mia madre, in trent’anni passati in Italia, ha disimparato la lingua necessaria per raccontarmi chi era prima, quando non doveva tradurre se stessa continuamente, quando la sua lingua non era ancora spezzata.

La lingua, per me, è una trincea, una resistenza continua.

Dalla mia famiglia putativa, con cui io e mia madre abbiamo vissuto da quando abbiamo attraversato il confine, ho ereditato l’italiano dall’accento vagamente lombardo, dal lessico forbito, dal tono ironico e dal sottotono saccente, in quella parlata tipica della borghesia di sinistra che dissocia la realtà dal modo in cui la racconta. Da quel tipo di interpretazione linguistica tento di affrancarmi nella mia continua performance. Non è una lingua che ho scelto: “è capitata”, dico a volte, “mi è stata imposta, altre.

Lo parlo e lo scrivo da più di vent’anni, l’ho perfezionato e smussato, ma alcune increspature faticano a sparire: quando scrivo “ottobre” devo ancora sforzarmi di non mettere la m di ඔක්තෝම්බර්, /oktōmbar/; trovo incredibilmente frustrante la confusione tra i verbi “andare” e “venire”; a volte non riesco a scandire le parole con i suoni che ho studiato. L’ho eletta, con una certa caparbietà, a mia lingua madre, ma non sono sicura che questo ruolo non sia condiviso con il non-standard English e il sinhala su cui ho eretto la mia conoscenza dell’italiano.

Esistono diverse definizioni di lingua materna (in base alla scolarizzazione, alla competenza, all’autoidentificazione, alle origini), quindi non saprei dire se esista una distanza — e quale sia — tra il mio italiano, il concetto di madrelingua, il mio sinhala.

Se Ágota Kristóf, che parlava il francese da più di trent’anni e lo scriveva da venti continuando però a sentirsi un’analfabeta, descriveva la lingua dell’esilio come quella che “sta uccidendo” la sua lingua materna, io non posso dire che l’italiano si stia mangiando la lingua di mia madre e quella di mio padre. Sono rimaste chiuse in compartimenti a cui molto spesso non ho accesso, su cui non ho controllo. 

Diceva Elias Canetti che la coesistenza di “lingue diverse è il fatto più misterioso del mondo. Vuol dire che per le stesse cose ci sono nomi diversi. E questo dovrebbe far dubitare che non siano la stessa cosa”5.

L’altro giorno guidavo la macchina tra i banchi di nebbia brianzoli quando mi è venuta in mente la parola මීදුම් [mīdum], e per un istante mi sono sentita al di sopra del confine che mi segna e mi segue ovunque: non ero dentro la foschia delle colline di tè di Nuwara Eliya, non ero in Brianza — le lingue, gli spazi, erano la stessa cosa.

1

Ágota Kristóf, L’analfabeta (Edizioni Casagrande, 2005).

2

La guerra civile in Sri Lanka è iniziata nel 1983, tra il governo della Repubblica e l’LTTE, il gruppo separatista delle Tigri Tamil per la liberazione del Tamil Eelam (inserita nel 2006 dall’Unione Europea nella lista delle organizzazioni terroristiche). La guerra, terminata nel 2009, è stata anticipata dalle violente persecuzioni della minoranza tamil del 1956, 1958, 1977, 1981 e 1983.

3

L’Australia ha introdotto questi test nel 1999; la Svezia li ha messi a punto dagli anni ’80; altri paesi, come l’Olanda, la Germania e la Svizzera, conducono i propri test; la Gran Bretagna e la Nuova Zelanda ne fanno uso.

4

Adrienne Rich, Bruciare carta invece che bambini da Cartografie del silenzio (Crocetti Editore, 2000).

5

Elias Canetti, La provincia dell’uomo (Adelphi, 1978).

Nadeesha Uyangoda

Nadeesha Uyangoda è giornalista e scrittrice. Collabora con «Repubblica» e altre testate. Il suo ultimo libro è L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd, 2021).

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