Io dell’adolescenza non ricordo nulla. Abbandonarla è stata la cosa migliore che potesse capitarmi, o almeno questo è quello che ho sempre risposto a chi, nel corso del tempo, mi ha parlato degli anni del liceo come un periodo dorato.
Non riconosco la persona che sono stata, e non solo perché quando ripenso alle occupazioni, ai corridoi gialli, al neon delle aule, e agli enormi rotoli di carta igienica troppo sottile emerge ancora il senso di vergogna sommessa e di lieve disagio che ha permeato quegli anni, ma anche perché è come se gli strumenti che avevo allora per analizzare me stessa e il mondo fossero così spuntati da non permettermi di percepire gli eventi con chiarezza, né di trattenerne i contorni nella memoria.
Eppure leggendo Spilli, l’esordio di Greta Olivo, quella vergogna e quel disagio, che nei miei confusi ricordi sono tragici, mi sono apparsi improvvisamente teneri. Livia è una ragazza romana bella, pacata e serena che, dopo alcune avvisaglie infantili negate – o forse semplicemente impossibili da elaborare – scopre di essere destinata a perdere la vista a causa di una malattia congenita ereditata dal nonno. Con la determinazione di chi vuole essere accettata a tutti i costi, saldamente attaccata alla propria adolescenza normale, normalissima, fatta di uscite con ragazzi più grandi, motorini e discorsi politici annacquati, nasconde questa sua condizione a se stessa prima ancora che agli altri, comportandosi come una Cenerentola liceale: si inventa scuse con i compagni quando deve tornare a casa al calar del buio – la penombra peggiora la vista –, non ha intenzione di inforcare gli occhiali spessi che nasconderebbero i suoi apprezzatissimi occhi blu, e patteggia un numero massimo di ore in cui può indossare le lenti a contatto con il medico e i genitori. Ma è proprio nel momento in cui inizia ad assaporare i frutti dell’essere desiderata e di desiderare, che dovrà affrontare la verità: più prima che poi il suo mondo verrà inghiottito dal buio.
E però malgrado questa corsa verso l’inevitabile, il romanzo di Olivo non è drammatico. Mantiene un tono delicato, mai retorico, addolcito dallo sguardo ingenuo di Livia, che più della vista, brama la sua adolescenza.
Parlando al telefono con l’autrice per scrivere queste righe su un libro la cui costruzione mi ha incuriosita, mi sono fatta raccontare di come lei, in realtà, pur non avendo perso la vista, abbia sentito l’adolescenza scivolarle tra le dita. In classe era timida, silenziosa, e per lo più guardava chi aveva l’aria di divertirsi.
“Non riconosco la persona che sono stata, e non solo perché quando ripenso alle occupazioni, ai corridoi gialli, al neon delle aule, e agli enormi rotoli di carta igienica troppo sottile emerge ancora il senso di vergogna sommessa e di lieve disagio che ha permeato quegli anni”.
L’osservazione, a più di dieci anni di distanza, è stata ripagata; sfogliando Spilli si viene colti da una curiosa sorpresa sinestetica: la patina di polvere sui caloriferi bollenti accanto ai banchi dei più freddolosi, le nubi di fumo grigio che si sollevano dalla massa di teste a ricreazione, le giacche North Face e l’odore di sudore rappreso nelle felpe verde bosco, l’incapacità di rendere parola il proprio disagio, l’effluvio di benzina proveniente dal serbatoio dello Scarabeo 50 al distributore, le dita gialle di sigaretta, gli slogan delle occupazioni, l’inesistenza del tempo in quel lago all’apparenza placido, ma in realtà scosso da correnti velocissime, che è l’adolescenza.
E come mai proprio la vista come metafora della perdita? Perché dal nonno, un uomo inquietante dal passato turbolento, Olivo ha ereditato la miopia, e questo fatto, nel corso della sua vita, l’ha spinta a interrogarsi se oltre alla vista offuscata, non ci si tramandi anche un altro genere di ombra.
Per raccontare della malattia, Olivo ha studiato. Ha frequentato per qualche tempo un centro per non vedenti per conoscerli, conoscere il suo personaggio e delineare l’esistenza parallela a quella di liceale di Livia, che si intesse attorno alla relazione con Emilio, un ragazzo cieco che ha il compito di insegnarle l’esistenza al buio. È lui che, essendo a conoscenza del suo segreto, diventa anche il ricettacolo della rabbia e della tristezza di Livia. Emilio è irraggiungibile per lei, perché “non sembra cieco” per come si muove e per il rapporto felice che ha con la fidanzata, mentre lei, malgrado le lezioni che segue, si sente “una ritardata” quando, secondo Emilio, questa sensazione è dovuta unicamente al fatto che Livia “fa solo finta di essere cieca”, senza avere il coraggio di esserlo per davvero.
“È proprio nel momento in cui inizia ad assaporare i frutti dell’essere desiderata e di desiderare, che dovrà affrontare la verità: più prima che poi il suo mondo verrà inghiottito dal buio”.
Alcune pagine da ricordare: quelle in cui Daniele, un amico un po’ colloso e troppo insistente di Livia, la molesta con quella goffagine dei maschi adolescenti poco sensibili (interessante come l’autrice riesce a descrivere quell’umiliazione – in teoria di lui – che in qualche modo si trova a dover accogliere ed elaborare lei, come succede alle ragazze giovani da sempre e, temo, per sempre continuerà a capitare).
E poi quelle in cui la madre di Livia, in preda a un moto spontaneo e un po’ maldestro, per consolare la figlia la porta a una mostra di fotografia e le descrive le immagini una per una, facendole sperimentare una potenziale, nuova normalità:
“In questa c’è un uomo con i denti neri. Nell’altra accanto una donna con il collo lungo da giraffa, gliel’hanno allungato con degli anelli. È una cosa che si fa, in certe culture”. Con la luce al neon appesa al soffitto, riuscivo a vedere qualcosa anche io, ma niente somigliava a quello che descriveva mia madre. Avrei voluto dirglielo che le persone mi sembravano montagne, che dove c’erano degli uomini con i turbanti rossi, io ci vedevo dei pomodori maturi, e che la scimmia con il pelo congelato era per me un signore arrabbiato. “Perché ridi?”, mi chiese lei a un certo punto, e stavo per parlare, ma poi cambiai idea. Mi sembrava che, per la prima volta dopo tanto tempo, mia madre non avesse più paura di me”.
Lo stile è molto semplice e i dialoghi brevi, fatto che, come scrive Martin Amis ne La storia da dentro (edito sempre da Einaudi), li rende credibili al punto da farli scorrere via. Forse alcuni personaggi sono un pochino fumosi e si entra nel libro dopo qualche pagina, perché bisogna abituarsi al ritmo rilassato dell’autrice, ma direi che questi, se anche fossero peccati, sarebbero assolutamente veniali, perché non si capisce cosa si dovrebbe chiedere di più a un esordio.
Irene Graziosi
Irene Graziosi è autrice, scrittrice e vicedirettrice di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).
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