16 Febbraio 2024
“L’incompleta conoscenza delle vite dei nostri genitori non è una condizione delle loro vite. È una condizione soltanto delle nostre. […] Essere ignaro o solo capace di fare congetture sulla vita di un’altra persona fa sì che quella vita sia libera di essere qualcosa di più di ciò che era veramente”. Così scrive Richard Ford nel suo Tra loro (Feltrinelli, 2017, trad. di Vincenzo Mantovani), tributo cronachistico e trasognato del narratore americano alle due persone che l’hanno messo al mondo nel 1944, Parker ed Edna Ford.
Sono parole che mi sono tornate in mente leggendo Tangerinn, il romanzo d’esordio di Emanuela Anechoum, appena uscito per Edizioni e/o. Eppure, almeno in superficie, tra i due libri ci sono oceani di differenze: da una parte, in Ford, l’Arkansas della Grande Depressione e del proibizionismo, i commessi viaggiatori poveri ma spensierati, l’America del Boom, le famiglie felici che si somigliano tutte; dall’altra, con Anechoum, il Marocco delle rivolte del pane, i viaggi di fortuna sulle barchette stipate di persone che solcano il Mediterraneo, il Mezzogiorno italiano abbandonato alla malavita, la miseria che penetra nelle ossa e nel cuore di tre generazioni.
Eppure anche Mina, la quasi trentenne protagonista di Tangerinn, costruisce attorno al passato del padre appena deceduto, Omar, marocchino trapiantato in un paesino della Calabria, un’impalcatura di vicende simboliche e dubbi trasfiguranti che lo rendono parte di qualcosa di più grande. Anche Mina, che si è trasferita a Londra per inseguire un’immagine plastificata di libertà e indipendenza, viviseziona la traiettoria ellittica del vissuto di Omar, viaggiando al termine delle scelte che facciamo senza accorgercene, delle distanze da chi ci vuol bene che poniamo senza guardarle.
Con una di quelle differenze di vocabolario rivelatorie, Mina è un’expat su cui apporre il marchio del cool, che Oltremanica la ricchissima e (almeno su Instagram) femministissima amica Liz brandisce come una medaglia da plasmare a sua immagine e somiglianza; Omar, invece, dopo una vita intera in Italia è ancora un immigrato che gestisce un bar “per immigrati” in un piccolo centro degradato del Sud. Entrambi, però, hanno voluto essere speciali, anzi in cuor loro hanno sempre saputo di esserlo: e così come lui da giovane si è imbarcato alla volta dell’Europa per sfuggire alla povertà e ai ratti del quartiere di Derb Sultan, lei ha deciso di prenotare un volo low cost per reinventare una nuova sé trascolorando nel grigio plumbeo della City.
Perché l’hanno fatto? In superficie si direbbe per soldi, un’esistenza migliore, occasioni di rilancio. Però sarebbe una risposta parziale, e quindi giocoforza un po’ falsa: “Ma scegliere chi vuoi essere non significava decidere di diventare qualcun altro? C’era davvero bisogno di attraversare il mare per trovare te stesso?”, chiede Mina all’uomo che le ha dato la vita, parlando però più che altro a se stessa e al suo rimpianto di figlia assente.
Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, ma è nel momento in cui abbandoniamo la nostra al suo destino, per necessità o per naturale scorrere degli anni, che ci rendiamo conto del baratro di rammarico e incomunicabilità affettiva su cui è sospeso ogni approdo alla vita adulta. Mina torna in Italia per il funerale di Omar e ritrova Aisha, l’accudente e tetragona sorella maggiore che non se n’è mai andata dal paesino, senza pentirsene. Aisha crescendo è stata il suo punto di riferimento imprescindibile, ma la prima cosa che Mina fa – in ossequio alla nuova sé, londinese e attenta a ciò che conta davvero (gli avocado toast, gli arredi shabby-chic con macramè, i viaggi spirituali posh da mostrare ai propri follower, gli hashtag giusti sulla #sorellanza) – è criticarla con risentito distacco perché indossa l’hijab. Intanto la loro madre, da tempo chiamata per nome, “Berta”, perché indisponibile e indisposta per le figlie, in paese è conosciuta come “la pazza che si è sposata il marocchino” e vive a letto in uno stato di inscalfibile resa catatonica. Nei lunghi anni di esilio autocompiaciuto di Mina, come il Noodles di C’era una volta in America, Aisha è andata a letto presto dopo aver badato a tutto da sola: la casa, il bar, la madre.
Al suo ritorno in Calabria, Mina si sente soffocare: dove sono finite la sua indipendenza, la sua ricercata evoluzione, l’agognato traguardo dell’emancipazione cittadina? Tangerinn è un romanzo sorprendente non solo per la sua scrittura felice, ma anche perché riesce a modellare i suoi personaggi sul tornio delle loro contraddizioni e delle loro intime incoerenze.
“Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, ma è nel momento in cui abbandoniamo la nostra al suo destino, per necessità o per naturale scorrere degli anni, che ci rendiamo conto del baratro di rammarico e incomunicabilità affettiva su cui è sospeso ogni approdo alla vita adulta”
All’inizio, nella sua vita da expat a Londra, Mina adora essere diventata amica di Liz, la digital activist in vista che catechizza follower e amicizie su cosa si può dire/fare e cosa no. Guarda ai suoi consumi etici da Whole Foods, Lush ed Etsy con un misto di stima e trepidante, a volte astiosa soggezione, la imita per quanto può permettersi di farlo (cioè poco). E, nel suo essere l’amica italiana e mediorientale si sente innalzata, finalmente considerata, messa su un piedistallo: anche se a tenere le redini delle conversazioni, la sera nei locali, sono sempre Liz e il suo inner circle di ragazze bianche e benestanti.
Scrive Anechoum, che ha vissuto a Londra per davvero ed è per metà marocchina per davvero: “Era una pratica molto amata in città, quella di osservare dall’alto del proprio privilegio chi sta sotto per sentirsi illuminati, coinvolti, ma senza sforzo”. Di Liz se ne contano a centinaia, di ogni sesso e genere, anche in città come Roma e Milano. E quando si stancano di essere Liz, o gli fa meno comodo, cade la loro maschera digitalmente cesellata. Ad anni di distanza, mi risulta ancora nitido il ricordo delle occhiate giudicanti, dei commenti sprezzanti di alcuni rappresentanti auto-nominati della crème dell’hipsterismo editoriale milanese. La loro ragione di vita era sentirsi migliori di quelli come me: gli arrivati impreparati.
Squadravano e sibilavano con sprezzatura calcolata col bilancino di precisione: da dove viene, questo? Come si veste? Come parla? (Talvolta erano gli stessi che, tra una cattiveria e l’altra, firmavano articoli dai messaggi improntati alle buone cause e alla gentilezza: e giù like e condivisioni). Ma anch’io come Mina, la protagonista di Tangerinn, ero molto giovane o molto sciocco – o entrambe – e anche a me in fondo non dispiaceva stare in mezzo a quella che si diceva essere coolness (e in realtà era, ed è ancora, un blando palliativo per eterni fuorisede, insicuri e in cerca di autocoscienza). Anch’io non avevo nostalgia della mia sciapa periferia di provenienza, di genitori e amici non avvezzi alle parole d’ordine giuste, di quel mondo antico a cui ripensavo con fastidio: lì nessuno aveva mai sentito parlare dei locali del momento, dei problemi del fast fashion e dei benefici ayurvedici del digital detox.
Quando ci accorgeremo che da certi discorsi intorno alla diversità, alla marginalizzazione e alla discriminazione strutturale sono regolarmente escluse quelle stesse minoranze che dovrebbero esserne protagoniste, allora forse realizzeremo anche che a orientarli sono ancora ristrette èlite di persone che dispongono di capitali – spesso culturali, più spesso ancora economici – che a tutti gli altri sono preclusi.
In questo senso Tangerinn somiglia a un testo fondativo, capace di mettere in pagina le segregazioni sottili patite da persone rese token da sventolare in società o persino vendere al mercato (pardon: digital market), e di squarciare il velo di Maya sulle storie che ci raccontiamo per sentirci a posto con la nostra coscienza di progressisti col cuore dalla parte giusta. Per appartenere ai buoni ci basta una caption, così che nessuno ha più bisogno di esserlo davvero: passiamo sopra la distanza sbrigativa e crudele con cui trattiamo il prossimo, conta solo l’esattezza estetica del nostro apparire.
“‘Tangerinn’ somiglia a un testo fondativo, capace di mettere in pagina le segregazioni sottili patite da persone rese ‘token’ da sventolare in società o persino vendere al mercato”.
Tangerinn no, va più a fondo. Anche il modello dell’accoglienza diffusa del Sud Italia, quello che ha fatto commuovere il grande pubblico di fronte a tanti telegiornali e post virali su Facebook, si rivela un falso prospettico: “Una volta fuori pericolo, gli immigrati venivano riversati nelle strade come acqua sporca, ignorati, marginalizzati, lasciati a morire di altre morti. Era questo il modo cristiano di salvare il prossimo”, spiega a un certo punto Mina.
È un libro, quello di Emanuela Anechoum su cui fermarsi a riflettere; un romanzo familiare che parla di identità divise e ai margini senza pagare tributi preteschi a nessun breviario pigro da cena engagé ad Hackney; che illumina un presente difficile e complesso, senza edulcorarne gli aspetti di razzismo e discriminazione strutturale; che si muove tra il Mediterraneo e il Marocco e la Calabria, ma anche sotto la pelle di chiunque a un certo punto se n’è andato e poi non ha chiamato e non è tornato, nell’ingenua convinzione che non gli sarebbe mai mancato il tempo per farlo.
Alla fine, in ogni caso, indietro non si può tornare; non senza accettare di essere cambiati, perlomeno. Come dice Mahdi, il mite e nostalgico lavoratore del bar Tangerinn che fu di Omar, ripensando alla sua terra natia: “E magari, sai, vivrò bene qui. Sarò al sicuro, avrò delle possibilità che a casa non avrei avuto; ma diventerò una persona completamente diversa. […] Sarò altro, e avrò altre cose: ma non riavrò mai indietro quello che ero”.
Davide Piacenza
Davide Piacenza è giornalista e collabora a diverse testate. Il suo ultimo ultimo libro, che riprende temi della sua newsletter settimanale “Culture Wars”, si intitola La correzione del mondo (Einaudi, 2023).
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