Bruno Martino cantava l’impossibilità di vivere l’estate (E la chiamano estate / questa estate senza te). Per Francesco Pecoraro, che fa suo un verso di Vittorio Sereni, sembra, invece, l’unica realtà davvero esperibile: Solo vera è l’estate. È un’afa “catto-mediterranea” quella in cui si muovono i tre protagonisti: esponenti romani del “ceto mediolo” in fuga da una “trappola cimatico-culturale” e diretti verso una festa al mare in un giorno non qualsiasi del luglio del 2001.
Un fatto rimarchevole nell’opera di uno scrittore che si era sempre affidato a un alter-ego a lui assai somigliante e a una città che, seppur minutamente dettagliata nella facies urbanistica, aveva forme di emblema (Lo Stradone).
Eppure, non si può fare a meno di notare come in quel trio in cui tanto è l’affiatamento da essere suggellato in una sigla organica (GEF) siano riscontrabili ossessioni e caratteri eminentemente suoi che Pecoraro distanzia, però, attribuendoli affettuosamente a degli “scapocchioni” di una generazione che crede “in tutto e in niente, fin da ragazzi”.
Enzo, il grafico “cripto-depresso” afflitto dal malfatto del circostante; Giacomo l’intellettuale dotato della coscienza digressiva che animava alcune delle pagine più abbacinanti dei libri precedenti; Filippo, l’uomo “muscolato” a suo agio con la natura e le donne.
A inseguirli, un narratore che ci si figura appostato nell’abitacolo della Yaris mentre annota gli scambi in romanesco light (“Porcoddena non se pò sentì” ), penetra nei loro flussi di coscienza o nei gerghi (“er pianeta”); ne spia con invidia la gioia rilassata: “A quest’ora della notte viene fuori il miele della loro amicizia, che consiste nella disinvoltura del dirsi cose anche sgradevoli senza conseguenze, insomma nella libertà di parola che tra loro c’è sempre, ma adesso di più, perché dis-inibita dall’alcol e dalle notti affratellanti”.
E però come fa notare Andrea Cortellessa, a dispetto di certi titoli (La vita in tempo di pace) Pecoraro è anche uno scrittore di guerra. Nella seconda parte conosciamo Biba, ragazza eroticamente implicata con tutti e tre gli amici. Mentre loro discutono le notizie alla radio, accontentandosi di sentirsi “intimamente” impegnati, Biba è a Genova dove assiste alla “più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”.
Di fronte al pericolo la ragazza scappa, come scappava Ivo Brandani nel romanzo d’esordio, e raggiunge i tre ad Anzio. Diversamente da Carlo Giuliani che, quel giorno, aveva il costume da bagno sotto i pantaloni. Non svelerò il finale, che è uno dei più belli che mi sia capitato di leggere: basti anticipare che si conclude tra le onde da cui si è richiamati sin dall’incipit. Forse, è bene tornare a Sereni: “Non / dubitare, – m’investe della sua forza il mare – / parleranno”.
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