Di Tommaso Labranca si parla più da morto che da vivo. Merito anche de Le alternative non esistono, il bel libro che gli ha dedicato Claudio Giunta. Ma è difficile dire chi legga oggi Labranca.
A sette anni dalla morte, la sua produzione sterminata, fatta di saggi, romanzi, riviste, biografie di celebrità (“libri alimentari” che Labranca scriveva spesso con affetto, come quello su Orietta Berti), rubriche, bizzarrie varie, è pressoché irreperibile. Online, a testimonianza di un lavoro incessante e di difficile classificazione, riemergono i pdf di alcune sue opere e sopravvivono, come rottami lucidi e inutili, alcuni dei tanti siti che ha creato negli anni, come questo – parodistico – su Celine Dion.
Ora GOG edizioni colma in parte questo vuoto con la pubblicazione di Labrancoteque, “egozine” autoprodotta da Labranca nel corso di un decennio, che è contenitore del suo sguardo e sfogatoio delle sue opinioni e frustrazioni, non di rado espresse brillantemente. Piena di trovate curiose (“Webcam”, con foto prese da Google; “Faceback”, una selezione di tweet e status) Labrancoteque contiene pezzi ancora oggi godibili; un’intervista a Walter Siti, una stroncatura intelligente di Random Access Memories dei Daft Punk, le solite incursioni ed escursioni nel trash che lo hanno reso celebre come “esperto di cazzate”.
Se il trash, come da sua teorizzazione, è “emulazione fallita di un modello alto”, Labranca non corre mai il rischio di esserlo perché, nella sua originalità, non cerca di assomigliare a nessuno, nemmeno a se stesso.
Nel pezzo che dedica ad Arbasino, che non emula ma stima, chiude con un’amara considerazione: “Mentre torno a casa dalla lavanderia mi domando se gli altri che fanno il mio lavoro, i coetanei o i più giovani, hanno in questo istante un’esistenza da société arbasiniana o se sono solo io a galleggiare isolato e ignorato in un angolo del mondo, dietro piazzale Corvetto.”
Labranca aveva coscienza di essere ormai marginale e irrilevante per i suoi contemporanei. Chissà cosa penserebbe di noi, che oggi lo leggiamo e gli dedichiamo addirittura una recensione su Instagram. Forse male.
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