L’icona degli anni Ottanta che non voleva esserlo. Intervista a Elisabetta Valentini - Lucy
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Giada Arena

L’icona degli anni Ottanta che non voleva esserlo. Intervista a Elisabetta Valentini

20 Marzo 2024

L'esplosione nel mondo della moda, il rifugio nella scrittura, la scoperta della fotografia. E poi la relazione clandestina con Ugo Tognazzi e l'amicizia con Pier Vittorio Tondelli: un'intervista a Elisabetta Valentini a partire dalla riedizione del suo romanzo autobiografico "Fotomodella" (Accento).

Quando Elisabetta Valentini mi apre la porta del suo appartamento, in un imponente palazzo storico che sfiora il centro di Firenze, i miei occhi si riempiono di meraviglia. Le pareti e il soffitto sono ricoperti di affreschi perfettamente conservati, che contrastano sapientemente con la modernità dell’arredamento rigoroso, le eleganti fotografie in bianco e nero appese alle pareti e il total black indossato da chi la abita. Nel corso delle ore successive, capirò che quella casa riflette perfettamente lo spirito di Elisabetta, che nella sua vita è riuscita ad armonizzare tante cose, senza mai perdere un’affascinante specificità.

Top model e icona androgina negli anni Settanta e Ottanta, Valentini diventa scrittrice nel 1988, quando pubblica Fotomodella nella collana Mouse to Mouse curata per Mondadori dall’amico Pier Vittorio Tondelli: nel libro, un romanzo autobiografico, racconta il decennio in cui è inaspettatamente finita sulle passerelle più importanti del mondo – ma anche la nascita della travolgente relazione con un attore molto noto, un uomo sposato più grande di lei di cui non viene mai fatto il nome. In seguito si scoprirà che si tratta di Ugo Tognazzi, ma lei, ancora oggi, continua a chiamarlo “lui” o “l’attore”, come fa nel libro, e sembra una naturale conseguenza della clandestinità di questo lungo amore, tanto potente quanto taciuto.

Scopro la sua storia nel 2023, quando Accento Edizioni ripubblica Fotomodella e il suo volto magnetico in copertina mi attira in modo inspiegabile, quasi magico, a sé. Oggi Elisabetta Valentini è una fotografa e mi racconta con vivacità i suoi progetti, le sperimentazioni con la stampa e i materiali più disparati, i viaggi intorno al mondo. Parliamo per ore, ha la voce calda e roca e il suo accento fiorentino si tinge di sfumature ironiche che non si possono del tutto restituire nella trascrizione. Sembra un sasso modellato da mille corsi d’acqua; ha la serenità di chi è riuscita a trovare e preservare l’essenza di sé, nonostante tutto.

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Fotomodella nasce da un’intuizione di Pier Vittorio Tondelli, che ne è stato editor – e si vede. La tua prosa cruda dipinge il ritratto spietato di un ambiente (e di un decennio) che siamo abituati a immaginare come opulento, godereccio, ma dalle pagine spesso traspare una profonda sensazione di solitudine. Come ricordi, a più di trent’anni anni di distanza, la nascita del libro?

Il progetto è nato durante un mio anno sabbatico. Mi ero presa del tempo per riflettere, perché si erano appena concluse sia la mia esperienza di modella sia la storia d’amore che mi aveva sostenuta umanamente, psicologicamente e sentimentalmente nel corso di tutti quegli anni, pur vivendo due esistenze separate. In quel momento stavo lasciando andare tantissimo della mia vita, mi sentivo in una terra di nessuno, e ho incontrato Pier. Chissà, sarà stato destino. Aveva una sensibilità molto vicina alla mia e, tempo dopo, scoprii che eravamo in una sorta di terreno comune, che era questo attraversamento dell’addio.

Pier Vittorio curava la collana Mouse to Mouse ed era alla ricerca di autenticità, voleva proporre autori e storie che fossero lontani dal mondo della letteratura. Mi chiese se avessi voglia di pubblicare un libro sulla mia esperienza nella moda, ma all’epoca scrivevo cose molto brevi, haiku, non avevo mai pensato a un romanzo o alla scrittura come professione: gli dissi che ci dovevo pensare e ci misi molto a dargli una risposta. Nel frattempo ci siamo frequentati, andavamo a bere le birre e a fare gli aperitivi, eravamo molto vicini – anche nel silenzio.

Alla fine del 1986, gli dissi: “Ci provo, facciamolo”. All’epoca vivevo a Milano, in via Bramante, in un appartamento al quinto piano con il soffitto di vetro; faceva un freddo boia e non c’era l’ascensore. Ricordo perfettamente il giorno in cui Pier è arrivato a casa mia: alto, slanciato, con un cappotto nero e un ombrello, bello ed elegante nonostante la pioggia e i cinque piani a piedi. Io gli avevo preparato l’idea del mio libro sul pavimento: avevo disegnato i personaggi, le storie, era tutto per terra e lui ne era affascinatissimo. E così è cominciata questa avventura.

Com’è andata la stesura? Un’opera prima, in un periodo così particolare della tua vita…

Ci ho messo poco, sei mesi, perché sentivo dentro di me qualcosa che scalpitava. C’era una voce che voleva, doveva essere espressa: io ero una modella, venivo da un’arte muta – e da una relazione altrettanto muta, clandestina, segreta. Scrivevo, scrivevo dappertutto, e poi camminavo moltissimo, facevo chilometri parlando dentro al registratore. Fotomodella, in fondo, è nato dalle mie gambe, la voce è uscita dal corpo in cammino. E poi c’è stato il supporto felice, raggiante e fortunatissimo di Pier, che mi ha dato la chiave per scrivere – e soprattutto riscrivere: l’autenticità di questo libro nasce dalla riscrittura.

È stato un editor profondamente rispettoso, non mi ha mai forzata. Ti faccio un esempio: sebbene fossi sparita dalla vita dell’attore (allora era molto più facile, senza i social) e credessi definitiva la nostra separazione, a un certo punto lui è tornato. Quando ha saputo del libro, mi ha pregato di fare esplicitamente il suo nome, come se volesse restituirmi qualcosa. In effetti citarlo avrebbe attirato un pubblico vastissimo, garantendo a Fotomodella un grande successo commerciale… Ma non era quello che volevo: per me doveva restare un progetto privato, parte di un percorso di emancipazione. Mettere il suo nome avrebbe stravolto il significato del mio lavoro, così gli dissi di no, promettendo che l’avrei fatto in un altro momento. Pier Vittorio rispettò moltissimo questa mia decisione.

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Facciamo un passo indietro per tornare a quando eri “una ragazza di diciassette anni, con un cappello da uomo e sangue zingaro nelle vene”. Tutto inizia a metà degli Settanta, quando lasci Firenze e la casa in cui sei cresciuta per trasferirti a Milano: provavi più paura o eccitazione?

Ricordo una grande spinta, la stessa che poi mi ha portato a conoscere il mondo. E poi volevo l’indipendenza di mia madre, sollevarla dal sacrificio di occuparsi di me; andare via di casa è stato innanzitutto un passo fuori dal cerchio intimo e simbiotico che avevo con lei. Ricordo tutto perfettamente: la porta che si apre, il rumore dei passi sui gradini, il viaggio verso Milano…

Una volta lì, inizia la tua gavetta da modella, che nel libro racconti in maniera dettagliata e iperrealistica: le attese estenuanti, i viaggi, i casting, la scoperta del mestiere, lo squallore e la frustrazione che ne derivano. Nella descrizione di una delle tue prime sfilate, c’è una frase molto eloquente: “Tutte noi dobbiamo dare l’impressione di non aver mai parlato in vita nostra”.

Bisogna partire dal presupposto che per me la moda non è mai stato il grande sogno. Avevo un certo senso estetico, sentivo di essere un’artista, ma non riuscivo a capire in che direzione andare. Quello di modella era un lavoro perfetto perché mi dava la possibilità di viaggiare, di non avere orari, di essere completamente indipendente grazie a un ottimo stipendio… Mi presentavo ai casting e venivo presa, ma ho tentennato un po’ prima di considerarla una professione.

Sono stata fortunata, perché il periodo in cui ho deciso di farlo seriamente è lo stesso in cui a Milano sono nati i marchi che poi hanno reso grande il prêt-à-porter. C’erano dei veri talenti al lavoro.

“Ci ho messo poco, sei mesi, perché sentivo dentro di me qualcosa che scalpitava. C’era una voce che voleva, doveva essere espressa”.

Mentre leggevo Fotomodella, mi è tornata alla mente una foto di gruppo scattata da Adriana Mulassano nel 1985 in cui si vedono Gianni Versace, Giorgio Armani, Franco Moschino, Valentino, Ottavio Missoni e altri grandi nomi dell’epoca posare davanti al Duomo di Milano. Hai sfilato per molti di loro in un momento irripetibile in cui il made in Italy ha cambiato la storia della moda: com’è stato viverlo?

Si sentiva che c’era qualcosa nell’aria. La moda era diventata una delle voci primarie dell’economia italiana, gli stilisti affermavano il proprio stile e si prendevano uno spazio. Ma mentre lo vivi non ne sei consapevole: mentre vivi, vivi. Non ne ero del tutto consapevole neanche durante la stesura del libro, sai?

E poi ho sempre avuto uno sguardo completamente distaccato sulle cose, che è stato la mia salvezza.

Nel libro si nota, e mi ha fatto riflettere. Oggi si fa molta autofiction e vengono pubblicati memoir quasi sempre costruiti intorno a uno o più traumi, mentre in Fotomodella non si esita mai troppo sulla tua sofferenza, non c’è traccia di vittimismo – e allo stesso tempo neanche di giudizio. A posteriori, ritieni che nella tua esperienza di modella ci siano stati elementi traumatici?

Sì. Penso alla mia prima sfilata, a Palazzo Pucci: ero giovanissima, mi sono ritrovata a chiudere la sfilata in abito da sposa e per me fu così scioccante che, quando finì, mi chiusi in bagno e piansi. Sono una persona molto riservata e avere gli occhi del pubblico addosso mi faceva sentire più nuda che vestita, creò una ferita enorme dentro di me.

Ti feriva di più lo sguardo altrui o l’ipotesi che qualcosa potesse andare storto?

Entrambe le cose, ma soffro tuttora l’impatto col pubblico quando mi invitano a presentare il libro, a parlare con le persone. Ricordo, per esempio, la prima presentazione al Salone del Libro di Torino: ho avuto dei grossi problemi prima di arrivare a quel momento, mi sono dovuta fare una bella cura omeopatica per abbassare l’ansia [ride].

Per fortuna con me c’erano Matteo B. Bianchi e Antonella Lattanzi [direttore editoriale di Accento e autrice della prefazione, nda] e, anche grazie a loro, ho scoperto che la voce poi arriva, le parole escono. In fondo, gli incontri pubblici danno un senso al tuo lavoro, ti ricordano che i lettori sono persone in carne e ossa e puoi relazionarti con loro.

È sorprendente che il libro venga ancora letto, apprezzato, considerato attuale. Questa, per me, non è stata solo una riedizione, ma una rigenerazione totale.

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Credo anch’io che sia un libro molto attuale, perché le dinamiche umane che racconti – la fragilità, la vanità, la competizione – sono universali, esistono a prescindere dal decennio.

Sì. Certo, gli anni Ottanta ci sono, ma fanno da sfondo.

Gli anni Ottanta sono anche nella tua immagine dell’epoca, nella tua bellezza sfuggente rispetto ai modelli binari di genere, perfetta per quella moda femminile che si stava evolvendo. A un certo punto, però, tu scrivi: “Io sento nella mia anima un rigore che non lascia spazio alle leziosità, sento il peso di una bellezza esterna che non lascia trasparire l’altra. […] Il corpo somatizza e il mio si è nutrito di stile. È un corpo che è diventato cervello, ha perso quel senso di calore e di piacere che danno i corpi larghi e generosi”. Hai mai percepito il tuo corpo come un fardello?

Come modella ho dovuto dominare, addomesticare il mio corpo, educarlo affinché diventasse un’immagine precisa per chi mi guardava. Mi sono ritrovata con un corpo che è stato strumento, fondamentalmente – ma io ho rispettato moltissimo il mio sentire. Negli anni Ottanta, la top model era una persona che interpretava la moda: una donna di carattere, con una sua personalità. Guardandomi allo specchio vedevo mille difetti, ma la professione mi aveva insegnato a esaltarli e renderli parte della mia identità.

Come donna, ho avuto piena consapevolezza del mio corpo intorno ai quarant’anni: credo sia il momento in cui la femminilità è più fiorita, più piena. Adesso che ho sessant’anni, anche se il tempo trascorre ed esteticamente ho dovuto rimettermi a fuoco, dentro di me sento intatta, immutata la freschezza del fanciullo.

Comunque credo che la bellezza sia veramente di tutti e sia ovunque. Ho uno sguardo d’amore nei confronti del prossimo, è lo stesso che mia madre ha avuto su di me e penso di averlo ereditato da lei. Amo captare la bellezza che sfugge dal protocollo, dal prototipo, ed è nell’essenza delle cose.

L’amore è un altro tema centrale del tuo libro. Racconti la tua relazione estremamente complessa con Ugo Tognazzi senza mai perdere, appunto, questo tuo sguardo d’amore; mi ha colpito la grande lucidità con cui tu, giovanissima, scegli lui come compagno e porti avanti questa storia nonostante tutto.

Oggi c’è il grande ritorno della narrazione della moglie tradita (penso al documentario su Ilary Blasi che, per assurdo, mi ha ricordato la famosa intervista di Lady Diana alla BBC, nel nostro matrimonio eravamo in tre), ma tu mostri in maniera abbastanza inedita la sofferenza dell’altra. C’è stato un momento preciso in cui hai capito che quello con Tognazzi fosse un grande amore?

Subito. Perché l’amore quando ti piglia è così, ti ammazza. Era lui, punto.

Ovvio, una situazione del genere poteva esistere soltanto se ci fosse stata una grande libertà reciproca, un’individualità totale: nessuno dei due doveva subire in nessun modo l’altro. Tra noi c’era una disparità economica e di potere che poteva diventare molto ambigua, ma si è subito livellata grazie al successo che ho avuto con la mia professione.

Poi lui ha fatto le scelte che ha fatto [Tognazzi non si separò mai dalla moglie, l’attrice Franca Bettoja, nda], io ho fatto le scelte che ho fatto e probabilmente erano le uniche che potevamo fare. Ma è stata una grande storia d’amore durata fino alla sua morte, più di dieci anni.

Mentre leggevo Fotomodella io vi immaginavo, divertita dal contrasto tra la tua eleganza haute couture e la sua goliardia da commedia all’italiana: sulla carta, sembrate due esseri umani agli antipodi.

Sì, ma eravamo identici su tutto il resto, nella parte più profonda di noi. I pochi che ci hanno visti insieme si stupivano di quanto fossimo simili.

Nel libro, scrivi: “L’amore è mancarsi. Il resto è impossibilità a stare soli. Bisogno di una sicurezza quotidiana. Possedersi, imbavagliarsi, masticarsi. Sapere di non digerirsi. L’amore è lasciarsi liberi, girare sempre con qualcosa dentro. Per questo a volte puoi pensare, erroneamente, che diventi eterno”. A tanti anni di distanza da quella storia, la pensi ancora così?

Sì, sono ancora convinta che l’amore, quello vero, dovrebbe essere così. Ma c’è una cosa su cui ho cambiato idea: oggi credo che l’amore possa essere eterno.

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Se c’è purezza, il sentimento diventa eterno e può manifestarsi in modi straordinari. Mi capita di sentire la vicinanza di Ugo, a volte penso che questa riedizione sia un regalo suo e di Pier.

In altre occasioni, hai raccontato che sono stati anche questi due lutti ravvicinati a darti una grossa spinta per intraprendere, poi, la carriera di fotoreporter. Quando hai preso la decisione di lasciare tutto e partire per scrivere e fotografare?

In quel momento avevo bisogno di uno strappo più forte. E poi ho fatto un sogno: ho sognato Ugo e Pier, erano tutti e due su una nave che si stava staccando dalla terraferma e mi lanciavano un cappello. Così ho deciso di andare: sono stata in Iran, in Cina, in Africa, ho girato il mondo raccontando i miei viaggi.

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Il tuo sguardo era molto fotografico già in Fotomodella: alcune descrizioni ricordano l’ironia di Martin Parr, altre il verismo di Nan Goldin o l’erotismo di Nobuyoshi Araki, altre ancora l’algida eleganza di Helmut Newton. Riesci ad evocare delle immagini nitide anche con la tua scrittura.

Sì, me lo diceva anche Pier Vittorio. Forse è perché, negli anni, ho sempre avuto la macchina fotografica in mano.

Io non ho mai conosciuto mio padre, ma le uniche due cose che mi ha lasciato sono una macchina fotografica e una macchina da scrivere Lettera 22: quindi non so se nel subconscio, magari… [ride]

“Adesso che ho sessant’anni, anche se il tempo trascorre ed esteticamente ho dovuto rimettermi a fuoco, dentro di me sento intatta, immutata la freschezza del fanciullo”.

Cosa ti ha insegnato l’esperienza di fotografa, questo passaggio – potremmo dire – da oggetto a soggetto?

Quando ero una modella, ero al centro dell’obiettivo e del fuoco; il rapporto con la fotografia, invece, ha a che fare col mio amore per la periferia, con i margini da cui vengo a mia volta e che considero una fonte di ricchezza pura.

È diventato chiaro con Alza gli occhi e guarda, un progetto che ho realizzato nel 2005 a Napoli, nel rione Sanità: mi sono fatta accogliere dal quartiere rispettandolo profondamente, provando a renderlo visibile senza snaturarlo. Fare una mostra di quelle fotografie a Milano o altrove mi avrebbe fatto sentire come se stessi scippando le persone ritratte senza lasciar loro niente: così ho deciso di stampare le foto su dei teloni, che poi sono stati stesi come lenzuola nei vicoli del quartiere. Ricordo con grande emozione la meraviglia e l’orgoglio nello sguardo dei ragazzi più giovani.

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In generale, cerco sempre di scattare foto che abbiano un intimo senso di relazione – anche quando mi capita di fare fotografia di moda.

Chi ti piace nella moda oggi?

Sono stata favorevolmente attratta da Alessandro Michele per il lavoro che ha fatto su Gucci e che trovo geniale, cioè sdoganare le dicotomie tra bello e brutto, tra il possibile e il non possibile. Ha anche raccontato di come, alla fine, tra tutti questi vestiti ci sia un vuoto profondo e totale, un vuoto che risucchia tutto quanto – e l’ha raccontato con le sue sfilate, l’ha raccontato con i suoi video e l’ha raccontato con le sue pubblicità. È stato un atto rivoluzionario e mi è piaciuto tantissimo.

Oggi, però, la situazione mi pare abbastanza ambigua, perché non emergono i nomi dei designer ma solo i marchi per cui lavorano. I talenti non emergono perché sono al servizio di un’azienda – e poi le donne sono ancora poche, pochissime.

Fotomodella si chiude con la frase: “Nessuno può sapere la pace che hai dentro”. La senti ancora?

Sì, è rimasta lì. Riuscire a preservarla nonostante le tempeste, le perdite, i lutti e il dolore richiede un grosso lavoro, ma è una conquista.

Interrompo la registrazione, ma la nostra conversazione continua mentre mangiamo polpettone all’ombra di un poster con un “menù per una Grande Abbuffata” realizzato da Tognazzi, cuoco appassionato e protagonista del film di Marco Ferreri. Mi racconta del nuovo libro a cui sta lavorando e parliamo di moda e fotografia, letteratura e arte; mi spiega che qualcuno, in quel palazzo, ha preferito modernizzare gli appartamenti coprendo gli affreschi, ma lei ha voluto restaurarli, limitandosi a cancellare le scritte fatti dagli autonomi che occuparono lo stabile negli anni Settanta.

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Poi, forse complice il vino, le confido che, se mi sono appassionata alla sua storia tanto da volerla incontrare, è anche per il modo in cui l’ho sentita risuonare con la mia: da ragazzina sono stata un’attrice (come lei per caso e prevalentemente per soldi) e so quanto sia difficile e liberatorio scriversi un nuovo biglietto da visita. Guardo Elisabetta e mi sembra così risolta, centrata: per un attimo penso che mi piacerebbe diventare come lei, un giorno.

Tutte le foto sono di Giada Arena e su gentile concessione di Elisabetta Valentini.

Giada Arena

Giada Arena è creative strategist e autrice di Lucy. Il suo podcast si chiama nuda e cruda.

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