Sulla parete della casa dei miei nonni, al posto della solita carta da parati, c’era un’enorme pelle di orso bruno, con le fauci spalancate e gli occhi di vetro. Leggendo Il puma, non ho potuto fare a meno di ricordare la sensazione che provavo sfiorandogli i denti: qualcosa tra il ribrezzo, l’inquietudine e il piacere.
Pubblicato per la prima volta nel 1947 e tradotto in italiano per Adelphi da Monica Pareschi, Il puma di Jean Stafford segue la crescita simbiotica di Ralph e Molly, due fratelli malaticci e sgraziati nati in una famiglia borghese losangelina, che li ignora in virtù del loro aspetto.
È attorno agli elementi corporei che si costruisce l’ambiguità del rapporto di Ralph e Molly. Stafford è abile a descrivere con precisione l’attrazione che lievita nella mente e nelle azioni dei due fratelli fino al momento in cui Ralph, affacciatosi alla pubertà, non la fa esplodere con un paradosso: chiede a Molly, che non si lava finché la sua pelle non diviene nera, di dirgli tutte le parole sporche che conosce, e così facendo nomina ciò che doveva essere taciuto.
La lingua di Stafford forse è l’elemento più sorprendente del romanzo, perché riesce al tempo stesso a dire e non dire, portando il lettore a chiedersi se la sua mente non sia torbida come quella dei fratelli.
Molly odia tutto ciò che ha un corpo e che abbonda, mentre in Ralph si risveglia il desiderio carnale che si traduce nella volontà di cacciare e uccidere il puma (che non a caso è femmina) per poterla imbalsamare e possedere, e forse finalmente diventare uomo.
In effetti è la perversione a essere protagonista di questo romanzo; perversione animalesca, feroce e sinuosa come un puma femmina, che ci osserva accovacciata tra gli alberi senza farsi catturare: “Senza grazia, senza amore, rimase lì immobile nel sole vivo”.
Irene Moro
Irene Moro ha studiato Editoria e scrittura all’Università La Sapienza di Roma ed è project manager di Lucy.
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