Di Letizia Battaglia è difficile non dire bene.
Di fronte al suo ottimismo ci si ritrova inermi, senza le difese del cinismo.
Lo sa bene Franco Maresco, che a Battaglia, a un anno dalla scomparsa, ha dedicato un affettuoso libro di conversazioni, La mia Battaglia (Il Saggiatore).
La prima volta che Maresco incontra Battaglia è un ragazzino un po’ insicuro che vuole fare il fotografo; si presenta e non dice nulla. La seconda è alla fine degli anni ‘70: un suo vicino di casa ammazza la moglie e l’appartamento è invaso da poliziotti, medici legali e giornalisti. Tra questi spicca, unica donna tra uomini “abituati allo spettacolo della morte”, Battaglia, con una gonna colorata, la sigaretta tra le labbra e un’espressione di partecipazione.
Nel corso degli anni, i due si conoscono, si frequentano, discutono (litigano, furiosamente anche), collaborano spesso.
Il tono delle loro conversazioni è quindi quello intimo di due amici che, seduti sulle rovine, guardano alle cose da prospettive diverse: disillusa e pungente quella di Maresco, ancora vitale e abbarbicata nel futuro quella di Battaglia.
C’è nel libro il racconto di due generazioni vissute a Palermo negli anni delle stragi di mafia e dei morti per strada, poi della “primavera” di Orlando, che vede Battaglia protagonista. C’è l’arte, il cinema, la fotografia, c’è la depressione e ci sono (e sono forse le pagine più toccanti) i pazzi dello psichiatrico che Battaglia ha frequentato – accettandoli e sentendosi a sua volta accettata.
Ma la diversità tra Maresco e Battaglia è, in fondo, solo apparente.
Per dirla con le parole di Maresco: “Forse io e te siamo complementari: tu hai la speranza, con un po’ di dubbio […] io ho il dubbio con un po’ di speranza”. Battaglia risponde: “Io penso che me la invento la speranza, perché lo so che le cose vanno male”.
Se “le cose vanno male”, la speranza è una pratica da mettere in atto con impegno e pure con un po’ di fantasia. Battaglia l’ha fatto per una vita, non solo per documentare la realtà, ma per reinventarla.
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